martedì 26 ottobre 2010

Scuola del vangelo 2010-2011 - II incontro 27 ottobre 2010

La volta scorsa dicevamo che per essere cristiani non si può fare a meno di mantenere una domanda interiore aperta, come un interrogativo esistenziale, sul senso della vita, sul perché dell’essere stati preservati, a differenza di molti altri, e sul che ne faccio io del dono della vita e delle innumerevoli opportunità che essa mi offre. Ora non dico che ogni giorno, ogni momento bisogna porsi queste domande, saremmo un po’ ridicoli, ma farvi riferimento nelle scelte, anche quelle apparentemente poco significative, sul come spendiamo il nostro tempo, le nostre energie, le risorse che abbiamo a disposizione, i talenti per riprendere l’espressione del Vangelo che usavamo l’altra volta.
Si tratta di vivere svegli, non assopiti nell’abitudine.
Questa infatti è probabilmente la più grande malattia dell’uomo e la donna adulta: siamo in grado di dire per ogni cosa che facciamo quel è lo scopo, se veramente vale la pena, se rientra nelle priorità della nostra vita o se non lo facciamo solo perché lo abbiamo sempre fatto o perché lo fanno tutti?
Potremmo dirci: ma perché porsi tutte queste domande e rendersi la vita così complicata? Non è meglio barcamenarsi come fanno tutti, magari sforzandosi un po’ di più, questo sì, di fare meglio? In realtà la necessità di vivere con una, o anche più, domande aperte è per “combattere la buona battaglia … e conservare la fede”, per parafrasare la lettera di Paolo a Timoteo che abbiamo ascoltato domenica scorsa alla liturgia, cioè è questione della nostra salvezza.
Noi spesso siamo più disposti a sottostare a esigenze moralistiche, che si conciliano benissimo con la vita pigra di chi non si lascia interrogare, perché non sono stringenti e ultimative. Cioè siamo molto più disponibili ad ammettere di non correre abbastanza, quanto dovremmo, sulla strada della vita piuttosto che interrogarci se stiamo sulla strada giusta. Poi ci lamentiamo che è tanto difficile, che come si fa’, che non si può fare tutto, ecc… Ma la facilità con cui diciamo questo dimostra proprio che non abbiamo presente che ne va della nostra salvezza.
Vi faccio un esempio: se noi stessimo per precipitare in un burrone e avessimo come unica possibilità di salvezza afferrarci con tutte le nostre forze ad un ramo che esce dal suolo non ci verrebbe certo in mente di lamentarci se aggrapparsi è troppo faticoso o sappiamo come fare: lo faremmo con tutte le nostre forze e ringrazieremmo Dio che quel ramo sta lì, sennò saremmo già morti. Ora la questione che ci poniamo è la stessa: se noi ascoltiamo il Vangelo e viviamo la nostra fede come uno sforzo moralistico siamo sempre lì a pensare se vale la pena, se siamo capaci, se ci fa fatica, se ce la facciamo, ecc… Se invece ne facciamo una questione di salvezza saremmo disposti a mettercela tutta, pur di non precipitare.
Infatti non ci mettiamo nulla a dire che dobbiamo sforzarci di più, che dobbiamo essere più impegnati e solleciti, che dobbiamo sforzarci di più, ma meno disposti a farci dire che forse camminiamo sulla strada che non porta a niente, che dobbiamo cambiare via, cioè convertirci. Se ci poniamo questa domanda magari scopriamo anche che io mi affatico o mi affanno per, sto male per, sento la mancanza di, punto a tante cose che non valgono affatto la pena di tanta fatica, mentre magari se facessi lo stesso o anche meno sforzo nella direzione giusta otterrei molto di più in senso, felicità, soddisfazione, vita piena.
E’ quello che dice Gesù nel Vangelo di Marco: “Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: "Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!". I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; … Pietro allora prese a dirgli: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito". Gesù gli rispose: "In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.” (Mc 10,23-24;28-30)
Pietro ha fatto la cosa giusta, ma, in modo moralistico, la presenta come un sacrificio e una rinuncia a ciò che veramente lo avrebbe reso felice. E’ un prezzo da pagare. Gesù gli risponde dicendogli che non ha perso proprio nulla, anzi ha guadagnato molto, perché ha preso la strada giusta, lasciandosi dietro ciò per cui non valeva la pena affannarsi tanto.
