venerdì 30 aprile 2010

Immagina un mondo senza bambini soldato





Immagina un mondo senza bambini soldato!
il lavoro di giovani ternani per liberare
dalla guerra tutti i giovani del mondo






Convegno
Palazzo Gazzoli – sala rossa - Mercoledì 8 giugno 2005



Questo incontro ha una duplice ambizione: Parlare di bambini soldato. Parlare di giovani oggi. Il tema della guerra e quello dei giovani sono accomunati da un fatto: se ne è detto e scritto tanto. Ne parla la TV, ne scrivono i giornali. Esperti, psicologi, sociologi, ce ne spiegano continuamente le dinamiche, le espressioni, le implicazioni individuali e sociali. Anche un altro fatto però hanno in comune: se ne parla tanto, ma senza guardarli in faccia, sempre con la mediazione di chi “sa già” ed ha già una spiegazione per tutto.
Come gruppo dei giovani della parrocchia di Santa Croce abbiamo voluto guardare la guerra con gli occhi dei più giovani, quelli dei bambini soldato. Abbiamo così scoperto che il mostro della guerra non solo ai giovani rende la vita impossibile, ma anche quando, bontà sua, non li fa morire, se li mangia e gli ruba la vita. Sono milioni gli anni di vita rubati ai 500.000 mila soldati sotto i 16 anni che combattono, saccheggiano, uccidono in tanti Paesi di tutti i continenti. E’ una montagna di innocenza violata, di futuro bruciato, di sogni negati.
Che fare?
Ce lo siamo chiesti qualche mese fa davanti a dei video che ci mostravano ragazzini di Freetown e di Gulu abituati ad ammazzare. Ce lo siamo chiesti ragazzi ed adulti assieme. Strano, in genere l’adulto ha sempre la risposta pronta e giusta, è più abituato a fare lezioni che a riceverne. Ma davanti a un dramma tale l’unico atteggiamento possibile ci è sembrato quello di restare sbigottiti e muti. Poi, piano piano qualcosa ci siamo detti, è nata la voglia di non restare zitti. Da un momento all’altro ci siamo trovati proiettati dal nostro provincialismo color grigio noia, soddisfatto del poco, alle sfide globali del nostro tempo. E’ nata così una rivoluzione interiore, delle coscienze e dell’anima, un terremoto che presto si è comunicato all’esterno. La comunicatività infatti non è né una dote innata di qualcuno né una tecnica da apprendere alla scuola della pubblicità, ma è avere cose importanti da dire e avvertire l’urgenza di farlo.
I giovani chiedono di essere messi alla prova. Hanno bisogno di qualcuno che per primo accetti di porsi sfide alte per fidarsi di farle proprie. Pretendono, giustamente, che qualcuno dia loro fiducia e stima, per concederle a loro volta. E’ quello che abbiamo fatto, e oggi ve ne presentiamo i risultati. Permetteteci un po’ di orgoglio.
Ecco che allora parlare di bambini soldato e parlare di giovani è diventato un tutt’uno, e vogliamo confrontarci con educatori, insegnati, genitori, preti, politici, ecc… cioè un po’ con tutti quelli che hanno a che fare con i giovani e i loro destini.
Cosa vogliamo dimostrare? Che forse più che la tanto proclamata crisi della trasmissione dei valori da una generazione all’altra c’è una mancanza di credibilità in chi quei valori dovrebbe trasmettere. Poniamoci assieme la domanda di quali adulti quale mondo propongono ai giovani. A volte c’è da augurarsi che non ne seguano l’esempio.
Un incontro, un dibattito, una proposta per mettersi in discussione e far nascere qualcosa di nuovo a Terni.
Temi trattati
I bambini soldato: L’ONU avanza l’ipotesi che i minori di 16 anni impegnati in guerra nel mondo siano circa 500.000 in circa 36 Paesi: Algeria, Angola, Burundi, Ciad, Congo Brazaville, Congo Kinshasa, Eritrea, Etiopia, Rwanda, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Uganda, Colombia, Messico, Perù, Afghanistan, Filippine, India, Indonesia, Isole Salomone, Myanmar, Nepal, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Sri Lanka, Tajikistan, Timor Est, Uzbekistan, Iran, Iraq, Palestina, Libano, Ex Yugoslavia, Russia, Turchia.
Il diritto internazionale:
Convenzione dei Diritti del Bambino: adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 25 Maggio 2000, fissa a 18 anni l’età minima per la partecipazione diretta ai conflitti, per l’arruolamento nei gruppi armati e per il servizio militare obbligatorio.
Statuto della Corte per i Crimini Internazionali (1998): configura come crimine di guerra l’ ”arruolamento di ragazzi sotto i quindici anni nelle forze armate nazionali o il loro utilizzo attivo nelle ostilità”.
African Charter on the Rights and Welfare of the Child: è l’unica carta regionale che si occupa dei bambini soldato, adottata dall’Organizzazione degli Stati Africani (OAU) nel novembre 1999: vieta l’utilizzo di minori in guerra.
Protocolli Aggiuntivi (del 1977) alla Convenzione di Ginevra del 1949 : vieta l’utilizzo di minori in guerra.
Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1261 (1999), 1314 (2000) 1379 (2001), 1460 (2003) e 1539 (2004): vieta l’utilizzo di minori in guerra.
Perché sono utilizzati i bambini soldato: Sono più manipolabili, Costano di meno, Incutono terrore nelle popolazioni civili, Obbediscono ad ogni genere di ordine.
Come avviene l’”arruolamento”: I bambini sono rapiti: Durante i saccheggi nei villaggi, Fra le bande di orfani e ragazzi di strada nelle città, Dalle scuole e dagli istituti, Ma altre volte i bambini si uniscono ai gruppi armati per sopravvivere o perché vogliono vendicare atrocità commesse contro loro familiari.
Per obbligarli a combattere e obbedire ciecamente ai loro capi i bambini soldato sono: Drogati, Costretti a uccidere parenti e vicini di casa per impedire che fuggano, Premiati con cibo, armi e ruoli militari, Maltrattati.
Molti bambini costretti a combattere muoiono perché si espongono ai rischi con meno cautele e sono meno esperti. Se feriti o malati vengono abbandonati o uccisi. Subiscono gravi danni psicologici e sono rifiutati dalle comunità di origine. Anche gli altri ragazzi delle aree in conflitto diventano sospettabili in quanto potenziali nemici
I bambini perdono più facilmente il controllo in situazioni di tensione e sono dal “grilletto facile”. Sono meno capaci di reagire agli ordini più efferati. L’uso dei bambini soldato è favorito dalla diffusione delle armi leggere: anche un bambino di 10 anni è in grado di usarle.
L’Italia è il quarto paese al mondo per esportazioni di armi (dopo Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia) e il terzo per le armi leggere. Molte delle armi usate dai bambini soldato sono prodotte e vendute da industrie Italiane. Mentre il commercio di armi pesanti è strettamente regolamentato, quello delle armi leggere è molto più libero. Spesso rientrano nella classificazione di armi da caccia o sportive e il loro commercio è quindi più facile.
Dal 1996 al 2001 l’Italia ha venduto armi leggere (pistole, fucili, mitragliatrici, ecc…) a 20 paesi in cui combattono bambini soldato: Algeria, Congo Brazaville, Eritrea, Etiopia, Sierra Leone, Uganda, Colombia, Messico, Perù, Filippine, India, Indonesia, Nepal, Pakistan, Sri Lanka, Israele e Palestina, Libano, Ex Yugoslavia, Russia, Turchia.

La petizione al Governo italiano per la quale sono state raccolte finora circa duemila firme da parte dei giovani della Parrocchia:

Considerato che:
- Nel mondo 500.000 bambini sono impegnati a combattere in guerra;
- I bambini e le bambine imparano facilmente ad usare le armi leggere, automatiche, che costano relativamente poco;
- L’utilizzo dei bambini soldato è una delle forme più drammatiche di sfruttamento illegale di minori;
- Molti paesi nel mondo non hanno ancora ratificato il Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia che proibisce il reclutamento militare e l’impiego in guerra dei minori di 18 anni;
- L’Italia ha ratificato il protocollo opzionale alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia ma continua ad essere il terzo esportatore mondiale di armi leggere;
chiediamo:
1) Una moratoria delle esportazioni di armi leggere e “per uso civile” nei paesi in cui sono ancora reclutati i bambini soldato, sia negli eserciti regolari sia in quelli di opposizione armata.
2) L’impegno delle istituzioni italiane per regolamentare il commercio internazionale di armi leggere e contro l’utilizzo dei bambini soldato nel mondo.
3) Che l’Italia “adotti” 500 bambini soldato (l’uno per mille del totale) per un programma di rieducazione, riabilitazione e formazione professionale in vista del loro reinserimento nei paesi d’origine.

La Parrocchia di Santa Croce è una piccola parrocchia al centro di Terni che si caratterizza come un centro sono in cui sono accolti per la preghiera e la liturgia gli abitanti del quartiere ma anche molte persone di passaggio. Accanto all’aspetto religioso, la parrocchia ha particolarmente a cuore l’accoglienza a tutte le persone che per motivi vari si rivolgono a lei in cerca di sostegno. Lo fa attraverso:
Un centro di accoglienza settimanale che distribuisce alimentari, vestiario, prodotti per bambini e generi vari, consulenza e accompagnamento e servizio lavanderia per circa 70 famiglie (circa 250 persone).
Un centro di accoglienza notturno per un totale di 9 persone ospitate.
Un servizio di distribuzione serale di pasti ai senza fissa dimora e nomadi.
Un servizio di visita agli anziani nell’Istituto “Le Grazie” di Terni.

I realizzatori di sogni:
Così si sono voluti chiamare i più giovani che si incontrano a Santa Croce. Sono adolescenti e ragazzi conosciuti durante iniziative nelle scuole pubbliche o in altre occasioni di incontro organizzate della parrocchia. A dicembre hanno fatto una raccolta di giocattoli usati in 7 scuole elementari di Terni, coinvolgendo circa 700 bambini. I giocattoli sono poi stati selezionati e preparati per essere venduti in un mercato a corso Tacito. Il ricavato è stato utilizzato per finanziare una casa famiglia per ragazzi di strada a Kiev (Ucraina).
Da febbraio si sono assunti il problema dei bambini soldato attraverso un lavoro di documentazione e diffusione della conoscenza del fenomeno nelle scuole medie (Istituto Leonino e Scuola Media Statale Leonardo da Vinci) catechismi e oratori parrocchiali, raggiungendo circa 500 adolescenti di Terni e Narni. In questi mesi hanno inoltre raccolto circa 2000 firme per la petizione al Governo Italiano.

Gli interventi dei più giovani al convegno:
“Tutto è cominciato una mattina di qualche mese fa: un video a scuola, più o meno quello visto oggi anche da voi, e una domanda: “Che fare?”
Che la guerra fosse una schifezza, lo sapevamo già, ma i ragazzi come me, almeno quelli, pensavamo che li lasciassero stare. Invece no, Charles ha pochi anni meno di me: io vado a scuola e a giocare a calcio a S. Francesco, lui invece tira cocaina e spara. Luis taglia braccia e piedi a colpi di machete. Il “Comandante Highway” ridacchia di chi è morto dissanguato.
I miei nonni hanno vissuto la guerra, da bambini. Mi hanno raccontato qualcosa, ma sono solo ricordi un po’ sbiaditi: la paura, la mancanza di cibo, i giochi poveri in mezzo alle macerie delle case. Credevo che fossero cose di altri tempi, invece sono solo cose “lontane”. Nel senso che sì, succedono ancora, ma solo in paesi lontani dall’Italia. Le trasmissioni per ragazzi della TV queste cose non ce le raccontano: per loro basta che mangiamo merendine e giochiamo al virtuale che tutto va bene. Le mamme sorridono e i bimbi ingrassano. In Uganda no: le donne perdono figli e la guerra guadagna soldati bambini. A Freetown alla gente i ragazzi non sorridono, sparano.
O non viviamo nello stesso mondo o tutti sono impazziti.
Abbiamo pensato: che fare? Semplice, ci siamo detti, cambiamo canale, anzi spegniamo la TV. Basta alle pubblicità, ci siamo voluti informare. La guerra ora ha un sapore disgustoso che ci fa andare di traverso la Nutella e il Mulino Bianco. Al posto di Charles ci potrei essere io, al posto di Luis il mio compagno di banco. Comandante Highway potrebbe essere il figlio del mio vicino di casa con cui gioco al computer. Che cosa ho fatto io per scampare questo destino? Non lo so, ma una cosa ce l’ho chiara: ora so che faccia ha la guerra, la loro.”

