giovedì 17 giugno 2010

Una riflessione sugli stranieri e i cristiani oggi



La presenza di un numero crescente di stranieri nella nostra società italiana ed europea ha suscitato negli ultimi anni un profondo cambiamento in essa e, di conseguenza, un dibattito animato. Spesso le reazioni sono state scomposte e si è sviluppato un senso diffuso di timore e di rifiuto.
Per questo - anche se non solo per questo, come vedremo meglio più avanti - il tema degli stranieri tocca noi cristiani in un modo tutto particolare perché sono come una cartina al tornasole: sono un modo cioè, semplice e diretto per verificare se siamo davvero evangelizzati o no.
Per noi cristiani infatti la presenza in mezzo a noi di un numero crescente di stranieri non è solo un problema sociale o politico, tantomeno di sicurezza, perché coinvolge il nostro saper leggere la realtà con gli occhi del Vangelo piuttosto che con quelli della sociologia o del realismo materialista. Infatti non possiamo dimenticare che il Signore Gesù si è esplicitamente identificato nello straniero: “ero straniero e mi avete accolto ... ero straniero e non mi avete accolto” (Mt 25,35;43). Nel contesto di giudizio descritto in Mt 25 emerge con forza la decisività del nostro atteggiamento nei confronti dello straniero: ne va della nostra salvezza o condanna, non c’è spazio per una mezza misura o un compromesso.
La dimensione dell’essere forestiero, di colui che vive in un contesto diverso e lontano geograficamente da quello in cui è nato, caratterizza quindi la persona stessa di Gesù in maniera forte. Nel Vangelo di Luca la parola “straniero” riferita a Gesù è usata solo una volta, nell’episodio dei discepoli di Emmaus: “Uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?” Gesù risorto ricorda il volto dello straniero ai discepoli che non lo riconoscono perché impauriti e rassegnati, ma diverranno capaci di riconoscere in quello straniero l’amico e il salvatore dopo un lungo cammino che li accompagna assieme a lui verso l’Eucarestia.
Se andiamo oltre l’uso esplicito della parola “straniero” vediamo come l’esistenza terrena di Gesù si caratterizza per l’essere uno estraneo al contesto sociale all’inizio e alla fine. La nascita e la morte di Gesù sono sotto il segno dell’estraneità, dell’essere straniero: Betlemme non è il paese di origine della sua famiglia, e quel villaggio non lo accetta nemmeno dentro i suoi confini per nascere, ma egli è escluso come qualcuno estraneo. Gesù nasce straniero alla città e alla gente che non lo accoglie come uno dei suoi. Ma anche la morte di Gesù non avviene per lapidazione, il supplizio comminato ai giudei colpevoli di gravi delitti, ma attraverso un supplizio che i romani riservavano agli schiavi e agli stranieri. Gesù per i giudei e per i romani stessi muore come un criminale straniero. La persona stessa di Gesù quindi ci mette davanti al mistero della sua identificazione con lo straniero.
Questo non può non interpellarci.
Questi brevi cenni ci fanno subito rendere conto come la realtà degli stranieri è al centro dell’attenzione dei cristiani non solo e non tanto in quanto “problema sociale” o “fenomeno culturale” ma per la sua stessa essenza: anche, per assurdo, se lo straniero vivesse tra noi nella condizione migliore immaginabile, ben accolto e amato da tutti, la sua presenza non potrebbe fare a meno di interrogare noi cristiani per quello che Martini in suo scritto su questo tema ha chiamato “il motivo cristologico ... per cui l’accoglienza del forestiero non è più allora la semplice opera buona che verrà ripagata da Dio, bensì è l’occasione per vivere il rapporto personale con Gesù
L’inaugurazione del ministero pubblico di Gesù, nella sinagoga di Nazareth, dopo il battesimo nel Giordano da parte di Giovanni Battista, offre nuovi elementi alla nostra riflessione. Come è noto Gesù entra nella sinagoga e comincia a leggere il rotolo del profeta lsaia, che lo riguarda: “Lo Spinto del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc. 4,18- 19). Gesù commenta: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”.