L’altra volta accennavo all’esperienza che tutti facciamo del tempo che passa. Le nostre esistenze avvertono un progressivo intorpidimento del corpo e dello spirito che ha delle conseguenze concrete molto evidenti: uno fa più fatica a ricordare, si stanca più rapidamente, il corpo ormai comincia ad aver vissuto qualche annetto ed ha i suoi acciacchi. Questo è un processo naturale.
Ma esiste anche un intorpidimento dello spirito che di norma accompagna il passare degli anni, ma questo non è un processo naturale, è il frutto della scelta di non mantenere viva e aperta quella domanda di fondo a cui accennavo.
Cosa vuol dire intorpidimento dello spirito?
Non è facile accorgercene, perché assume aspetti di grande normalità. Ad esempio ci capita più spesso di avere paure, timori e apprensioni che prima non avevamo. Siamo come più legati da mille vincoli, meno liberi di muoverci come vorremmo, di fare quello che vorremmo, e lo giustifichiamo con meno rammarico, come una cosa naturale e che non ci pesa molto. Facciamo molta fatica ad ammetterlo, ma talvolta, e prima ci sembrava di non essere così, ci scopriamo con dei pensieri e delle riflessioni prese da una preoccupazione di avarizia. Prima ci pensavamo di meno, avevamo meno impacci e remore, meno cose ci sembravano impossibili, impensabili, irrealizzabili. Le giustifichiamo, quando riusciamo a coglierle, come un'esigenza di sana gestione delle proprie risorse e forze, ma in realtà, spesso poi volgono facilmente in un atteggiamento di vera e propria avarizia umana.
Ci si accontenta più facilmente di quello che da più giovani non ci bastava, perché volevamo di più dalla vita. Oggi ci sembrano illusioni giovanili, mancanza di realismo, irruenza e imprudenza.
È come se ogni anno potassimo un po’ di rami perché si fa fatica a portare linfa dappertutto, ci si restringe al tronco, allo stretto indispensabile. Si tende a fare sempre più solo quello che ci viene facile, naturale, a cui siamo abituati: cose nuove o insolite ci infastidiscono, perché bisognerebbe imparare, sforzarsi, inventare.
Poi con il passare degli anni si prova una sempre maggiore tenerezza e indulgenza per sé per come si è fatti, con i tic psicologici (“a me questo proprio non va, quello non lo sopporto, non chiedermi questo che io non so farlo”, ecc…), si tende ad accettarsi molto di più così come si è e, in fondo, a piacersi così come si è, e i difettucci che magari un tempo ci davano fastidio oggi ci sembrano così parte di noi che ci rendono più originali o con più personalità.
Un esempio pratico di questo atteggiamento è la facilità con cui accettiamo che il nostro tratto umano predominante sia quello brusco, di quella aggressività spacciata per franchezza. Il pretendere di “dire le cose così come le penso” o “così come stanno” che in realtà è la giustificazione per dire la prima cosa che passa per la testa come fosse la verità, senza bisogno di dover andare a fondo o tenere conto chi si ha davanti. E questo è il modo più violento per tagliare fuori l’altro che ho davanti: chi è lui, come è fatto non conta, quale è la sua sensibilità, quale può essere l’effetto di quello che dico, e poi, banalmente, se sono sicuro che è vero o giusto quello che dico.
Gli altri, è ovvio, devono solo accettarci così come io sono perché questa è la verità di me stesso. Questo esempio è un aspetto di quel più complessivo “accettarsi così come si è”, che talvolta volge rapidamente in vero e proprio compiacimento.
Oppure, un altro esempio, ci pensiamo come “tipi pratici”, più portati a “darsi da fare” più che a stare con le persone, perché ci imbarazziamo o non vogliamo fare la fatica di parlare, ascoltare, incontrare, ricordare.
Infine, ultimo esempio, l’accettazione acritica e anch’essa un po’ compiaciuta della propria ignoranza, per il rifiuto di informarci, convinti che tanto le cose poi le capisco, magari facendo una sintesi che semplifichi: è tutto un po’ la stessa cosa, nel calderone di quello che già conosciamo il brodo ha un po’ sempre lo stesso sapore e non c’è bisogno di sottilizzare. Un’ignoranza che finisce per essere accettata. Finisce per non essere combattuta. Rinuncia alla curiosità, all’interesse per cose nuove, abitudine al già noto.