“Qualche idea chiara ce la siamo fatta:
primo: anche i ragazzi della nostra età possono avere opinioni
secondo: certe cose bisogna saperle, non si può restare ignoranti su come va il mondo
terzo: vogliamo far sentire la nostra voce.
A chi ci propone una vita spensierata rispondiamo: è una cosa troppo seria per prenderla alla leggera. Ma non credete che siamo ragazzi strani. Abbiamo scoperto che avere uno scopo importante per cui batterci ci fa essere più uniti e più felici. Sì, felici di essere utili ai tanti Charles che abbiamo incontrato. Una mia amica di scuola mi diceva che da quando ho cominciato a interessarmi dei bambini soldato sono cambiata. Prima, lo confesso, mi vergognavo di parlare davanti a tanti, come ora sto facendo, e non potete immaginare che paura mi fa ancora. Ma è troppo importante per starsene zitta. Questa mia amica ora ha cominciato anche lei a raccogliere firme con noi, ed oggi è qui in sala. Mi viene l’idea che forse essere felici sia contagioso.”

“Fermare la gente per strada e chiedere di riflettere non è una cosa facile. Qualche volta ci siamo sentiti dei guastafeste: “che stai a parlare di cose così tristi? ” ci dicevano alcuni con gli occhi, magari senza il coraggio di dirlo a parole. Tanti però ci hanno dato retta. Ci siamo così resi conto che la parola è un’arma potente, tocca il cuore e convince la mente. Con la parola abbiamo smosso muri o anche solo sollevato la polvere: tutte e due le cose non fanno vedere oltre se stessi. Abbiamo capito così perché Gesù si è affidato alla parola e ci ha lasciato come tesoro più prezioso proprio le sue parole, cioè il Vangelo. Spiegarsi non è facile, bisogna essere convinti di qualcosa e che è importante comunicarla agli altri: lo abbiamo sperimentato incontrando tanti. Gesù infatti non faceva “lezioni di teoria”, quello che ha detto l’ha vissuto lui per primo. Oggi le parole si sprecano, si consumano, e perdono significato. Peccato, perché, se sono vere, è l’unica cosa che abbiamo per mettere in comunicazione i cuori. Siamo cristiani, e per questo le parole, ogni parola, ha per noi un colore e un calore, un sapore forte. Abbiamo imparato ad ascoltarle e a usarle, ne siamo orgogliosi. La parola “pace” è un volto; “bambini soldato” sono amici; “sogno” è quello che da sapore alla vita; chi le sciupa impoverisce sé e il mondo, che le ama è ricco.”






Giovani oggi: sfida globale o noia locale?

don Roberto Cherubini
parroco di Santa Croce


Sono particolarmente felice oggi, nell’aprire questo nostro incontro. Non è frequente infatti ritrovarsi in tanti, come oggi, a parlare e riflettere insieme su un tema particolarmente scottante, come quello dei bambini soldato, e, soprattutto, di farlo assieme a dei giovani loro coetanei. E’ anche raro, forse troppo raro, che noi adulti stiamo a sentire, specialmente poi dei ragazzi. C’è infatti una disabitudine all’ascolto, oggi che siamo nell’epoca della comunicazione, che ci colpisce un po’ tutti. Siamo cioè abituati a dire la nostra, a esprimere giudizi, un po’ meno a confrontarci pacatamente e con serietà, come vorremmo fare oggi.
Il tema della guerra e quello dei giovani sono accomunati da un fatto: se ne è detto e scritto tanto. Ne parla la TV, ne scrivono i giornali. Esperti, psicologi, sociologi, ce ne spiegano continuamente le dinamiche individuali e sociali. Anche un altro fatto però hanno in comune: se ne parla tanto, ma sempre meno li si guarda in faccia, senza la mediazione di chi “sa già” ed ha già una spiegazione per tutto. Spesso si va avanti per giudizi preconfezionati. Eppure, se ci pensiamo bene, di cosa dovremmo preoccuparci di più se non del futuro, nostro e dell’umanità, che così tanto si decide fin da ora proprio da come crescono i nostri giovani e da quanta guerra e quanta pace c’è nel mondo? Proprio questo abbiamo voluto fare: come giovani e assieme ai giovani abbiamo voluto guardare la guerra con gli occhi dei più giovani, quelli dei bambini soldato. Abbiamo così scoperto che il mostro della guerra non solo ai giovani rende la vita impossibile, ma anche quando, bontà sua, non li fa morire, gli ruba la vita. Sono milioni gli anni di vita rubati ai 500.000 mila soldati sotto i 16 anni che ancora oggi saccheggiano, uccidono in tanti Paesi di tutti i continenti. E’ una montagna di innocenza violata, di futuro bruciato, di sogni negati.
Sì, sogni, perché ascoltandoli parlare abbiamo scoperto che i ragazzi costretti a combattere hanno dei sogni, quei sogni che tante volte a noi mancano. Sogni di futuro migliore, fame di vita vera, sete di umanità.
Guardare in faccia la guerra e farlo con gli occhi dei giovani ci ha allora aiutato a capire meglio alcune cose: prima di tutto che la guerra è un concentrato di tutte le disumanità, tanto da non arrestarsi neanche di fronte ai bambini. Ma poi ci ha mostrato il desiderio, anzi il bisogno di tanti nostri giovani di essere messi alla prova. Il mondo degli adulti infatti, e qui intendo genitori, insegnanti, educatori, preti, politici e un po’ tutti quelli che hanno in un modo o nell’altro a che fare con i giovani e i loro destini, troppo spesso ho l’impressione che abbia smesso di aspettarsi molto dai giovani. Forse anche perché, chiedere loro molto è impegnativo innanzitutto per sé. Come dicevo poco fa, esistono già tanti giudizi preconfezionati sui giovani come categoria, a che vale la fatica di farsene uno su misura per ognuno, di verificarlo, di mettersi in ascolto per cercare di capire? E spesso, se non sempre, quello preconfezionato è un giudizio amaro: si dice che i giovani sono immaturi, inadeguati ad assumere responsabilità, caratterialmente fragili, psicologicamente labili, culturalmente impreparati, ecc… la litania è lunga e tutti l’abbiamo sentita, se non snocciolata, parecchie volte. Ma, mi chiedo: ammesso e non concesso, che questa sia la realtà, non è proprio per questo necessario un sovrappiù di lavoro per accompagnare, sostenere, affiancare? Eppure, guardandoci attorno, di sforzi se ne vedono molto pochi. La scuola sceglie sempre più modelli competitivi, che tendono a “premiare i meritevoli”, come si usa dire, cioè a darsi da fare con chi è più facile da seguire e a escludere chi non ce la fa a stare al passo e richiede più lavoro in chi lo educa. La dispersione scolastica raggiunge, specie al sud, livelli da terzo mondo, e sempre più larghe fette di giovani sono tagliate fuori: si pensi ai portatori di handicap dopo le drastiche riduzioni di organico degli insegnati per il sostegno e l’accompagnamento scolastico. Ma ancora peggio, l’irrequietezza dei bambini, un tempo quasi sintomo di buona salute e sveltezza intellettuale, da problema educativo è divenuta patologia da trattare medicalmente. Cioè la mancanza di efficacia dei sistemi scolastico ed educativo invece che far interrogare sull’adeguatezza dei metodi adottati viene sempre più spesso risolta con uso o, direi, abuso di Prozac e degli altri psicofarmaci per uso pediatrico in rapida e preoccupante diffusione. Gian burrasca e Pinocchio se vivessero oggi ne riceverebbero dosi massicce.
Non escludo da questo discorso neanche l’ambiente religioso, come ad esempio le parrocchie. Da anni una strategia pastorale che si riteneva più “moderna” ha consigliato di ritardare l’età del conferimento della cresima per aumentare almeno a due le “tappe” che impegnano i giovani in un percorso parrocchiale: il catechismo per la comunione e quello per la cresima. Ma questo sdoppiamento, mi chiedo, oltre che allungare il tempo di stazionamento nell’ambiente parrocchiale, è significato una trasmissione più incisiva del messaggio evangelico nella vita dei giovani e giovanissimi? Gli indicatori che possono dare una risposta a questo interrogativo sono sotto gli occhi di tutti: i giovani, finito il percorso obbligatorio per ricevere i sacramenti generalmente si allontanano o restano ai margini della parrocchia, fino a scomparire verso i 15-16 anni di età. Come dicono molti catechisti, un po’ sconsolati, “non si fermano” in parrocchia. Anche in questo caso si evita di fare verifiche e il fenomeno, oltre che essere tristemente constatato, è fatalisticamente accantonato come un fallimento dovuto alle tante crisi: della società, dei valori, della famiglia, della religiosità, ecc… Più raramente è il proprio operato quello che viene messo in crisi. Torna allora, anche in ambito religioso, il mesto rosario dei giudizi sui giovani, cui accennavo poco fa.
Mi chiedo allora: non sarà il caso che, invece di lamentarci ed elencare giustificazioni, ci poniamo più seriamente il problema. Non serve a nulla la scusa che già facciamo molto. In sintesi, mi sembra che si possa parlare di un vero e proprio blocco del meccanismo di trasmissione dal mondo degli adulti a quello dei più giovani. Intendo trasmissione dei valori (la pace, la giustizia, il bene comune, la solidarietà, ecc..) ma anche della fede, della fiducia in istituzioni, come la famiglia, la scuola, la parrocchia, la politica, che sempre meno appaiono significativi ed attraenti nella vita di un giovane. A questo blocco la psicologia e la sociologia si affrettano a offrir vagonate di spiegazioni e soluzioni. Io però azzardo un’ipotesi diversa: non sarà che più che avere difficoltà a comunicare i più non vivono loro per primi quello che teoricamente dovrebbero comunicare e quindi, proprio per questo, non sono credibili? In questo senso alcuni fenomeni sembrano evidenziare un bisogno enorme di figure di riferimento, esemplari e stimate per la loro coerenza ed affidabilità. Ad esempiole folle di giovani andate a Roma per rendere omaggio alla salma del pontefice defunto. Cosa avevano trovato tutti quei giovani in quel vecchio invalido? Che cercavano da un tipo così fuori moda e poco accattivante?
Forse avevano trovato un adulto affidabile, che prima di chiedere fiducia ne dava, prima di pretendere qualcosa la viveva lui in prima persona, e per questo suscitava sogni ambiziosi e aspettative. E non si può dire che Giovanni Paolo II non fosse un tipo esigente. Tutti ricordiamo il discorso davanti ai milioni di giovani alla GMG di Tor Vergata. Chiedeva cose alte, perché aveva gustato come era affascinante viverle.
Siamo realisti, ho l’impressione che la maggior parte degli adulti oggi non sono in grado di chiedere cose alte a un giovane, perché loro per primi sono fragili, incerti, se non paurosi, incoerenti e retorici. Pronti a proclamare l’importanza dei valori ma incapaci a viverli coerentemente. Pretendono, ad esempio, che i giovani si confidino con loro, ma non sanno essere fedeli nei rapporti, e il fenomeno dilagante dei fallimenti matrimoniali ne è una prova eclatante. Stigmatizzano la mancanza di ideali nei giovani, ma loro sono i primi ad averli messi in soffitta, una volta passata la ventata di ribellismo giovanile: ne è un esempio il modello, così diffuso anche qui a Terni, di adulto di sinistra, rivoluzionario e snob, che potremmo definire “comunista al cachemire”. Oppure abbondano i benpensanti che proclamano con tono da crociata il valore supremo della famiglia, salvo poi affidare al cronicario il vecchio genitore ormai inutile. Questo è l’esempio che, nella maggior parte dei casi, gli adulti sanno offrire ai giovani; onestamente c’è da augurarsi che non lo seguano.
Forse esagero un po’, ci sono tante eccezioni e distinguo, ma la normalità mi sembra che sia questa. Qualcuno, mi si dirà, dei giovani però ne parla bene, anzi ne è entusiasta. E’ vero esiste anche chi vede nei giovani una sorta di positività innata, spontanea e sorgiva. Sono quegli adulti che, come si suole dire, più che genitori o educatori puntano ad essere i loro amici “alla pari”. Ma cosa significa essere alla pari? Non lo siamo oggettivamente, ma non lo dovremmo essere nemmeno per scelta. Essere adulti ha un valore. Avere qualcosa da trasmettere, senza imposizioni o paternalismi, qualcosa che si impone da sé per la sua evidente verità, non è cosa “da vecchio”, di cui vergognarsi, anzi. Magari avessimo tutti qualcosa di serio e di profondo da comunicare. Ho l’impressione che tante volte dietro la smania di essere “alla pari” si celi un gran vuoto di senso e di maturità.
Allora, che fare?
Ce lo siamo chiesti qualche mese fa davanti a un video che ci mostrava ragazzini di Freetown e di Gulu abituati ad ammazzare. Ce lo siamo chiesti ragazzi ed adulti assieme. Strano, in genere l’adulto ha sempre la risposta pronta e giusta, è più abituato a fare lezioni che a riceverne. Ma davanti a un dramma tale l’unico atteggiamento possibile ci è sembrato quello di restare sbigottiti e muti. Poi, piano piano qualcosa ci siamo detti, è nata la voglia di non restare zitti. Da un momento all’altro ci siamo trovati proiettati dal nostro provincialismo color grigio noia, soddisfatto del poco, alle sfide globali del nostro tempo. E’ nata così una rivoluzione interiore, delle coscienze e dell’anima, un terremoto che presto si è comunicato all’esterno. Comunicativo infatti non è chi ha una dote innata né chi impara la tecnica della pubblicità, ma lo è chi ha cose importanti da dire e avverte l’urgenza di farlo.
Dicevo poco fa: i giovani chiedono di essere messi alla prova. Hanno bisogno di qualcuno che per primo accetti di porsi sfide alte per fidarsi di farle proprie. Pretendono, giustamente, che qualcuno dia loro fiducia e stima, per concederle a loro volta. E’ quello che abbiamo provato a fare, e oggi ve ne presentiamo i risultati. Permetteteci, con un po’ di orgoglio.
Nel Vangelo di Marco leggiamo che una volta un giovane si rivolse a Gesù per porgli una domanda, essenziale e sfacciata, come sanno fare i giovani: come avere una vita felice? Nel linguaggio dell’ebraismo di quel tempo gli disse cioè: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” Gesù, da buon rabbino, gli ricordò il minimo che doveva fare, cioè essere almeno un’onesta brava persona. Si accorse però che a quel giovane il minimo non bastava, lui ambiva a di più. Ecco che allora Gesù accetta di mettersi in gioco, di dargli lui per primo quello che poi avrebbe chiesto a quel giovane di dare agli altri: “Allora Gesù fissatolo lo amò” e poi gli chiese di dare tutto quello che possedeva ai poveri e di seguirlo. Da una domanda, nata in un incontro forse casuale, nasce un dialogo dal quale Gesù non si sottrae con una lezioncina teorica né con un rapido giudizio sommario. Metterci in gioco, in prima persona è quello che anche oggi i giovani chiedono a noi adulti per crescere. Che non sia questo anche il modo per essere degli adulti felici?
Grazie.