Oggi, cioè: colui che parla è la persona cui si riferisce il profeta. La gente di Nazaret è molto colpita da queste parole, e lo stupore nasce dal fatto che Gesù è il figlio di Giuseppe e Maria. Come è possibile che parli in quel modo? Dunque, la prima reazione è di sorpresa e di ammirazione. A questo punto Gesù riprende e aggiunge: “Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria”.
Gesù lancia il proverbio per svelare il pensiero reale dei nazaretani: tu hai la potenza dello Spirito per guarire e liberare, hai operato guarigioni meravigliose a Cafarnao, falle anche qui, nella tua patria! Abbiamo qui l’opposizione Nazareth - Cafamao. Gesù continua ampliando la prospettiva: “Nessun profeta è bene accetto in patria”. Gesù risponde con un altro proverbio e lo sviluppa con due esempi della Bibbia:
C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e vi fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Ella, se non a una vedova in Sarepta di Sidone”. E poi continua: “C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”. Presenta il caso in cui due stranieri pagani sono stati privilegiati da Dio al posto dei presunti “destinatari naturali” della sua benevolenza: i concittadini e i correligionari.
Siamo passati da un conflitto fra due piccoli paesi, Nazareth e Cafamao, a una prospettiva molto più ampia, fra Israele e il mondo pagano straniero.
L’apertura della missione si fa qui già sentire, si può già presentire nel ministero di Gesù un’azione verso i pagani. Qui abbiamo già, forse, una certa reazione di Gesù davanti a un atteggiamento di quei nazaretani, i suoi compaesani, di volere per sé soli un privilegio a livello religioso.
Come accennavo in principio c’è una tendenza a identificare lo straniero con la problematicità. Lo vediamo a livello politico, laddove negli Stati, ma nelle stesse istituzioni europee, le autorità che si occupano della presenza nelle società degli stranieri sono quelle di Polizia, deputate a garantire la sicurezza dei cittadini. Ma troppo spesso anche nella Chiesa il rapporto con gli stranieri è affidato per così dire agli specialisti delle questioni sociali: la Caritas, la San Vincenzo, i gruppi caritativi. Una visione eminentemente materialista infatti ci fa vedere nello straniero quasi esclusivamente, una bocca da sfamare, un corpo da vestire, alloggiare, far lavorare, ecc... Senza togliere nulla alla necessità di un atteggiamento solidale e generoso della comunità cristiana, spesso si dimentica che lo straniero è anche portatore di bisogni spirituali e testimone di fede. E’ quello che dimostra Gesù quando incontrando il centurione romano, pertanto straniero e pagano, ne loda la fede:
“Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: “Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!” Che scandalo doveva essere per i giudei una lode del genere per un oppressore idolatra, ma Gesù sa leggere più in profondità nel cuore di quell’uomo capace di un amore tenero per il suo servo e di una fiducia incrollabile nella potenza della sua Parola. Lo straniero infatti tante volte affina nella sua esperienza di dolore e umiliazione una sensibilità straordinaria e matura un affidamento a Dio che supera di molto il cristiano medio, sazio e orgoglioso nel proprio benessere.
Ma forse il brano che meglio ci aiuta a capire come Gesù valuta lo straniero è la parabola del buon samaritano.
Lo straniero in Luca è essenzialmente il samaritano. L’Evangelista ne parla in tre testi. il primo si trova nei momento preciso in cui Gesù decide di partire per Gerusalemme. All’inizio di questo grande viaggio Gesù mandò avanti dei messaggeri. “Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverlo perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? Ma Gesù si voltò e li rimproverò. E si avviarono verso un altro villaggio”.