Tutte queste cose ci riportano alla domanda iniziale: vivo io con una domanda aperta sul senso, il valore, lo scopo della vita?

Quanto nascondo queste domande dietro il muro delle abitudini che mi evitano domande e fatica?

Quanto accetto come normale e anche un po’ piacevole la mia naturalezza, così come sono fatto, cioè l’umanità non lavorata dal cesello della conversione che riesce a tirare fuori dal materiale grezzo le opere d’arte di una vita più umana?

lunedì 25 ottobre 2010

Statistiche visite fino ad ottobre 2010


XXX domenica del tempo ordinario – 23 ottobre 2010





Dal libro del Siracide 35, 15-17.20-22
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.

Salmo 33 - Il povero grida e il Signore lo ascolta.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.

Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 4,6-8.16-18
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Alleluia, alleluia.
Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo,
affidando a noi la parola della riconciliazione.
Alleluia.

Dal vangelo secondo Luca 18, 9-14
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Commento
Cari fratelli e care sorelle, l’apostolo scrive a Timoteo nel periodo finale della sua vita. Paolo confida al suo amico e collaboratore che si sente vicino alla fine della sua vita. Sono parole serie, ma non tristi, né tantomeno angosciate. Guarda indietro alla sua vita e la definisce come “una battaglia”. Anche a noi tante volte la vita sembra una lunga guerra. Bisogna farsi strada lottando e raramente si può evitare di difendersi dalle aggressioni altrui o di tenere alta la guardia per non soccombere. Come già dicevamo altre volte, oggi molti affermano che è inevitabile essere aggressivi, che bisogna abituarsi a vivere con conflittualità e pronti a restituire i colpi che la vita ci fa subire in un’esistenza “tutti contro tutti”.
Ma Paolo parla di una battaglia diversa. Il suo scopo infatti non è farsi strada o prevalere, né assicurarsi le risorse che, specialmente in questo tempo di crisi, sono scarse e non bastano per tutti, ma è “conservare la fede”: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. Sì, la battaglia di Paolo è innanzitutto contro sé stesso e l’istinto innato in ogni uomo a perdere quella disponibilità alla fiducia e quell’apertura all’altro che è il cuore profondo della fede. La battaglia ingaggiata dall’apostolo è quindi l’esatto contrario di quella che il mondo ci propone fin da piccoli: lotta contro l’indurimento del cuore, per restare vulnerabili; lotta contro l’arroganza, per conservarsi miti; lotta all’orgoglio per essere umili; lotta contro ogni forma di violenza e prevaricazione per essere sempre pronti ad aprire per primi le mani e il cuore al fratello e a Dio. L’aver vinto questa battaglia e l’aver di conseguenza conservato la fede negli uomini e in Dio permette a Paolo di parlare della sua morte senza quel senso di amarezza o disperazione che è così normale. Noi, in genere, ne sfuggiamo il solo pensiero e nessuno ne vuole parlare, perché chi si è abituato a mostrare un volto duro e a lottare per tutta la vita teme ogni forma di debolezza e nega che essa fa parte della vita, e la morte è il massimo della debolezza, è il segno estremo della finitezza del’uomo. Paolo non ne ha paura perché sa che lo attende il Signore giusto: confidando in lui è vissuto, ed ora a lui si affida nel momento di maggior debolezza: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno”. Chi infatti ha vissuto fidando solo nelle proprie forze su cosa potrà fare affidamento quando queste vengono meno e la debolezza si fa strada?