Gabriella Podestà
educatrice Parrocchia Santa Croce




Con questo mio intervento vorrei rendere conto del lavoro che in questi mesi abbiamo fatto con i “realizzatori di sogni”, come il gruppo dei più giovani della parrocchia si sono voluti chiamare.
Siam giovani ed adulti convinti che essere cristiani sia qualcosa che si deve vedere, ma non come un’etichetta ma con l’eloquenza di gesti e di un impegno concreto al fianco dei più deboli. Dapprima, a novembre scorso abbiamo voluto raccogliere l’appello di Pavel, ragazzo di Kiev, che, finito per strada per lo sfascio della sua famiglia, aveva trovato qualcuno che si è preso cura di lui. Abbiamo letto una sua lettera che si concludeva: “Spero che tanti ragazzi che vivono come vivevo io incontrino come me qualcuno che li aiuti. A volte li vedo per la strada. Alcuni me li ricordo perché ho dormito e mangiato con loro. Li saluto, ma loro non mi riconoscono e scappano spaventati, lo so perché, è la legge della strada. Vorrei aiutarli ma ci vuole qualcuno che mi dia una mano. Che ne dite voi ?“
Ci siamo dati da fare : siamo andati nelle scuole elementari di Terni, abbiamo raccolto migliaia di giocattoli usati, quelli che i ragazzini non usavano più, ma ancora in buono stato. Raccolti e rimessi a posto abbiamo potuto venderli in un mercato a corso Tacito. Abbiamo spiegato a tanti il perché di quello che facevamo e abbiamo raccolto quanto era necessario per aiutare un gran numero di ragazzi. Eravamo soddisfatti, perché l’inverno sottozero di Kiev almeno per alcuni sarebbe stato meno freddo.
A questo punto non potevamo però fermarci, infatti realizzare sogni diventa un po’ un vizio: una volta cominciato è difficile smettere. Abbiamo allora cominciato a chiederci come vivevano i ragazzi della nostra età in guerra e ci siamo imbattuti in quelli che non solo subiscono la guerra, ma la fanno: i ragazzi soldato. Così ci siamo informati, abbiamo raccolto dati e immagini, e abbiamo fatto il giro di classi di scuola e di catechismo. I ragazzi ci stavano a sentire stupiti: non sono cose che si sentono tanto dire in giro. A tutti abbiamo voluto rivolgere un appello concreto: ricordarsi di loro e parlarne ogni volta che si fosse presentata l’occasione, ma anche mettere la propria firma sotto la parola “Basta!” Un piccolo gesto concreto che adulti e ragazzi possono compiere facilmente, ma allo stesso tempo, impegnativo perché obbliga a fermarsi a riflettere e a prendere posizione. L’appello lo avete ascoltato, ora stava a noi raccogliere il più grande numero di firme possibile. Abbiamo cominciato a girare per le strade, e forse qualcuno di voi oggi è qui proprio perché ci ha incrociati mentre raccoglievamo adesioni. Siamo andati in scuole medie e superiori, in classi di catechismo, all’oratorio, nei centri sportivi, nei negozi, in piazza e alla passeggiata. Ogni angolo era buono per fermare gente e chiedere loro di firmare. Questo ci ha richiesto un certo sforzo: non eravamo certo abituati a farlo e spesso ci siamo dovuti spiegare e rispondere a dinieghi o critiche. Questo però, lungi dallo scoraggiarci, ci ha aiutato a rafforzaci nella convinzione che c’è un gran bisogno di parlare di questi argomenti. Ci ha colpito quanti, pur firmando, esprimevano la loro sfiducia. Ci siamo resi conto che c’è una grande rassegnazione circa il fatto che il mondo continuerà ad andare come è sempre andato, che la guerra ci sarà sempre, che l’uomo sfrutterà sempre il suo simile, ecc… A Pasqua ci dicevamo che proprio il realismo di tanta gente fece sì che Gesù, nonostante la sua innocenza, venisse condannato a morte e poi ucciso. Allo stesso tempo però la sua resurrezione ha contraddetto la rassegnazione dei discepoli stessi che ormai vedevano infranto per sempre il sogno che li aveva animati per lungo tempo accanto a Gesù. Così era un po’ lo stesso per noi. Charles, Louis, Capitano Highway erano volti ormai così familiari che non potevamo accettare con rassegnazione che continuassero a essere sfigurati dalla guerra. Sì, il sogno che ci fosse anche per loro una resurrezione possibile, come per Gesù, ha fatto sì che il realismo di tanti, complice di chi armava le mani di quei ragazzi, non ci sfiduciasse, anzi ci animasse di nuova voglia di fare e impegno.
Oggi siamo qui a raccontarvelo e speriamo di avervi contagiato un po’. Abbiamo imparato che la fede non è qualcosa di nascosto, intimista o sentimentale, ma si esprime in parole e volti, prende la fisionomia di gesti concreti, come una firma, e gente fermata per strada. E’ un vangelo di carne, notizia buona che vogliamo portare ai ragazzi di tutto il mondo, perché la guerra è pericolosa e subdola. Si insinua a volte nei cuori senza che ce ne accorgiamo. Chi è rassegnato e pensa che è cosa normale, che ci sarà sempre è un suo alleato. Chi rinuncia a sognare un mondo disinfettato da ogni germe di conflitto accetta che l’epidemia dilaghi. Allora abbiamo scoperto che lavorare per strappare dalle mani dei ragazzini soldato le armi era anche il modo migliore per sradicare dai nostri cuori le radici amare che la pianta cattiva della guerra vi aveva fatto attecchire. E’ un sogno? Forse, di quelli belli che ci piace avere. Di sicuro non è un’illusione.





giovedì 29 aprile 2010

Iftar: La festa del digiuno di Ramadan


Festeggiamento dell’Iftar per il mese di Ramadan

presso la Parrocchia di Santa Croce


Ieri, 5 novembre 2005, presso la Parrocchia di Santa Croce di Terni si è festeggiato la fine del digiuno giornaliero del mese di Ramadan con una cena a cui hanno partecipato alcune famiglie di immigrati musulmani, in tutto una trentina di persone, assieme a un centinaio di parrocchiani e membri delle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli di Terni, organizzatori dell’incontro.
Le famiglie di immigrati, per la maggioranza provenienti dal Marocco, hanno accolto l’invito come un segno significativo dell’amicizia che durante tutto l’anno caratterizza l’incontro fra musulmani e cristiani nei centri della San Vincenzo della città. “Per noi è del tutto naturale” ha affermato Antonella Catanzani, presidentessa cittadina dell’antica istituzione, “condividere con i nostri amici i momenti importanti della loro vita. Che si tratti di un battesimo, di un matrimonio, o di un’altra importante ricorrenza o di una festa di una religione diversa dalla nostra, sono sempre momenti importanti in cui si rinsalda il rapporto di famiglia che caratterizza il nostro impegno.” Patrizia Trippa, della Parrocchia di Santa Croce, ha invitato nei giorni scorsi una ad una le oltre cinquanta famiglie musulmane, ortodosse, e cattoliche che da oltre un anno frequentano settimanalmente il centro di accoglienza che offre un sostegno concreto a chi è in difficoltà: “Sono rimasta colpita dal fatto che, nonostante fossero famiglie con molti bambini piccoli ed abitassero nella periferia estrema della città, il nostro invito personale, fatto a ciascuno, ha fatto superare ogni difficoltà di spostamento, pur di non mancare alla festa.”
La cena a base di pietanze e dolci della tradizione ternana è stata preparata dagli ospiti con particolare attenzione alle prescrizioni alimentari musulmane che vietano alcool e maiale. I bambini, numerosissimi, hanno aumentato il clima di festa di famiglia.
“Il fatto di stare qui assieme a festeggiare è il segno che l’amicizia fra credenti di fedi diverse può essere profonda e sincera” ha detto don Roberto Cherubini, parroco di Santa Croce, nel saluto iniziale che ha aperto la festa, “Vi siamo voluti stare vicini in questo mese di Ramadan, così significativo per tutti i fedeli dell’Islam, perché siamo convinti che i credenti delle diverse religioni possono trovare nel profondo della propria fede le ragioni della pace e della fraternità fra gli uomini che ci aiutano a costruire un mondo migliore.”
Mohamed Lamghari, imam della moschea di via Vollusiano, portando il saluto ufficiale della comunità islamica, ha voluto sottolineare il valore di questi gesti di reciproca amicizia fra musulmani e cristiani. “Noi siamo da tanti anni in questa città, alcuni da oltre quindici, e per questo ci sentiamo ternani. Il fatto di poter pregare in moschea e l’osservanza del digiuno del Ramadan, nonostante le tante difficoltà pratiche, ci aiuta a rendere più salde e profonde le nostre radici spirituali, aiutandoci ad esser uomini migliori.” Nel ringraziare per l’aiuto e l’accoglienza che nel corso di tutto l’anno i gruppi della San Vincenzo esprimono nei confronti dei tanti musulmani in condizioni di bisogno, si è offerto di lavorare insieme perché siano moltiplicate nel corso dell’anno le occasioni di incontro e scambio come questa.