Questo testo mostra molto bene l’atteggiamento spontaneo del mondo giudaico vèrso i samaritani. Nell’atteggiamento di Giacomo e Giovanni si ha un ricordo del profeta Elia, che ha mandato fuoco su 50 uomini; Gesù si accontenta di rimproverare i suoi discepoli. Ma quest’episodio è interessante ugualmente, prima dei due testi principali, se pensiamo al contesto storico. Appena dieci anni prima del ministero di Gesù un gruppo di samaritani era riuscito ad entrare nel Tempio durante la notte, al momento della celebrazione delle feste pasquali, e aveva sparso tutto il Tempio di ossa umane. Era un gesto carico di una grande dose di odio:
avevano voluto far sì che il tempio fosse totalmente impuro, che non potesse servire per la celebrazione delle feste pasquali. Questo era l’odio dei samaritani; è facile immaginare l’odio dei giudei, naturalmente.

Nell’anno 52 i samaritani avevano ucciso un gruppo di galilei che andava in pellegrinaggio verso Gerusalemme. I galilei, nella ricerca di vendetta, avevano distrutto un gruppo di villaggi samaritani, massacrando tutti gli abitanti. Si capisce bene, allora, l’atteggiamento di Giacomo e Giovanni, che vogliono fuoco dal cielo sui samaritani.
In Lc 17,11-19 troviamo la storia dei dieci lebbrosi. Questo episodio si trova in un punto importanté del Vangelo di Luca, l’inizio del viaggio a Gerusalemme: “Durante il viaggio verso Gerusalemme” (si vede il ricordo del viaggio) “Gesù attraversò Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi”. Appena li vide, Gesù disse: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono sanati. Ma c’è anche la seconda parte dell’episodio: “Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce”. Ecco uno che ha senso religioso: ricorda Naaman, che esclama “il Dio d’Israele è il solo vero Dio”: “e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo”. Solo a questo punto, quando noi, lettori, siamo finalmente nell’ammirazione di questo esempio di credente, viene svelato: “Era un samaritano”.
Gesù allora pone tre domande, in un modo molto caratteristico: “Non sono stati guariti tutti e dieci?”. La domanda e la risposta sui dieci appaiono al lettore scontate; tutti sanno dal racconto che sono stati guariti. Continua: “E gli altri nove dove sono?”. Anche qui lo sappiamo già, Gesù ha detto loro di andare dal sacerdote e hanno obbedito. La terza: “Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio all’infuori di questo straniero?” Abbiamo qui questo straniero nel senso pieno, la parola greca è allògenos, di un’altra razza, che però è il solo venuto a rendere grazie a Dio. Ecco il modo di procedere di Gesù, che insiste: quest’uomo ha davvero un senso religioso profondo, ha saputo capire la necessità di rendere grazie a Dio, egli è precisamente un non giudeo, un samaritano, è uno di questa razza odiata (proprio la parola razza è espressamente citata).
E gli disse: “Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato!”. Sono guariti tutti e dieci, ma non solo. Gesù non dice, infatti: “La tua fede ti ha sanato” ma: CorsivoLa tua fede ti ha salvato”. Nel vocabolario di Luca questo verbo, salvare, ha una grande forza; la fede per essere guariti l’hanno avuta tutti e dieci, ma la fede per essere salvato solo questo samaritano. li modo di fare del Vangelo insiste su questa fede di uno straniero, di un allògenos, fede che Gesù non ha trovato da parte degli altri nove. Qui uno straniero è proposto dal Vangelo davvero come modello di fede.
Resta un altro straniero, che è ben conosciuto, il Buon Samaritano, al capitolo 10, dopo che abbiamo incontrato il “samaritano riconoscente”. All’inizio c’è una domanda posta a Gesù, cui Gesù risponde con una controdomanda: “Cosa c’è scritto nella Legge?”. E il dottore risponde citando il comandamento dell’amore verso Dio secondo il testo del Deuteronomio ben conosciuto perché era l’inizio dello Shemà Israel, cioè della preghiera che il buon giudeo diceva almeno due volte al giorno. E aggiunge l’amore del prossimo, che non fa parte dello Shemà, e Gesù Io sottolinea quando risponde con l’imperativo: “Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai”.