E’ necessario che fin da subito decidiamo di intraprendere la buona battaglia contro l’istinto a diffidare e a contrapporci e potremo vincerla, come Paolo, e mantenere fino alla fine la fiducia nel fratello e in Dio. Le due cose infatti vanno insieme, non si può dire di avere fede in Dio se non siamo pronti a confidare nel prossimo. Lo testimonia sempre l’apostolo, il quale afferma che pur essendo stato abbandonato nel momento della difficoltà, non solo non desidera il male di chi non lo ha aiutato, ma questo non è stato motivo per decidere di pensare solo a sé stesso. Anzi proprio nella difficoltà l’aiuto del Signore lo ha sostenuto perché continuasse a portare l’annuncio del vangelo a tutti, preoccupandosi della loro più che della propria salvezza. Amore per il prossimo e amore per Dio, fiducia nel fratello e affidamento a Dio sono le due facce di un’unica medaglia.
A questo proposito l’evangelista Luca ci riporta una parabola che Gesù ha raccontato a chi si rifiutava di vivere questo atteggiamento di amore e disponibilità al fratello: “Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.” Gesù sa che chi si sente superiore e disprezza gli altri non sa nemmeno essere figlio di Dio e si rivolge a lui con arroganza e durezza, come fa appunto il fariseo della parabola. Per essere amici di Dio infatti bisogna partire dalla propria piccolezza di figli che da soli non possono fare nulla senza l’aiuto del padre. E’ la coscienza che esprime il pubblicano che, a differenza dell’orgoglioso fariseo, si avvicina con umiltà a Dio, riconosce il proprio peccato e invoca il suo aiuto con la fiducia del bambino.
Cari fratelli e care sorelle, il vangelo oggi ci indica come la via della nostra salvezza passi attraverso l’umiltà di riconoscere il proprio bisogno degli altri e la ricerca fiduciosa di essere amico con loro. Solo chi vive questo atteggiamento avrà la capacità di riconoscere la vicinanza di Dio e di invocare il suo aiuto. Ma chi al contrario coltiva in sé un senso orgogliosamente autosufficiente e diffidente non saprà nemmeno riconoscersi figlio di Dio e bisognoso della sua salvezza.
Come ci ricorda infatti il libro del Siracide, la preghiera di chi è giusto raggiunge le nubi, ma solo chi si rivolge al Padre con l’atteggiamento del bisognoso può superare la barriera delle nubi e toccare direttamente il cuore di Dio.
Con animo umile dunque prepariamoci a vivere la dura battaglia contro noi stessi, coscienti che non solo il Signore starà al nostro fianco, ma che troveremo la salvezza di chi, riconciliato con tutti, vive una vita non spaventata e aggressiva ma fin da subito piena di gioia.
Preghiere

O Padre misericordioso, accoglici umili e peccatori. Perdonaci del male commesso e donaci la salvezza che viene dall’imitare te.
Noi ti preghiamo

O Dio fa’ che non viviamo orgogliosamente soddisfatti di noi stessi e convinti della superiorità sugli altri. Insegnaci a non temere la debolezza e a riconoscerci bisognosi dell’amore dei fratelli e del tuo perdono.
Noi ti preghiamo

O Signore Gesù che ti sei fatto umile servitore degli uomini, insegnaci a non difenderci dal tuo amore e a non allontanare i fratelli e le sorelle per paura di scoprirci bisognosi del loro affetto. Aiutaci ad essere sempre pronti a voler bene.
Noi ti preghiamo

Ti raccomandiamo o Padre misericordioso tutti coloro che camminano sulla via del male e senza rendersi conto rovinano la vita propria e quella degli altri. Fa’ che con il nostro esempio comprendano la gioia che viene dalla lotta perché il bene vinca.
Noi ti preghiamo
O Signore del cielo aiutaci a combattere fin da ora la buona battaglia contro l’istinto ad allontanarci da te e a diffidare del prossimo. Fa’ che vittoriosi sul male conserviamo la fede.
Noi ti preghiamo

O Dio rendi il nostro cuore puro e umile, perché la nostra preghiera ti raggiunga oltre le nubi. Dona guarigione e salvezza a tutti coloro che ci sono a cuore, da’ pace e gioia a chi è nel dolore.
Noi ti preghiamo.