Parrocchia di Santa Croce
Commissione Diocesana per l’Ecumenismo



In occasione del mese di Ramadan
Lunedì 24 ottobre 2006 alle ore 17.00
presso la sala parrocchiale di Santa Croce
Via Cavour 33

Si terrà un incontro-conferenza sul tema:

Il digiuno
nelle grandi tradizioni religiose

Saranno presenti i rappresentanti
delle grandi religioni mondiali
per offrire la loro testimonianza

Seguirà alle ore 19.00
Festa dell’Iftar
con i musulmani della città


L’ impegno a fianco dei poveri delle nostre città ci ha portato ad incontrare sempre più spesso persone di fede musulmana. Molti di loro sono immigrati da paesi arabi (Marocco, Algeria, Egitto, ecc...) ma vi sono anche europei (come gli Albanesi, i Kossovari o i Bosniaci) ed Africani (Senegalesi, Somali, Sudanesi, ecc…). La fedeltà nell’amicizia con loro ci ha portato a conoscere e ad apprezzarne l’adesione sincera alla fede, pur vivendo in un contesto culturale e religioso diverso, come l’Italia.
In questi giorni per il calendario musulmano ci troviamo nel mese chiamato “Ramadan” che, come molti sanno, prescrive il digiuno per tutta la durata della giornata. Nei paesi a maggioranza musulmana anche la vita civile durante il mese di Ramadan modifica i suoi ritmi per favorire l’adempimento di questa prescrizione. Evidentemente in Italia non è possibile, e tante volte gli orari di lavoro rendono più difficile a tanti musulmani osservare il precetto del digiuno totale, anche dalle bevande, dall’alba al tramonto.
Il digiuno è una forma di pietà che accomuna tutte le grandi religioni: Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Buddismo, Induismo, ecc… Per tutte è un mezzo di rinnovamento spirituale e crescita umana del credente. Infatti, sperimentando la propria debolezza e il limite fisico si è portati a rinsaldare la fiducia in Dio, unico vero fondamento e sostegno della vita dell’uomo.
In particolare il Corano, il testo sacro per l’Islam, dice: “O voi che credete, vi è prescritto il digiuno, come era stato prescritto a coloro che vi hanno preceduto. Così diverrete timorati di Dio” (Corano II, 183), “E' nel mese di Ramadân che abbiamo fatto scendere sulla terra il Corano, guida per gli uomini e segno di retto cammino e direzione. Chi di voi vuole essere testimone del suo inizio deve digiunare”. (II, 185). Il digiuno del Ramadan è quindi per i musulmani occasione di memoria della rivelazione del loro testo sacro e, quindi, modo per rinnovare la propria sottomissione alla volontà di Dio e alla sua guida.
Le società islamiche vivono questo mese (denominato Santo, per sottolinearne l’unicità, all’interno del calendario annuale) anche come occasione per rinsaldare i legami familiari e di solidarietà con i bisognosi. Per questo ogni sera le famiglie si invitano a vicenda e invitano quanti sono in difficoltà per “rompere il digiuno”, cioè per il pasto serale dopo il tramonto, quando è consentito mangiare. Questa cena festosa e familiare prende il nome di “ Iftàr ”, che poi diventa una vera e propria celebrazione solenne l’ultimo giorno del mese, con il nome di “Aid al Fitr”.
Proprio per questo crediamo che sia importante essere vicini in modo particolare ai nostri amici musulmani in questi giorni, così significativi per loro. Lo vogliamo fare offrendo loro una “ Iftar ”, come avviene in tanti paesi islamici fra comunità cristiane e musulmane. La festa consiste in una cena (nel rispetto ovviamente delle prescrizioni islamiche che non ammettono il consumo del maiale e dell’alcol) a cui vogliamo invitare tutti i musulmani della città. Tutti sono invitati, per accogliere gli ospiti e condividere la gioia del banchetto e per contribuire alla festa con cibi e dolci preparati da ciascuno.
Siamo convinti che questo gesto sarà accolta da tutti con gioia e avrà il valore di un’invocazione della misericordia del più Misericordioso, della pace di Colui Che è Pace.


Don Roberto Cherubini, parroco di Santa Croce.


mercoledì 28 aprile 2010

Meditazioni tempo di Pasqua 2010 - II


La liturgia per vivere la Pasqua ogni settimana

Dicevamo la settimana scorsa che la liturgia della domenica è uno dei modi con cui possiamo concretamente rispondere alla domanda di Pasqua: “Che cosa vuoi che io faccia per te?” che il Signore ci pone in questo tempo di decisione.
La liturgia infatti ci strappa dalla ‘normalità’ della vita quotidiana e, per così dire, ci immerge nello spirito della resurrezione del Signore, che nella liturgia sperimentiamo concretamente. Facendo questo essa risponde al nostro bisogno di vivere la liberazione dal chiuso orizzonte di ciò che è abituale, per aprirci ad una nuova prospettiva che ci fa guardare al mondo e a noi stessi con occhi diversi. Alla liturgia potremmo dire acquisiamo “gli occhiali” che ci fanno mettere a fuoco il volto vero dei fratelli, e lo sguardo stesso di Gesù che sa leggere nei cuori e scorgere l’angolo buono che si cela in ogni uomo, una visione larga che abbraccia tanti, ecc…
Proviamo ad analizzare alcuni punti concreti a partire dai quali possiamo lavorare per farci permeare dalla novità della resurrezione.
Io oggi non vorrei tanto affrontare il tema del significato e dell’importanza della liturgia domenicale, cosa che ha egregiamente fatto il nostro Vescovo nella sua prima lettera pastorale che invito tutti a rileggere, ma evidenziare alcuni nostri atteggiamenti concreti, proprio per non evitare la dimensione pratica a cui accennavamo l’altra volta, sia perché poi attraverso questi noi possiamo imparare a vivere con più profondità e partecipazione la messa della domenica.
1. Innanzitutto la liturgia ci strappa dall’isolamento, perché ci raduna in tanti per compiere un’azione comune. Dicevamo in Quaresima della rarità dei momenti in cui gli uomini oggi condividono un’esperienza forte in comune. Le emozioni più forti sono vissute in solitudine. Al massimo si è in due o da soli, davanti alla TV o a internet. La presenza degli altri il più delle volte fa scattare meccanismi di competizione, di paura che sfocia in aggressività, più o meno celata, o in isolamento e indifferenza. Quando capita che ci si metta insieme è contro un nemico comune, reale o inventato.
Alla liturgia invece siamo convocati, nessuno è padrone o proprietario,
e siamo non “contro” qualcuno o qualcosa, ma “a favore”,
siamo tutti a livello paritario, nessuno è al di sopra di un altro, nemmeno il prete, ricchi e poveri, colti e ignoranti, connazionali e stranieri, ecc…
siamo “insieme”: le parole della Messa si rivolgono a Dio sempre con il “noi” e non con l’”io”. Di chi sta parlando?
Queste realtà però spesso non traspaiono dal nostro modo di vivere la liturgia. Spesso noi trasportiamo modelli di comportamento e idee mondane, stravolgendone lo spirito.
Chiediamoci: quanto sono importanti per me gli altri con cui celebro la messa?
E’ rilevante per me chi c’è e chi non c’è, o lo è solo chi mi è familiare o già amico? Ad esempio se faccio una cena per il mio compleanno faccio caso a chi c’è e chi no, e se il mio migliore amico mi dà buca o viene un estraneo io mi comporto di conseguenza, non mi è indifferente. La Messa forse dovrebbe godere di una pari dignità del mio compleanno, se non superiore, tanto da farmi reagire di conseguenza. All’amico esprimerà il mio dispiacere per la sua assenza, nei modi più opportuni, con lo sconosciuto mi presenterò e farò due chiacchiere di conoscenza, ecc…
E’ una mia preoccupazione comunicare un senso unanime e comune, ad esempio nel modo di rispondere (non ognuno per conto suo) o di cantare, o di muoversi nella chiesa (ad esempio la fila per la comunione) ?
Ho mai fatto conoscenza con qualcuno in chiesa in occasione della messa domenicale?
In questo senso, ad esempio, la puntualità è già di per sé un segno di attenzione agli altri (per non disturbare), oltre che di rispetto per il Signore, e del desiderio di esserci: ad un appuntamento con il mio miglior amico o con la fidanzata non arrivo quando mi pare!
Mi sono mai posto il problema di cosa potrei fare in più per collaborare alla buona riuscita della messa?
Ho “un occhio” perché tutti siano messi a loro agio e favoriti a partecipare nel migliore dei modi? Ad esempio ho mai mostrato il canto sul libretto al vicino che non canta per invitarlo a farlo con me?
Non sto neanche a dirlo, ma ho ricordato di spegnere il cellulare ed ho a cuore che l’attenzione di tutti sia favorita?
Sono domande concrete che ci fanno rendere conto che niente è scontato e tanto va fatto, ma vorrei sottolineare una prospettiva, forse un po’ nuova, e cioè che ciascuno può fare molto di più non solo per vivere la messa con maggiore partecipazione e intensità (che già ci sembra un traguardo ambizioso se non irraggiungibile), ma per aiutare tutti gli altri a fare altrettanto. Forse è proprio questo quello che manca di più, e che ci aiuterebbe a ottenere anche il primo risultato. Sempre per fare un esempio un po’ banale ma efficace, se abbiamo a pranzo ospiti a cui teniamo particolarmente ci sforzeremo di cucinare cose buone e di rendere tutto più piacevole. In questo modo il pranzo sarà migliore e anche noi ne godremo. Se dobbiamo preparare un pasto solo per noi stessi è difficile che ci mettiamo le stesse attenzioni e cure, e il risultato sarà scadente. Ma allora perché non pensare alla messa come ad un pranzo importante (il più importante) per tanti ospiti illustri: i fratelli e il Signore stesso.
Se viviamo in questo modo ci educhiamo a tenere conto degli altri, a metterli al centro del nostro interesse e preoccupazione. La messa diventa pertanto una scuola di comunione e dire “Padre nostro” non sarà solo una formalità perché veramente considero il mio vicino un fratello o una sorella. Ci dimostra che si può essere vicini e in comunione profonda anche con chi non conoscevamo nemmeno e che con chi ho rapporto non è scontato: il Signore mi chiede di essere amico di chi mi siede vicino a messa, per imparare ad essere amico di tutti quelli che incontro. Come sto a messa deve diventare esemplare di come sto con tutti.
2. La messa non è uno spettacolo dal copione sempre uguale a cui assistere annoiati. Direi piuttosto che ogni messa è unica:
perché io vengo con una domanda diversa e la mia preghiera lo è altrettanto,
perché è diversa la gente che sta con me per celebrare,
perché il Signore mi parla in modo diverso,
perché nel mondo succedono cose diverse, belle e brutte, e ci sono sempre motivi nuovi per ringraziare e invocare l’aiuto di Dio,
perché, se sono attento, capisco sempre una cosa in più delle parole della messa o un nuovo significato più profondo, ecc…
Scopriamo mille motivi di novità se siamo disponibili ad incontrare veramente gli altri e il Signore, se facciamo entrare la nostra vita nella liturgia e le parole della liturgia nella nostra vita.
Ci chiediamo allora: è mai possibile uscire dalla messa con lo stesso umore o con gli stessi pensieri e preoccupazioni con cui siamo entrati?
Quanto siamo attenti a non distrarci o a non rendere tutto scontato o banale?
Quanto mi chiedo il significato o la storia di alcuni gesti della liturgia (ad esempio l’uso dell’incenso o la struttura della messa o la scelta delle preghiere, ecc…)?
Mi è mai venuto in mente qualcosa che si potrebbe fare di più o meglio per rendere migliore la celebrazione della messa e l’ho proposto?
3. La messa non inizia e non finisce in chiesa, ma fa parte della vita che c’è prima e influenza quella che segue. Nel senso che gli atteggiamenti che descrivevo caratterizzano la vita del cristiano ovunque, e la liturgia, come accennavo, è la scuola in cui impariamo come essere sempre e ovunque. La domenica acquistiamo un atteggiamento, uno sguardo, uno spirito “liturgico”, cioè di servizio, non protagonista, comunitario, ecc…
A Messa impariamo quale è il nostro posto: la liturgia è l’immagine più piena e vera della comunità cristiana. Tanti assieme, senza divisioni, all’ascolto della Parola di Dio, unanimi nel chiedere a lui, pronti a servirci l’un l’altro, felici perché in compagnia del Signore, senza essere arroganti o orgogliosi, ecc…
Come già ricordavamo altre volte, nella liturgia noi incontriamo e veneriamo con particolare attenzione Gesù nel suo corpo. Questo atteggiamento è lo stesso che dobbiamo avere con tutte le altre forme con cui il Signore ci si presenta concretamente:
il suo corpo che sono i poveri (Mt 25)
il suo corpo che è la sua chiesa
la sua voce che è la Scrittura.
Con la stessa attenzione e venerazione che dimostriamo a Messa dobbiamo trattare ogni espressione concreta della presenza del Signore accanto a noi. Questo ha molte implicazioni concrete nella vita quotidiana.