Il dottore della Legge è un po’ confuso, vuole come giustificarsi: “Chi è il mio prossimo?”, chiede, ed è la domanda; la controdomanda, molto ben radicata nell’evento principale della nostra parabola, è questa: “Chi dei tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. La domanda, cioè, capovolge i termini dell’interrogativo iniziale. Mentre il dottore domandava: “Chi è il mio prossimo?”, chi deve essere l’oggetto del mio amore, Gesù racconta una storia: “Chi, a tuo avviso, è diventato prossimo di quello che era incappato nei briganti?”. Bisogna farsi prossimo dell’altro: la domanda è capovolta. Il prossimo è il soggetto, non più l’oggetto. Qui il dottore risponde: “chi ha avuto compassione di lui”. È molto prudente. Il senso qui è di “fare compassione” con lui. Anche qui Gesù conclude con l’imperativo: “va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
Il racconto arriva a capovolgere la domanda primitiva per arrivare ad una nuova domanda.
Per Luca il racconto ha la funzione di passare dalla domanda difensiva del dottore “chi è il mio prossimo?” all’altra decisiva domanda: “chi ti sembra essere stato il prossimo di quell’uomo incappato nei briganti?” (la traduzione dovrebbe essere “chi è diventato prossimo”: in greco il verbo è gignesthai). La domanda dunque non è più per sapere qual è il prossimo che devo amare, ma per sapere come io devo fare per farmi prossimo dell’altro, quello che ha bisogno di essere aiutato. Si è verificata un’inversione: il prossimo devo essere io, prossimo che deve amare piuttosto che prossimo che deve essere amato.
Gesù racconta questa storia dell’uomo incappato tra i briganti; su quest’uomo non sappiamo quasi nulla. Abbiamo l’indicazione del luogo, sulla strada da Gerusalemme a Gerico; naturalmente su questa strada si incontravano piuttosto dei giudei, e su una strada così un samaritano non è molto sicuro perché si trova in una zona ostile.
Dopo i primi due personaggi, diciamo sacrali, si vede arrivare un terzo. Si potrebbe pensare ad un laico. Ma non è un semplice laico, adesso lo si dice subito, è un samaritano. E’un nemico, uno da cui non si può sperare niente di buono. Come i precedenti quello arriva, vede e ora tutto è cambiato, egli è preso da compassione. Allora Gesù può fare la domanda: “Chi di questi tre ti sembra si sia mostrato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. La cosa più significativa è il cambiamento di prospettiva; a prima vista sarebbe stato molto naturale e facile per Gesù rispondere alla domanda: “Chi è il mio prossimo?” Ogni uomo ha bisogno di aiuto, anche straniero, anche un nemico odioso come sarebbe un samaritano. Gesù non si accontenta di questo. Invece di presentare come samaritano l’uomo incappato nei briganti, il destinatario della nostra compassione, egli ha voluto fare di un samaritano il modello del comportamento esemplare. In questo modo il rifiuto di ogni frontiera, di ogni limite al dovere dell’amore del prossimo mi pare che diventi molto più forte. Noi cristiani dobbiamo imitare quello straniero, il più odioso possibile per gli ebrei e forse con tanti volti nel nostro Nord del mondo, anche per noi. Quali sono i nostri samaritani oggi? Si può trovare più disponibilità ad accogliere Dio da parte di uno di questi “avversari” della religione che non dalla parte dei professionisti della religione. Per un cristiano dunque non può esistere un’idea di propria superiorità davanti agli stranieri.
Questo rapido excursus sul tema dello straniero come emerge in alcuni passi dei Vangeli ci fa rendere conto della decisività di questo tema. Capiamo meglio pertanto perché saremo giudicati sull’accoglienza allo straniero!