O Dio che sei il re della pace, fa’ cessare ogni guerra e ogni violenza perché con cuore riconciliato ognuno sappia costruire un destino comune in cui c’è posto per tutti.
Noi ti preghiamo

Proteggi o Signore tutti i tuoi discepoli ovunque dispersi. Fa’ che chi annuncia il tuo nome e vive come tu hai insegnato possa toccare il cuore di chi ancora non ti conosce.
Noi ti preghiamo

martedì 19 ottobre 2010

Scuola del Vangelo 2010-11 - I incontro 20 ottobre 2010



I incontro - 20 ottobre 2010



Con questo incontro odierno iniziamo un nuovo anno e ci piace farlo assieme alla Parola di Dio.
Partiamo proprio da questa constatazione: un anno è passato e ci prepariamo ad aprirne un altro. Potremmo dire: perché sottolinearlo? Già ce lo ricordano tanti segni, di cui molti ci infastidiscono e preoccupano: qualche capello bianco in più, quella ruga fastidiosa, ecc…
Per noi cristiani però il passare del tempo non è una maledizione. Già l’anno scorso abbiamo parlato del fatto che la storia, dell’umanità intera e quella personale di ciascuno, ha un senso, una direzione, uno scopo, non è solo un semplice dato anagrafico, perché ha il senso di un dono ricevuto e di una occasione offerta.
Sì il tempo della nostra vita è un dono, perché non abbiamo fatto nulla per meritarlo. Ce ne rendiamo conto specialmente se lo confrontiamo agli anni “rubati” ai tanti che vedono troncata o negata la vita dalla violenza o dal male nelle sue diverse forme, per lo più assurde. Sabato scorso, 16 ottobre, ad esempio, ricorreva il 67° anniversario della deportazione degli ebrei da Roma ad opera dei nazisti. Racconta Fausto Cohen, uno degli scampati alla deportazione:


“Quel 16 ottobre era un sabato, giorno di riposo per gli ebrei osservanti. E nel Ghetto i più lo erano. Inoltre era il terzo giorno della festa delle Capanne. Un sabato speciale, quasi una festa doppia … La grande razzia cominciò attorno alle 5.30. Vi presero parte un centinaio di quei 365 uomini che erano il totale delle forze impiegate per la “Judenoperation”. Oltre duecento SS contemporaneamente si irradiavano nelle 26 zone in cui la città era stata divisa per catturare casa per casa gli ebrei che abitavano fuori del vecchio Ghetto. L’antico quartiere ebraico fu l’epicentro di tutta l’operazione … Le SS entrarono di casa in casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno … Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco più in là del Portico d’Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli. Non venne fatta nessuna eccezione, né per persone malate o impedite, né per le donne in stato interessante, né per quelle che avevano ancora i bambini al seno …”. (F. Cohen, 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma, Firenze, La Giuntina 1993.)