Questo primo passo ci aiuta allora a dare una prima risposta alla domanda di Pasqua di vivere quella familiarità straordinaria, non di sangue né di convenienza, che il Signore “fonda” ai piedi della croce.
Possono sembrare cose da poco ma è una eredità preziosa che può segnare una novità grande nella vita nostra e di chi ci sta accanto.

martedì 27 aprile 2010

Meditazioni Quaresima 2010 - VI




V tappa: essere figli della gelosia di Dio e non dell’orgoglio di sé

Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.

Le parole del profeta che abbiamo commentato in questi nostri incontri sono la risposta di Dio alla richiesta di perdono del popolo che aveva tradito l’amicizia col suo Signore e per questo aveva ricevuto la minaccia di distruzione. Resosi conto della prospettiva tragica verso la quale andava incontro, se avesse perseverato nella durezza di cuore, Israele aveva invocato il suo Dio, il quale, pentito, revoca la condanna e promette un futuro pieno di benedizioni, se il popolo vorrà “tornare a lui con tutto il cuore”.
Le parole che commentiamo oggi, nella loro brevità, riassumono un po’ tutto questo “scambio di affetto” fra Dio e il suo popolo che si è realizzato fino a dare luogo alla salvezza (redenzione) del popolo. Sono quindi parole che ci aiutano a entrare con più chiarezza nello spirito che anima anche le vicende della Settimana Santa.
Gioele afferma che il Signore è geloso perché ha compassione del suo popolo che chiede perdono, dopo essersi reso conto di essersi perso dietro strade che non portavano a niente di buono.
E’ una realtà che possiamo prendere come valida anche per noi oggi. La quaresima, abbiamo detto, è tempo di pentimento e conversione, cioè adatto a rendersi conto che la strada che abbiamo seguito finora non porta a nulla. Parlavamo di una via caratterizzata dall’isolamento dell’individuo, priva di pietà e che svuota il cuore dai suoi tratti umani. Abbiamo parlato della necessità di riacquistare questi ultimi facendo nostra la tenerezza di Dio e imparando a vedere in chi ci sta accanto qualcosa di prezioso e che ci manca, di cui abbiamo bisogno, un “tesoro” da conquistare. E’ quel tratto di gelosia di cui parla Gioele.
Il Signore è geloso, perché si rende conto che quelli che il male cerca di strappargli sono i suoi figli, quelli per i quali ha fatto tanto perché non si perdessero. Li ha cresciuti come bambini, come dicono i profeti Osea e Geremia:

Quando Israele era fanciullo, io l'ho amato
e dall'Egitto ho chiamato mio figlio.
Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me;
immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi.
A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano,
ma essi non compresero che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d'amore, ero per loro
come chi solleva un bimbo alla sua guancia,
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.
Non ritornerà al paese d'Egitto, ma Assur sarà il suo re,
perché non hanno voluto convertirsi.

Il mio popolo è duro a convertirsi:
chiamato a guardare in alto,
nessuno sa sollevare lo sguardo.
Come potrei abbandonarti, Èfraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Adma,
ridurti allo stato di Seboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all'ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Èfraim,
perché sono Dio e non uomo;
sono il Santo in mezzo a te
e non verrò da te nella mia ira
. (Os 11,1-9)


Ho udito Èfraim che si lamentava:
"Mi hai castigato e io ho subito il castigo
come un torello non domato.
Fammi ritornare e io ritornerò,
perché tu sei il Signore, mio Dio.
Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito;
quando me lo hai fatto capire,
mi sono battuto il petto,
mi sono vergognato e ne provo confusione,
perché porto l'infamia della mia giovinezza".
Non è un figlio carissimo per me Èfraim,
il mio bambino prediletto?
Ogni volta che lo minaccio,
me ne ricordo sempre con affetto.
Per questo il mio cuore si commuove per lui
e sento per lui profonda tenerezza".
(Ger 31,18-20)

Il rapporto di Dio con il suo popolo è movimentato e combattuto: Dio li ama e li alleva come un figlio piccolo, perché non manchi loro nulla. Ma il popolo tradisce, vuole fare di testa propria e se ne va per la sua strada. Il Signore minaccia ed esprime il suo amore geloso che nasce dal dolore di essere lasciato, e sostituito da altri dei che li illudono con una felicità più “facile”.
La gelosia è collegata ad un senso di possesso: si è gelosi perché qualcosa mette in discussione il possesso di un rapporto, la sua esclusività. In questo senso spesso viene visto come un sentimento negativo. Di sicuro però la gelosia rivela un amore appassionato: non si è gelosi di una persona alla quale non teniamo molto. In Dio poi la gelosia è legata alla compassione per un popolo che vede cercare la propria felicità in ciò che è inganno e non da’ la gioia vera. Pretende un rapporto esclusivo e non tollera di essere messo sullo stesso piano degli altri dei perché sa con quanta facilità l’uomo va alla ricerca delle altre forme di false soddisfazione che essi danno.
La gelosia di Dio nasce dalla compassione per un popolo schiavo del proprio orgoglio e vittima di se stesso.
Questa realtà è quella che si compie nella Settimana Grande e Santa di passione, morte e resurrezione del Signore Gesù, a cui le parole di Gioele oggi ci introducono.
Dicevamo domenica scorsa che questa settimana non è un tempo banale, ordinario, ma è santo, cioè tempo diverso da tutto l’altro tempo della nostra vita. Il tempo, come la terra, è resa santo dalla presenza del Signore “che fa nuove tutte le cose” (Ap 5,21). La Settimana Santa è il tempo in cui la presenza del Signore si fa più intensa e appassionata e fa nuovo l’uomo che la vive nella compagni con lui. Non possiamo viverla con banalità.
Ma quali sono i segni di questa presenza più intensa del Signore ?
La Passione di Gesù paradossalmente ci fa mettere a fuoco con evidenza ancora maggiore il mistero dell’incarnazione: Gesù è Dio vero e uomo vero. Infatti la sua sofferenza fa emergere in tutta la sua fisicità una umanità che subisce il dolore fino alla morte. Mai come nella passione Gesù nei Vangeli emerge con forza la sua fisicità, fino a divenire quasi esclusivamente un corpo, malmenato e torturato fino alla morte. Le sue parole sono ridotte al minimo, i suoi gesti impediti. Non ci sono miracoli né manifestazioni del soprannaturale. Allo stesso tempo la sua passione ci fa percepire l’immensità di un amore così grande che ha veramente qualcosa di divino, che non si spiega con la semplice natura umana. Nella passione queste due dimensioni non si possono separare perché l’una illumina e fa comprendere l’altra.
Gesù è geloso dei suoi, non li lascia, non li tradisce, non rende loro quello che meritano. Li aveva avvertiti, glielo aveva spiegato in ogni modo, ma i discepoli, inebriati dal successo goduto e infragiliti dall’orgoglio, non capiscono e soccombono alla paura. Gesù invece di spazientirsi e perdere fiducia in loro, ne ha compassione e vive l’amore geloso del padre per i suoi figli.

“Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli". E Pietro gli disse: "Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte". Gli rispose: "Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi". (Lc 22,31-34)

Queste parole a Pietro rivelano il cuore di Gesù: ne ha pietà, ma esprime anche la gelosia nei loro confronti, come abbiamo visto fare Dio con Israele:

Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: "Chi cercate?". Gli risposero: "Gesù, il Nazareno". Disse loro Gesù: "Sono io!". Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro "Sono io", indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: "Chi cercate?". Risposero: "Gesù, il Nazareno". Gesù replicò: "Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano", perché si compisse la parola che egli aveva detto: "Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato". (Gv 18,4-10)

Credo che la Settimana Santa ci chiami a sentire come Gesù viva questo atteggiamento anche verso di noi. Anche noi siamo stati accuditi, cresciuti, nutriti, guidati, fin da piccoli. Anche noi abbiamo preferito andarcene per la nostra strada, dare retta ai maestri di questo mondo, alla cultura dell’individualismo che uccide la pietà, ma Gesù non ci abbandona sdegnato al nostro destino, perché è geloso di noi ed ha compassione
Ma allo stesso tempo siamo chiamati a sentire in profondità la meraviglia per un amore così intenso e vero e il dolore per la forza del male nel mondo e nella nostra vita. In queste settimana della quaresima ci siamo come esercitati a ricostruirci un’interiorità più profonda e sensibile agli altri e non solo a noi stessi. La Settimana santa è il tempo per spendere queste risorse umane.
Siamo chiamati a viverla con la stessa intensità delle dimensioni fisica e spirituale con la quale Gesù l’ha vissuta: con la fisicità della presenza, della fatica, della stanchezza nel seguire il Signore Gesù nel cammino di passione. Le celebrazioni della passione ci chiedono anche di forzare il nostro corpo e le sue esigenza fisiche naturali: fame, stanchezza, sonno, pigrizia, ecc.. Anche gli apostoli furono messi alla prova innanzitutto nella loro fisicità, nell’orto degli ulivi, (il sonno) e solo dopo nelle loro doti morali, (la loro forza d’animo e il loro affetto per il Signore).
Ancora una volta i poveri ci sono maestri perché richiamano questa verità della dimensione umana: la fisicità di un bisogno materiale, ma anche la necessità di trovare un padre e una madre che si prenda cura delle loro umanità ferite, difficili, umiliate. Una cosa non è più importante dell’altra, ma entrambe sono realtà che si compenetrano e si illuminano a vicenda.
Il Signore ha vissuto un amore geloso e compassionevole, ma non solo spirituale, anche profondamente carnale per poterci offrire la salvezza. E’ il messaggio della Settimana Santa che ci apprestiamo a ricevere seguendolo nella sua via dolorosa.