Gli episodi di razzismo e rifiuto dello straniero, una vera e propria cultura del disprezzo per chi è diverso da sé per etnia, lingua, religione, colore della pelle, ecc... rivelano pertanto bene la distanza che separa il nostro mondo dal Vangelo. E’ una provocazione per chi sente la responsabilità di fronte alla deriva di un ateismo pratico della società. L’accoglienza dello straniero è pertanto non solo un dovere del cristiano ma è un gesto profetico, nel senso che parla di Dio in un mondo lontano da lui. E’ quello che ci ricorda la lettera agli Ebrei: “Non dimenticate l’ospitalità, alcuni praticandola hanno accolto degli angeli senza saperlo.” (Eb 13,2) Infatti l’unica strada che ci permette di vincere la naturale inaccoglienza che allontana lo straniero è la vicinanza a Cristo: “In Cristo Gesù voi, i lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo” (Ef 2,13) Il nostro riferimento non può essere pertanto limitato all’esercizio di una politica sociale più equa o ad una maggiore tolleranza, ma rimane l’incontro personale con Cristo: l’uomo senza frontiere è l’uomo nuovo che nasce dalla croce di Gesù. “Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (GaI 3,26-28)
Nello scritto che citavo poco fa il Card. Martini richiama un altro elemento come fondamento del nostro rapporto con lo straniero: “il motivo escatologico”, I credenti in Cristo infatti sono concittadini dei santi e, in conseguenza, sono pellegrini in questo mondo. La Chiesa non è nazione o città stabile perché cerchiamo quella futura. Come dunque il ricordo del soggiorno in Egitto diventava per gli israeliti motivo di ospitalità, così i cristiani, anch’essi pellegrini, devono comprendere tutti coloro che sulla terra sono stranieri e pellegrini, nella loro stessa figura fisica e sociale
La condizione escatologica inaugurata dalla Risurrezione di Gesù fa sì che tutti sono pellegrini quanto al possesso della terra “I cristiani - scrive Diogneto - abitano la propria patria, partecipano a tutto come dei cittadini, e però tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria e terra straniera”, non perché si disinteressino della città terrena bensì perché sanno che tutti siamo in cammino verso la città definitiva, della quale tutti siamo concittadini, quella che Dio stesso ci sta preparando.
La Bibbia ci consegna questo grande messaggio: la morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci rende membri di una umanità che ritrova la sua vera unità non nelle realtà contingenti e passeggere ma nella pace di Dio.
Capiamo bene da questi brevi cenni anche la rilevanza pastorale del rapporto con lo straniero: sottovalutarne la crucialità significa svuotare, almeno in parte, la forza rivoluzionaria e salvifica della croce. Per questo la Chiesa non ha mai accettato un compromesso con tendenze razziste o che ammettessero una differenza fra gli uomini in nome della loro religione, cultura o etnia.
Per concludere direi che il tema degli stranieri è una sfida a noi cristiani anche perché il cristianesimo se non è inserito in una visione vasta e universale langue e si impoverisce. Diventa una forma contingente di civiltà e perde la forza di una fede vissuta e di un messaggio di salvezza. E’ quello che tante volte avviene in Italia ed in Europa. Spesso la politica è disposta ad accogliere il cristianesimo per i suoi fini, come puntello o giustificazione ad una logica di potere, ma mal sopporta la contestazione che, in nome della fede nel Cristo crocefisso, le comunità cristiane non possono non fare sui temi dell’immigrazione. In una sua riflessione sulla Chiesa in Europa del 2003 il papa Giovani Paolo Il parla del fenomeno migratorio collocando la sfida non sulla prospettiva stretta e angusta che troviamo oggi nel dibattito su questi temi, ma collocandolo nell’orizzonte di una visione per l’Europa:
“Di fronte al fenomeno migratorio è in gioco la capacità, per l’Europa, di dare spazio a forme di intelligente accoglienza e ospitalità. È la visione «universalistica» del bene comune ad esigerlo: occorre dilatare lo sguardo sino ad abbracciare le esigenze dell’intera famiglia umana.” “Una convivenza pacifica e uno scambio delle reciproche ricchezze interiori renderà possibile l’edificazione di un’Europa che sappia essere casa comune, nella quale ciascuno possa essere accolto, nessuno venga discriminato, tutti siano trattati e vivano responsabilmente come membri di una sola grande famiglia.”
In questa visione larga e universale credo che noi dobbiamo e possiamo vivere la sfida dell’incontro con lo straniero, come prova di autenticità della nostra fede che solo se non accetta compromessi e sottomissione a logiche mondane, risulta credibile agli occhi di chi cerca la verità della vita.