Alla fine di quel sabato le SS registrano la cattura di 1024 ebrei romani. La maggior parte fu uccisa, due giorni dopo, nel campo di Auschwitz, nelle camere a gas, immediatamente, al loro arrivo. Ne sono tornati 16, di cui una sola donna (Settimia Spizzichino). Nessuno dei 207 bambini è sopravvissuto.
Questi dati ci fanno riflettere: quanti anni di vita donati da Dio a quei 1024 ebrei romani sono stati rubati dalla furia nazista? Il conto è impossibile, ma una cosa è certa: noi siamo stati preservati e ne continuiamo a godere con larghezza.
A partire da questa storia recente ci chiediamo: “perché la nostra vita è stata preservata?” C’è un mistero nel privilegio di cui siamo stati fatti oggetto. Non può essere una cosa casuale o senza senso, deve avere un significato. E’ la domanda di fondo di ogni esistenza umana, ma per i discepoli del Signore Gesù assume un valore ancora più grande: è il mistero dell’incarnazione, del perché del suo amore così testardo e tenace per un’umanità traditrice e dimentica.
E’ una domanda che non si può sfuggire, anche se in tanti modi evitiamo di farcela porre.
La coscienza del privilegio che abbiamo è rara, perché noi siamo portati a vedere solo quello che ci manca e assai poco quello che abbiamo in più degli altri, come ci ricorda la Scrittura: “Nella prosperità l'uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono.” (Sal 49, 21)
Per questo possiamo dire che la storia, il tempo della vita dell’uomo è, oltre a un dono elargito, anche un’occasione offerta. Sì perché la coscienza di essere stati preservati dal male e dal furto della vita ingiustamente subita da tanti ci pone implicitamente una domanda esistenziale, profonda: “che cosa ho fatto della vita che ho ricevuto in dono?”
Vivere infatti è una grande opportunità, un susseguirsi di occasioni, di incontri, di possibilità che non sono scontate, ma sono vissute secondo la nostra scelta. Noi possiamo decidere cosa fare del dono della vita, della lunghezza degli anni che abbiamo a disposizione.
I cristiani infatti sono stati liberati dall’idea del destino che avevano i pagani. Secondo il loro modo di pensare il futuro di ciascuno era deciso dal capriccio degli dei, nessuno poteva sfuggire al disegno che era stato previsto per ogni individuo. E’ quel senso cupo, drammatico che caratterizza le tragedie greche, in cui emerge con evidenza l’impossibilità dell’individuo di sfuggire dal tragico gioco degli dei sul proprio destino. Ma è una idea ancora molto presente ai nostri tempi, che si esprime magari con termini nuovi: il carattere, la psicologia, l’essere fatti in un certo modo, l’impossibilità a cambiare, la rassegnazione, ecc… Ogni volta che pensiamo che la realtà, personale o di certe situazioni, non può cambiare ribadiamo che esiste un destino preordinato da cui non si sfugge.
Questa è una prigione, perché impedisce di uscire dal dato di fatto e di trovare prospettive nuove per la vita, ma è anche la protezione dalla responsabilità di decidere cosa fare della vita. E non solo la propria, ma anche quella degli altri: quando diciamo “questa persona sarà sempre così” o “quella situazione non potrà mai cambiare”, automaticamente ci mettiamo al riparo da ogni responsabilità di potere o dovere fare qualcosa.
Già l’ebraismo (pensiamo ad Abramo a cui Dio propone di scegliere il proprio futuro) ma poi il cristianesimo, con ancora più evidenza, pone all’uomo la necessità di decidere il proprio destino: pensiamo alla parabola dei talenti. A ciascuno è lasciata la libertà totale di utilizzare come meglio vuole la ricchezza sconfinata ottenuta in dono (cinque, due e un talento), ma questo li rende anche responsabili: “Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.” (Mt 25,19). Il Signore non solo offre a ciascuno di essi una ricchezza spropositata (1 talento corrisponde a 32,7 Kg di oro, per un valore attuale di circa 672.000 Euro, quasi un miliardo e mezzo di lire) ma gli da anche “molto tempo” prima di chiedere loro conto di che cosa ne hanno fatto.
È lo stesso “molto tempo” della lunghezza della nostra vita, di cui ci verrà in qualche modo chiesto conto: “cosa hai fatto in tutto questo tempo dei beni ricevuti in dono?”
Questa domanda è allo stesso tempo una grande gioia e un dramma profondo: per i primi due è occasione di rallegrarsi col padrone per la moltiplicazione della ricchezza ed è l’inizio di una vita ancora più ricca. Per il terzo però è l’inizio della propria autocondanna. Infatti lui ridà quello che ha ricevuto, e niente in più. Non ha perso nulla, ridà lo stesso che ha ricevuto, e questo gli sembra già molto, perché aveva paura.
Quel padrone ci sembra ingiusto ed esagerato: invece di rallegrarsi che non ha perso nulla si adira col servo che restituisce solo quanto ha ricevuto. Sì, perché il suo dono è stato inutile, non è servito a nulla. Questa per Dio è la cosa più odiosa: tenersi tutto per sé per paura di perdere, non scegliere per paura di sbagliare, non fare per timore di doversene poi pentire.
Se quel servo avesse perso tutto (diciamo come il figlio prodigo che sperpera i beni ma è accolto con gioia dal padre) o fosse rimasto vittima dei briganti (come l’uomo derubato e malmenato sulla via da Gerico a Gerusalemme) sarebbe stato oggetto della misericordia, del perdono e dell’accoglienza gioiosa di Dio. Ma quello che Dio non può sopportare è il rendere inutile il dono ricevuto.
Per tornare alla nostra riflessione iniziale: la vita è un dono ricevuto e preservato in noi, ma è anche una opportunità da mettere a frutto. Noi che ne abbiamo fatto?
Vorrei negli incontri che seguono provare a porci questa domanda e cercare nella scrittura una via da percorrere per trovare una risposta.