Preghiera di Quaresima

Matteo 26,30-46
Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Allora Gesù disse loro: "Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti:
Percuoterò il pastore
e saranno disperse le pecore del gregge.
Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea". Pietro gli disse: "Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai". Gli disse Gesù: "In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte". Pietro gli rispose: "Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò". Lo stesso dissero tutti i discepoli.
Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: "Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare".
E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me". Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: "Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!". Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: "Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole". Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: "Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà". Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: "Dormite pure e riposatevi! Ecco, l'ora è vicina e il Figlio dell'uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino".

Commento
Cari fratelli e care sorelle, alle porte della passione Gesù cena con i suoi. Nel Vangelo di Giovanni dice “ho desiderato ardentemente di cenare con voi”, esprimendo tutta la sua passione per quei dodici, anche per Giuda che lo tradirà, anche per Pietro Giacomo e Giovanni che si addormenteranno nell’orto degli ulivi, anche per Pietro che lo tradirà tre volte.
Sono i tre stessi apostoli che avevano visto Gesù trasfigurato parlare con Elia proprio di queste ore che stavano realizzandosi. Ma allora non avevano capito, ubriachi di contentezza volevano fare tre tende, ma ora dormono.
L’amore appassionato di Gesù è geloso di quei dodici e non ci rinuncia nemmeno sapendo cosa accadrà di lì a poco.
Sembra la storia di un fallimento: gli eventi precipitano, le cose vanno sempre peggio e Gesù alla fine viene tradito e abbandonato. Solo e umiliato, la sua umanità è cancellata da un dolore così grande. I potenti lo temono, la folla lo osteggia, tutti congiurano per toglierlo di mezzo.
Gesù in mezzo a loro resta fermo: per amore non fugge, per amore non salva sé stesso, come lo invitano a fare, ma vuole salvare quel pugno di discepoli impauriti, quella folla inferocita, quelle masse indifferenti e ostili.
E’ il paradosso della Settimana Santa. E’ il mistero di un amore geloso e pieno di pietà per chi lo sta uccidendo: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Come non restare colpiti? Come non provare tenerezza e dolore per questo uomo innocente, anzi buono, che va a morire? Eppure anche a noi viene sonno, gli occhi si chiudono, la paura ci porta a percorrere le vie di sempre.
Forziamo il nostro corpo, pieghiamo il cuore a restare accanto a Gesù. La compagnia di un cuore sensibile, il calore di un amico che resta e non lascia solo è quanto di più prezioso ci sia nel dolore.
Siamo noi quell’amico che resta accanto al povero più povero, Gesù, perché il suo amore geloso e compassionevole non si perda nella voragine del non senso, ma sia seme gettato e germogliato che porterà frutti di salvezza, di pace e di consolazione per il mondo intero.

Meditazioni Quaresima 2010 - V


IV tappa: Essere ministri del perdono di Dio per proteggere il mondo dal male

Tra il vestibolo e l’altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».

La volta scorsa dicevamo che siamo tutti invitati a far parte di un popolo, il quale, continuiamo oggi, svolge un compito particolare: il sacerdozio universale. La frammentazione in tanti “io” individuali fa svanire la storia, cioè il cammino comune dell’umanità. Nel mondo dell’affermazione del singolo niente ha rilevanza al di fuori della vicenda personale e individuale e assurge a vicenda di rilevanza comune. Infatti nella nostra epoca assistiamo ad una stagnazione della storia, basti pensare la piccolo della realtà italiana in cui in questi gironi assistiamo allo spappolamento della storia in un ginepraio di polemiche e scontri di tanti io che si contrappongono e cercano di prevalere uno sull’altro in nome di nient’altro che della propria autoaffermazione e non per realizzare un progetto o cambiare la realtà in una definita direzione.
Il popolo convocato da Dio invece, ci dice Gioele, ha un ministero, una vocazione nella storia dell’umanità: rendere accessibile il perdono di Dio all’umanità intera.
Paradossalmente è proprio il fatto di rinunciare all’imporsi del mio io per confondermi in un popolo, e quindi un atto di umiltà e diminuzione di sé, a porre il popolo al riparo dal rischio di perdere la propria vita e di metterla al sicuro sotto la protezione di Dio. Ancora una volta emerge come non sia l’irrigidimento, così diffuso, difensivo e spaventato o la chiusura in ambienti circoscritti a poter dare sicurezza e felicità, ma anzi l’allargamento del proprio orizzonte fino a coinvolgere tanti che non ne fanno parte “naturalmente”.
Ma cosa vuol dire vivere questa vocazione ad avvicinare gli uomini al perdono di Dio?
Per ricevere il perdono bisogna rendersi conto di avere accolto in sé il male e, in questo modo, di aver collaborato alla sua affermazione nel mondo. Domenica scorsa, parlando della parabola del figlio prodigo, dicevamo come entrambe i figli sono distanti dal padre, dal suo modo essere buono, generoso e misericordioso. Ma quello che differenzia i due, e che permette al primo d salvarsi, è il suo rientrare in sé stesso (cioè nello spazio dell’interiorità di cui abbiamo tanto parlato), rendersi conto di aver fatto entrare il male nella propria vita e la decisione di mettersi in cammino per tornare dal padre umile e pentito. Il secondo figlio non lo fa: anche se la distanza da percorrere è molto più breve e il padre lo supplichi, egli resta fuori e non vuole entrare nella casa in festa.
Il secondo figlio resta solo, convinto di essere nel giusto, non si mescola alla famiglia in festa e nemmeno saluta il fratello tornato. Rifiuta di far parte di quel popolo festoso. Per questo è triste.
Il primo figlio si umilia, chiede perdono e viene accolto e festeggiato. Per questo è felice.
La tristezza è un modo d’essere così diffuso fra la gente che ci sta accanto, e anche in noi, proprio per questo rifiuto di fare come il figlio più giovane e restarsene soli e scontenti.
Vivere la gioia del Vangelo allora significa sottomettersi al giogo leggero del Vangelo farsi umili nel riconoscersi bisognosi di cambiare vita secondo le parole del Signore e ricevere così il vestito nuovo, l’anello e la festa del padre.
Ma non è una contraddizione in questo tempo di pentimento chiedersi di essere felici? L’Apostolo dice ai cristiani di Filippi: “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi” (Fil 4,4-9).
Come vivere la vocazione a trovare nel perdono la gioia vera in un tempo, come il nostro, in cui si cerca il piacere individuale, la soddisfazione personale, ma poco la gioia?
Gesù, al momento di lasciare i suoi, ha detto: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Sì, egli parla della “pienezza della mia gioia” (Gv 17,14). Infatti la sfida della gioia è decisiva per noi cristiani. La gioia è il segno che un cristiano e una comunità hanno chiesto e accolto lo spirito di Gesù che fa cambiare vita. La Pasqua è gioia: assumere la gioia in noi, perché la vita ha vinto la morte. La Quaresima è allora tempo per prepararsi a ricevere e a non sprecare il dono della gioia del risorto che restituisce la vita del perdono dove regnava la morte del peccato.
Abbiamo paura della gioia di Gesù e preferiamo la tristezza della nostra vita, perché crediamo che ci renda padroni della nostra esistenza. Siamo tristi padroni di un mondo angusto. Ci si lamenta, ma si resta prigionieri. La gioia ci consegna allo spirito, alla comunione, ci fonde in un popolo gioioso in festa. La gioia è la fine della schiavitù del mio io individuale.
Ma chi considera quella come una liberazione? Meglio essere tristi, che perdere il controllo delle proprie passioni, dei propri sentimenti, dei propri calcoli. Così ci si infossa in un’abitudine, che è quella di tanti uomini e donne, che non si pentono, non sentono il bisogno di essere perdonati e che per questo non cambiano e non esultano. Questa, cari amici, è l’umanità prigioniera di sé. E’ anche la nostra umanità europea, che non sa amare, gioire, ma solo lamentarsi. Né fredda, né calda.
La Pasqua si fa prossima e questo ultimo tratto di Quaresima ci vuole preparare alla liberazione, e ci dice: “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini”.
Infatti Neemia, quando presiede alla rinascita della fede d’Israele, dopo la lettura della Torah che era andata perduta ed è stata ritrovata, dice: “non vi rattristate; perché la gioia del Signore è la vostra forza” (Neemia 8,10).
Ma come essere gioiosi di fronte alle tante difficoltà, agli umori e sentimenti della propria vita, al limite di essere piccoli e mortali? Ogni giorno c’è un motivo soggettivo o oggettivo per non essere gioiosi. L’apostolo indica una via di libertà che parte da un’affermazione: “Il Signore è vicino!” (Fil 4,5). Si tratta di una vicinanza che ciascuno è chiamato a vivere, direi a sperimentare attraverso la liberazione dalle angustie. Noi, infatti, ci angustiamo: viviamo nelle angustie, ci lamentiamo delle angustie, ma alla fine siamo gente angusta.
Ma come diventar liberi dalle angustie? L’apostolo indica una via che mira alla liberazione nella gioia, ma che trova la sua radice nel fatto che sappiamo che il Signore è vicino: “in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste” (Fil 4,7). Perché Dio è vicino: questa è la nostra fede.
Sì, esporre a Dio le nostre richieste. Abbiamo bisogno, chiediamo! Dio, nella visione di Paolo, diventa il confidente dei propri problemi, di quelli che ci stanno a cuore. Questa, cari amici, è la preghiera: fidarsi di Dio. Infatti le richieste vanno esposte al Dio vicino, con preghiere, suppliche e ringraziamenti.
Chi prega si ritrova figlio, per questo la preghiera di Gesù comincia con la parola “Padre”. Per questo lo Spirito ci rende figli adottivi, tanto che gridiamo “Abba, Padre”. La preghiera rivela che un adulto, un vecchio, trova in Dio un padre. La mia non è una vita casuale, di un orfano che deve strappare qualche beneficio all’esistenza; ma è invece fortemente amata da Dio che è un padre generoso fino all’eccesso. Dio è tanto grande da amare pure me, da tenermi in questa sua grande famiglia di donne e di uomini che egli ama in modo personale.
L’apostolo invita a pregare “Con preghiere, suppliche, ringraziamenti.” (Fil 4,7) Sì anche i ringraziamenti: infatti non c’è rapporto umano vero da cui si possa bandire la gratitudine. Un uomo che non dice “grazie”, non sa pregare. Il grazie è l’inizio della gioia, perché è la coscienza di aver ricevuto doni e di essere amati.
Dice l’apostolo: la forza cristiana è l’affabilità: “La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini” (Fil 4,5). E’ quella tenerezza di Dio di cui parlavamo le settimane scorse, che dobbiamo far entrare nel nostro cuore squarciato. E’ una dote per tutti, senza esclusione. Non c’è chi è portato o adatto e chi no. Se non si è amabili, cioè con cuore intenerito, si è tristi. La parola “epieikés”, tradotta con amabilità, in Tito con mansuetudine, rappresenta un uomo forte, capace di vivere con gli altri. I cristiani sono gente che sta bene con gli altri, che ha il suo posto in un popolo e fuori di esso è spaesato e sperduto. La gioia del Signore è la forza di questi uomini.


Preghiera di Quaresima

Filippesi 2,1-11
Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma anche quello degli altri.

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
"Gesù Cristo è Signore!",
a gloria di Dio Padre.

Commento
Cari fratelli e care sorelle, l’Apostolo afferma che la pienezza della sua gioia deriva dell’amore unanime e la carità che vivono i suoi discepoli di Filippi. E’ la bellezza che si propaga da un popolo che sa vivere la priorità dell’amore vicendevole e, con cuore tenero, fa spazio a ciascuno. E’ la prospettiva che questa Quaresima ci propone anche a noi: prepararci a vivere la commozione per il Signore della passione e non fuggire da lui.
Chi è solo dove trova questa forza? Chi ha un cuore abituato e insensibile dove trova il motivo per farlo?
Noi lo vogliamo fare perché è questa la nostra gioia. Non viene infatti la felicità dal mettersi al di sopra di tutti, capaci di vedere solo i propri guai e malanni e lamentandosi come fossero gli unici drammi della terra.
Al contrario, l’Apostolo ci esorta a “considerare gli altri superiori a se stesso” cioè a mettere al centro la difficoltà, il dolore, ma anche la gioia dell’altro per godere della vera gioia.
Paolo propone la via dell’umiltà, dell’abbassamento, del rinunciare a imporre sé stesso come fece Gesù. E’ una strada che lui ha percorso per prepararla per ciascuno di noi. Se saremo pronti a seguirlo, con umiltà e semplicità, facendoci compagni dei poveri e dei fratelli e delle sorelle, attraverso il buio della passione potremo anche essere testimoni della vittoria della vita sulla morte e del bene sul male.

Meditazioni Quaresima 2010 - IV


III tappa: Quaresima tempo per radunarsi in un popolo

Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion,
proclamate un solenne digiuno,
convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo,
indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo
.

La dimensione normale della nostra vita quotidiana è la dispersione. Tutti lo sappiamo e lo diciamo in diverse occasioni, spesso lamentando che la vita ci porta ad essere molto indaffarati e senza tempo. Ma siamo sicuri che è una realtà subita, e non piuttosto una dimensione che ciascuno di noi ha interiorizzato e fatto propria?
Dicevamo il mercoledì delle ceneri come la mentalità individualista del nostro tempo marchia come valore tutto ciò che riguarda il singolo e lo isola nella sua unicità e autoreferenzialità. Al contrario, tutto ciò che è collettivo, comune e “al plurale” è visto con sospetto se non stigmatizzato come negativo e pericoloso per l’equilibrio individuale.
È chiaro da chi provenga questa mentalità: dall’uomo di mezza età, autosufficiente e benestante che può fare a meno di tutti. È questo il modello unico da imitare che la cultura materialista ci propone. Chi sta male, chi non ce a fa da solo, chi ha bisogno di qualcun’altro per vivere è automaticamente escluso, anzi farebbe bene a togliersi di mezzo per lasciare lo spazio che occupa a chi ne ha diritto.
E non solo in senso figurato. È di questi giorni la notizia che lo scrittore inglese Martin Amis ha affermato che al compimento del 70° anno di età sarebbe opportuno che ciascuno, spontaneamente, si tolga la vita. Questo aprirebbe ai giovani maggiori possibilità di trovare il loro posto nella società che, “appesantita” dai vecchi, non potrebbe prestare loro l’attenzione e le risorse necessarie a garantire loro un futuro. L’accesso all’eutanasia non sarebbe pertanto più limitata ai casi di malattia grave o sofferenze insopportabili, ma basta che si diventi un po’ meno autosufficienti e si abbia bisogno di un po’ più aiuto e sostegno da parte della società (in termini di pensione, assistenza sanitaria e sociale, ecc…) che si è addirittura incolpati del malessere dei giovani.
Pensiamo anche ad un altro analogo segnale preoccupante, la vittoria in questa ultima settimana nelle elezioni comunali olandesi del partito xenofobo PVV, il cui leader Geert Wilders proclama idee apertamente razziste contro la coesistenza con persone di altra religione, in particolare islamici. Anche in questo caso assistiamo ad un fenomeno in parte nuovo. Infatti, a differenza del passato, Wilders non è un tradizionale conservatore di destra che vuole restaurare un modello di società del passato o cose simili. Infatti egli si è dichiarato a favore dei diritti individuali, quali le libertà per gli omosessuali, o un modello economico liberista, ecc… In questo senso è molto moderno e progressista. Infatti è proprio la ricerca esasperata della libertà di espressione dell’individuo in quanto tale che gli fa odiare ogni forma di convivenza che chieda uno sforzo di mediazione o integrazione con elementi culturalmente e religiosamente diversi da sé: l’individuo deve potersi esprimere così come è senza dover sottostare a nessun limite o compromesso che la convivenza con l’altro impone necessariamente.
In senso analogo, anche se in termini diversi, un certo progressismo alla spagnola, “zapaterista”, esaspera la libertà individuale, tanto da estendere anche agli animali il diritto all’autodeterminazione e a vedere riconosciuti i loro sentimenti, e, coerentemente, offre alle minorenni la possibilità di decidere di abortire senza bisogno di doversi confrontare con adulti. È il delirio dell’individualismo che genera un uomo disperato nella sua solitudine senza limite.
E’ chiaro come questa mentalità mieta vittime fra la parte della società più svantaggiata: se si auspica la morte prematura dei settantenni, che sono dei cosiddetti “nostri”, figuriamoci cosa si può sperare degli stranieri, dei senza casa, dei disabili, ecc…
C’è nella mentalità individualista un virus, ancora più pericoloso perché nascosto sotto un manto di ragionevolezza e normalità. Ci viene inoculato nelle vene in modo quasi impercettibile, ma poi si moltiplica uccidendo l’organismo stesso che lo ospita. E’ la morte del cuore, l’elemento vitale dell’uomo, di cui parlavamo le volte scorse.
Il nome stesso di Chiesa, che significa assemblea, riunione dei convocati, contraddice il concetto di individuo isolato.
Per questo la lotta contro questa mentalità individualistica si combatte principalmente con le armi della tenerezza e dell’amore, le uniche che possono restituirci un cuore vivo e umano. Esse ci rendono simili a Dio, mentre il virus dell’individualismo, piano piano, ci rende simili al re della divisione, quel diabolos, che in greco significa letteralmente “principio di divisione”. Il diavolo si combatte sconfiggendo la divisione, che consiste non solo nell’essere “contro” gli altri, ma anche solo l’essere “lontano” dagli altri, in disparte, isolati, vittoria del diavolo.
L’individualismo si esprime principalmente nella convinzione, abbastanza semplice e facilmente accettata da tutti, perché sembra molto evidente e ragionevole, che ciascuno ha il proprio destino individuale da realizzare che procede su un proprio binario. I cristiani hanno invece l’idea che Dio prepara un destino per il suo popolo e che ciascuno non può realizzare il proprio disgiuntamente da quello degli altri.
Sempre mercoledì parlavamo di un tessuto. Per usare quest’immagine direi che il cristiano non è un filo isolato, teso verso chissà quale destino, ma trova il suo senso in un tessuto ordito e intrecciato da Dio. Nell’intrico complesso e tessuto ad arte anche i fili di nessun pregio cooperano a creare un tessuto dalla trama solida e dal disegno bello e prezioso. Nella Chiesa non è il singolo, per quanto geniale o dotato che la rende forte, ma la comunione di un popolo.
L’orgoglio ci spinge a cercare di isolare il proprio filo umano, ma questo, separato dall’ordito, tende a ingarbugliarsi, a raggomitolarsi su se stesso e a diventare un’inutile matassa intricata di nodi. Un filo da solo non si regge dritto, non serve a niente, è soggetto a sfilacciature e a spezzarsi. Nei tappeti, se li giriamo sul retro, vediamo bene come la trama sia complessa. Ogni filo però è indispensabile. Anche il filo più ricco e prezioso, di lana calda o di seta brillante, senza il sostegno della trama più grezza, che ci sembra così umile e disprezzabile, non regge, e il tappeto si lacera. Allo stesso tempo, senza i fili colorati la trama diventa rigida, ruvida e perde la bellezza dei disegni che impreziosiscono il tappeto.
Senza l’opera di tessitura della tenerezza la fede rimane un fatto privato e individuale, privo della bellezza e dell’utilità che ha un tessuto. Per questo nel popolo che è la Chiesa dei discepoli di Gesù c’è posto per tutti: vecchi, fanciulli, lattanti, e non c’è un vincolo familiare che giustifichi un porsi in disparte dal popolo (“lo sposo e la sposa escano” e non stiano fra di loro, dice Gioele).
Il tessuto sta insieme perché i fili si intrecciano: non basta essere messi l’uno accanto all’altro o l’uno sopra l’altro. Chi si difende dall’altro e crede di dover realizzare il proprio destino individuale separato dagli altri in realtà si condanna a vivere una vita ingarbugliata e piena di nodi: una matassa da cui non si ricava nulla di buono.
La parola di Dio a questo ci invita e questo fa: cerca di intrecciarci docili alle vite degli altri, e più esse sono e più il tessuto è robusto, più l’intreccio è complicato e più il disegno è prezioso.
Quando noi abbiamo di fronte un fratello e una sorella dovremmo pensare: ecco, ho trovato finalmente proprio il filo che mancava! Ci voleva una tinta vivace a ravvivare la trama, anche se è un po’ chiassosa. Ci sono fili che sono fragili e da soli ci si sfaldano fra le dita, ma se intrecciati su una trama più solida le danno morbidezza. Ci sono fili anonimi; fili consumati dalla vita quasi fino a ridursi a poche fibre; fili giovani e robusti, ma magari tutti ingarbugliati; fili ancora chiusi nel cellophan che si preservano da tutte le esperienze per paura di sciuparsi, e restano inutili nella plastica; fili usati e riusati, un po’ sfibrati; fili di ferro rigidi e fili spinati che ci si ferisce a prenderli in mano. Con tutti Dio sa cosa farci, come ammorbidirli, come sciogliere i nodi, come attutire le punte, come accostare le tonalità.
Non siamo noi a scegliere i fili con cui siamo intrecciati, sono le mani sapienti di Dio, e questo fa inorridire gli ideologi dell’individualismo: “come faccio ad esprimere me stesso, come trovo la mia strada, come mi realizzo a pieno …?” Ma noi sappiamo che la sapienza di Dio fa incontrare gli uomini e le donne giuste, ma non giuste per me, bensì per il tessuto, il disegno, la trama. E’ questo però che valorizza e dà senso alla mia vita.
C’è qualcuno che pensa: io ho realizzato il mio tessuto, ho scelto i fili giusti e mi trovo bene nel mio nido. Ma se Dio non tesse, quella che realizziamo è solo un intreccio informe, non un tessuto. Anche perché Dio non sa che farsene di treccine o matassine di due o tre fili, Dio ha bisogno di avvolgere il mondo col suo tessuto: di vestire i popoli che sono al gelo, di decorare gli angoli squallidi, di ammorbidire le durezze, di riparare dalle piogge, di imbottire le asperità del terreno e stendere un manto sui crepacci, perché nessuno vi cada dentro.
Dio si aggira per il mondo e riconosce in ogni essere umano un potenziale filo indispensabile per il suo tessuto. E’ questa la dignità più grande che un uomo può avere: essere un filo utile per la tela di Dio.
Quante ceste inutili di gomitoli, impolverati o incellophanati, quanti fili sperduti incontriamo nella nostra vita.
I poveri ci indicano una strada: chi ha bisogno infatti tende la mano, chiede, cerca disperatamente e con tutti i mezzi di intrecciare la sua vita con quella di chi gli capita di fronte. Ne ha un bisogno tale che non può permettersi il lusso di scartare gli antipatici o gli scostanti. Dio usa anche la loro insistenza per convincerci a non restarcene in disparte, ma a lasciarci incastrare in una trama più larga di noi. Dobbiamo imparare dai poveri a tendere le mani anche noi e a cercare di intrecciare la nostra vita con quella degli altri, perché ne abbiamo bisogno.
Possiamo dire che la liturgia è il telaio di Dio: egli è presente e cerca in tutti i modi di convincerci a lasciarci intrecciare facendoci sperimentare la bellezza della prossimità con il fratello e con la sorella, facendoci uscire almeno una volta a settimana dall’isolamento spirituale, ma anche fisico. Ci trasfigura, sperando che guardando il fratello accanto a noi proviamo simpatia per lui, lo vediamo bello, desiderabile. Nella liturgia c’è l’ordine della fraternità che da un posto a ciascuno, ognuno indispensabile ma anche servo inutile.
La Quaresima allora è un tempo opportuno perché lasciando entrare nel nostro cuore la tenerezza di Dio e la simpatia per l’altro impariamo a vincere il virus dell’individualismo per divenire il popolo scelto da Dio e radunato dallo shofar della sua Parola.