Oggi chiediamoci:

Come riaffermiamo l’esistenza del destino, a parole e con i fatti?
Ci poniamo mai la domanda sul perché la nostra vita è stata preservata, sulla responsabilità di cosa ne facciamo?
In quali modi noi evitiamo di porci questa domanda. Come sfuggiamo, quali scuse… ?

lunedì 18 ottobre 2010

Inaugurazione casa per senza dimora - Terni, 14 ottobre 2006

Una casa per chi non ce l'ha Cari amici, siamo qui riuniti per un’occasione felice, e come in tutte le famiglie, quando c’è un lieto evento è bello condividerlo con gli intimi. E’ quello che vogliamo fare oggi.
L’occasione, come sapete, è l’apertura di una casa pronta ad ospitare un gruppo di persone che non ne hanno una. Il problema della mancanza di una dimora affligge nel mondo un numero assai largo di persone, anche in Paesi in cui ci sarebbe la possibilità senza sforzo di alloggiarne un numero forse doppio, e questa casa che andiamo ad aprire ne è la dimostrazione. Sì, senza sforzo, mi piace dirlo, perché il risultato bello di cui oggi godiamo e di cui siamo orgogliosi non è frutto di grandi fatiche, né dello sforzo di qualcuno dalle doti eroiche, non ne vedo molti qui di eroi. Le mura c’erano già, non abbiamo dovuto costruirle noi, grazie a Dio. Le risorse che sono state necessarie per ristrutturarla ci sono state donate da tanti, e di questo ringraziamo quelli di loro che sono qui, ma anche loro, credo che posso dirlo senza offendere nessuno, non hanno dovuto fare uno sforzo sovraumano per dare quello che hanno potuto e voluto.
Quello che vorrei dire è che esiste una “normalità del bene” che dovrebbe portarci a dire che il fatto che ci sia qualcuno che si preoccupa, ad esempio, di chi non ha un tetto sulla testa non dovrebbe essere qualcosa di strano o eccezionale, casomai il contrario. Piuttosto, che non si trovino a Terni posti per ospitare i senza casa quando, se ci guardiamo intorno, non mancano immobili vuoti e case sfitte, né risorse per ristrutturarle e arredarle, questo sì che deve stupirci e inquietarci. Altrimenti si corre il rischio di considerare normalità il male ed eccezione il bene, e si sa quanto sia breve il passo per arrivare a dire che ciò che è normale è giusto e va accettato così come è. È questo uno stravolgimento troppo diffuso, che noi vogliamo contestare. È un po’ quello che diceva S. Basilio, vescovo in Asia minore nel IV secolo: “Sarà chiamato ladro chi spoglia uno che è vestito e non meriterà lo stesso titolo colui che, potendo vestire un nudo, non lo veste? È dell’affamato il pane che tu possiedi; è del nudo il vestito che hai nell’armadio; è dello scalzo la scarpa che s’ammuffisce in casa tua; è dell’indigente l’argento che tu tieni seppellito. Quanti sono gli uomini ai quali puoi dare, tanti sono coloro cui fai torto”. (Basilio di Cesarea, Omelia XII, 7). Potremo continuare: è del senza dimora la casa vuota, non ospitarlo è un po’ come rubargliela.