Preghiera di Quaresima

Marco 10,46-52
Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!". Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Gesù si fermò e disse: "Chiamatelo!". Chiamarono il cieco, dicendogli: "Coraggio! Àlzati, ti chiama!". Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: "Che cosa vuoi che io faccia per te?". E il cieco gli rispose: "Rabbunì, che io veda di nuovo!". E Gesù gli disse: "Va', la tua fede ti ha salvato". E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Commento
Il passaggio di Gesù raduna sempre molta folla. Nella gran confusione ci sono persone diverse, come diversi sono i motivi per i quali si raduna. Lo vediamo anche in questo episodio. Tanti sono i curiosi, spesso vediamo anche gente che lo segue per poterlo criticare, con quel gusto così caratteristico di sentirsi superiori, c’è chi è sinceramente interessato, ma poi resta deluso; chi segue da lontano, ecc... Anche noi abbiamo motivi diversi per rispondere all’invito del Signore ad unirci alla folla che lo segue: l’abitudine, la curiosità, un bisogno, un senso del dovere, ecc…
Ci sono sempre anche molti poveracci che seguono Gesù perché intuiscono che da lui potranno ricevere una risposta al proprio bisogno. Così è Bartimeo, cieco mendicante. Per lui chiedere è normale, ma questo infastidisce la folla. Che bisogno c’è di chiedere in modo insistente e sguaiato. Va bene seguire, essere presente, ma perché chiedere? E’ il fastidio di chi è sazio e non sopporta il chiedere, anche quando è un altro a farlo.
Il grido di quel povero però non può essere sovrastato dalla folla. È il grido del popolo schiavo in Egitto che Dio udì nonostante la lontananza: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa” (Es 3,7-8). È il grido insistente e importuno della vedova che ottiene giustizia dal giudice iniquo, costretto dalla sua petulanza a compiere quello che avrebbe dovuto fare di per sé (Lc 18,1-8).
Gesù si lascia forzare dal grido e cede all’insistenza, poiché legge in quel gesto un segno di fede, come quando dice: “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8-9)
La Quaresima sia per noi un tempo in cui imparare a rivolgerci a Dio con insistenza e grida forti, senza il fastidio di dover dipendere da altri.
Impariamo a tendere la mano del cuore verso Dio e verso i fratelli: abbiamo bisogno di loro per dare un senso alla nostra vita.

Meditazioni Quaresima 2010 - III


II tappa: Quaresima tempo per Intenerire il cuore

perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore,
pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?

Il profeta Gioele continua a guidarci nel cammino di Quaresima con questa seconda tappa.
Abbiamo visto nel nostro incontro scorso come questo tempo è prezioso per riconquistarci un cuore autentico nel quale fare spazio al bene, vero tesoro che ci rende ricchi e capaci di trarne, in futuro, la benevolenza, la mansuetudine, la mitezza, la pazienza ecc..,. di cui l’Apostolo ci esorta ad essere capaci, per divenire come lo scriba saggio del Vangelo: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. (Mt 13,52) Noi vogliamo diventare discepoli del regno dei cieli, e non padroni di una piccola vita, capaci di estrarre dal tesoro del cuore cose utili e buone.
Ma cosa è il bene che dobbiamo mettere da parte nel tesoro?
Già la volta scorsa parlavamo di una mentalità materialista che ci fa dare molta importanza a “quello che si fa”, piuttosto che a “come siamo”. E’ una mentalità che valorizza l’attività, l’impegno, l’agire, l’organizzazione e l’efficienza, ma tralascia come secondaria l’attenzione al cuore con cui si agisce. La Quaresima vuole rimettere al centro il cuore.
Paolo ai cristiani di Corinto un testo, chiamato inno alla carità, nel quale delinea alcuni tratti di questo contenuto di cui riempire il nostro tesoro, in contrapposizione con la naturale attenzione riversata tutto su quello che sappiamo fare:
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
L’Apostolo elenca tutti i doni più desiderabili per un uomo di fede: saper parlare direttamente con Dio (le lingue degli angeli); conoscere tutto, i perché della vita e della morte; la capacità di compiere cose impossibili e la generosità estrema. Tutto però ha senso solo in una prospettiva di amore. Se è fatto per trarne vanto, cioè se il fine ultimo siamo noi stessi e il nostro vantaggio personale non serve a niente. Questa misura ci insegna a valutare le nostre azioni: il loro scopo è in me o fuori di me, nell’altro? Quello che faccio, come agisco è per trarne soddisfazione e conferma delle mie capacità, per raggiungere rassicurazioni e conforto per me, o è per il bene di qualcuno?
A noi sembrano traguardi irraggiungibili già le mete descritte come insufficienti. In realtà Paolo sembra adombrare che tutto è possibile e a portata nostra, se vogliamo bene.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Paolo prosegue tratteggiando alcune caratteristiche della carità, senza ovviamente esaurirle. Come si vede sono tutte attitudini che non iniziano e finiscono in me stesso, ma coinvolgono necessariamente un altro e in complesso mi sembrano voler come descrivere la capacità di avvolgere l’altro con un abbraccio affettuoso di amicizia. Sono atteggiamenti in cui non sono gli altri a doversi adattare a noi, ma siamo noi, per così dire, a prendere la loro forma. Un cuore intenerito è capace di avvolgere il fratello e assumerne l’impronta, riempirne i solchi causati dalle durezze della vita e smussarne le punte aspre.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.
Paolo continua facendo un confronto fra i traguardi che ci sembrano cosi elevati, ma so parziali e passeggeri e la carità che invece non finisce, sia nella sua vastità (è la cosa che abbraccia tutto e arriva ovunque) sia che dura in eterno (nulla la può cancellare). In questo senso la carità è la perfezione, non perché chi la possiede non ha più difetti, ma perché rende simili a Dio, che è amore. Quando arriva la perfezione che è l’amore tutto ciò che è ci sembrava cosi alto e desiderabile scompare.
Paolo parla di una visione nello specchio, cioè indiretta. Spesso infatti noi guardiamo al fratello e alla sorella attraverso una immagine che ne abbiamo, più o meno scontata o superficiale, distorta, ma la carità ci fa guardare in volto l’altro e amarlo.
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
(1Cor 13,1-13)
L’Apostolo fa una affermazione quasi irriguardosa: La carità è più grande della stessa fede in Dio. E’ vero, perché un cuore che non sa voler bene non si può affidare a qualcun altro, nemmeno a Dio.
Gioele offre di Dio una immagine bella e attraente: il suo voler bene è così forte da fargli cambiare idea su di noi e da offrirci la sua benedizione, anche se non la meritiamo, o piuttosto proprio se ammettiamo di non meritarla. E infatti la fonte del nostro essere capaci di voler bene è nello esserlo stato da lui per primi.
“Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto.” (Col 3,12-14)
L’atteggiamento dell’umile che ammette la propria indegnità e riconosce che è lui per primo ad essere stato beneficato suscita, quasi obbliga, Dio alla benevolenza.
E’ il messaggio della quaresima che ci chiede in modo speciale di riconoscere il nostro peccato e di pentirsi, quasi di consentire a Dio di volerci bene.

In conclusione vorrei proporvi l’esempio di un uomo che ha percorso questa via della conversione del cuore che lo ha portato a cambiare tutta la sua vita.
Francesco di Assisi infatti, come sappiamo bene, visse un itinerario che lo portò da una vita spensierata e piena di soddisfazioni effimere alla ricerca di un senso più pieno per la sua vita. Il biografo ci descrive come mentre ancora conduceva un’esistenza “normale”, divisa fra il commercio nella bottega paterna e le riunioni goliardiche con i compagni di baldoria, iniziò a dedicare alcuni momenti alla riflessione sul senso di quello che faceva.
Possiamo dire che Francesco piano piano riscopre il suo cuore, nel senso che intendevamo l’altra volta, cioè riacquista una dimensione interiore prima atrofizzata, di cui ora avvertiva il vuoto e l’inconsistenza.
In questo contesto si situa un incontro che risultò decisivo per la sua vita. Mentre vagabondava per le campagne infatti si imbatté in un lebbroso che viveva ai margini del mondo civile. Si fermò, scese dal cavallo e stette con lui. Nel suo Testamento Francesco stesso definisce questa esperienza così:
Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo. (1-3)

Il testo dice che “usò misericordia”. È quell’intenerimento del cuore che si esprime in gesti di amicizia e condivisione, fino a giungere a abbracciare e baciare il lebbroso. Questo gesto nasce da un cuore che si è lasciato squarciare, in cui ha fatto breccia la compassione e la benevolenza per l’altro, specialmente chi è più povero.
Francesco indica in questa esperienza l’inizio del suo cambiamento di vita (“uscii dal secolo”). La misericordia pertanto non è stato il frutto di un suo precedente itinerario religioso, ma l’apertra del cuore al povero lebbroso e la scoperta della bellezza del’esperienza della misericordia vissuta gli apre l’orizzonte della fede.
Solo dopo Francesco incontra il Crocefisso, ma è già “uscito dal secolo”, e lo sente come una domanda personale - gli parla - perché riconosce in quell’immagine dolorante il povero con cui ha vissuto misericordia. Il lebbroso è stato per lui mediatore, ministro dell’incontro con Cristo. Francesco è capace di trarre dal suo tesoro l’amore compassionevole per il crocefisso perché ve lo ha fatto entrare nel tempo della ricerca e dell’incontro con la debolezza umana.
Questi episodi ci fanno capire meglio l’invito di Gioele a lacerare il cuore e a farvi entrare la tenerezza che Dio per primo dimostra nei nostri confronti.
La via della tenerezza ci accompagna verso il crocefisso e fa sì che esso ci parli e non resti una immagine muta. Ma ministri (cioè servitori) di questa scoperta sono i poveri, evangelizzatori della nostra vita.
Noi abbiamo bisogno della mediazione dei poveri per giungere all’incontro personale con Dio sulla via maestra che è la tenerezza e la misericordia.




Preghiera di Quaresima

Qoelet 3,1-15

Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?
Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso.

Commento
Qoèlet è una parola ebraica che indica il “predicatore”. Sotto il suo nome la Scrittura ci offre un libro piccolo e prezioso in cui riceviamo la voce viva della sapienza antica di Israele.
L’autore parte dalla constatazione che la vita è ricca di tanti elementi contraddittori nei quali siamo come trascinati senza che ne comprendiamo il senso a pieno.
È l’avvicendarsi degli eventi, ma anche il susseguirsi di sentimenti contraddittori o il ritorno del male che si affaccia nella nostra vita inatteso.
Siamo turbati e sconvolti da questa realtà. Se guardiamo alla vita con gli occhi della Scrittura, senza fuggire gli aspetti che ci turbano, la vita ci appare, lo dicevamo già le scorse settimane, nella sua dimensione di lotta fra bene e male, fra vita e morte.
E’ questa dimensione che noi sfuggiamo, perché esige una scelta: noi da che parte stiamo? Abbiamo paura a prendere posizione perché ci pensiamo da soli: che possiamo pretendere dalle nostre fragili, limitate forze?
Qoèlet ci da la risposta questa domanda: non siamo soli “Dio compie dal principio alla fine”. Sì basta che noi accettiamo che sia il Signore a compiere quello che noi iniziamo o che la vita ci mette davanti. Ma questo non vuol dire essere rinunciatari o affidarci alla provvidenza senza fare nulla, ma diventare noi strumenti del compimento che Dio vuole dare alle vicende umane.
Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere, dice Qoèlet, il compimento delle nostre opere se è ispirato da Dio, e non dalla nostra sapienza mondana, rende solide e durature le conquiste.
Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso. Nulla si perde di ciò che Dio compie, anche se sembra venire meno alla nostra vista. E’ il destino delle nostre vite, fragili, passeggere, ma che in Dio hanno un fondamento che le rende in qualche modo etene.