Forse, se di una difficoltà bisogna proprio parlare, dato che sembra strano oggi fare qualcosa senza lamentarsi almeno un po’, questa difficoltà viene prima, cioè ad accorgersi e a far propri i problemi di chi ci vive accanto, specialmente quelli dei poveri. Ne parlano sociologi e psicologi, è un fenomeno sempre più diffuso nelle città, e Terni non fa eccezione, che le povertà estreme divengono talmente connaturate con il paesaggio urbano, da divenire invisibili allo sguardo dell’uomo e della donna comune. Sì, bisogna sempre più essere fuori dal comune per accorgersi di chi sta male, un po’ matti, addirittura, per fermarsi davanti a chi sta male. Sempre più, e questo dovrebbe interrogare i cristiani, ma anche i laici più avvertiti, i poveri sono infatti considerati un fenomeno sì fastidioso, ma in sostanza normale, come il traffico, il maltempo, l’aumento dei prezzi, ecc... Teorie economiche accreditate affermano che un certo tasso di povertà è connaturato con lo sviluppo e che le disuguaglianze fra chi sta molto bene e chi sta molto male è un volano che autoalimenta i processi economici a livello globale e a livello locale. Penso, tanto per fare un esempio, all’economista Edmund Phelps e la sua nota teoria che giustifica la presenza di un certo tasso di disoccupazione come fenomeno fisiologico delle società industrializzate. Si vede che lui non l’ha mai perso il lavoro e non ha mai dovuto affrontare le conseguenze della disoccupazione, e forse per questo ha ricevuto il premio Nobel. Secondo tali ragionamenti la presenza di sacche di povertà sarebbe dunque un indice di sviluppo economico e sociale. In questo senso la stagnazione economica, la penuria, il senso di appiattimento che hanno accompagnato lo stile di vita dei paesi socialisti oltre cortina di qualche decennio fa sembrano confermare tali teorie in voga oggigiorno, che contengono un sottofondo di evidenza, tanto che sembra impossibile negarne la bontà. Chi può disconoscere infatti che ovunque c’è benessere ci sono anche molti poveri? E di nuovo, noto un po’ amaramente, fra dire che “è sempre stato così” e dire che “è giusto che sia così” il passo è breve, specie se chi lo fa si trova dalla parte giusta, cioè quella dei benestanti.
Ma non vogliamo oggi addentrarci in teorie economiche e le loro giustificazioni teoriche e pratiche, solo vorrei sottolineare come un realismo diffuso ci porta ad accettare, a volte con molta facilità, come normale la disuguaglianza.
Possiamo dire che allora l’apertura di questa casa è la dimostrazione che essere poveri non è inevitabile né normale, proprio a partire dall’aspetto così macroscopico della povertà che è l’essere senza un tetto. Ha dunque il valore di profezia, cioè di incoraggiamento e testimonianza perché tante altre simili ne sorgano presto.
Ma l’apparenza inoffensiva e ridente di questa casa (e in effetti lo è, come vedrete fra poco) ha, se volgiamo, il valore della denuncia e come tale il suo sorriso è anche un urlo e uno schiaffo. Sì, un urlo di gioia per chi trova un luogo accogliente in cui vivere, ma anche lo schiaffo in faccia ad una città intorpidita che, con il suo agire e col suo lasciar correre, fa sua e sostiene l’idea della normalità della povertà.
Qualcuno potrebbe dire: ma questo è lavoro delle istituzioni. Noi cristiani dovremmo occuparci di altro. Dare casa, lavoro, mangiare alle classi svantaggiate è roba da assistenti sociali, da amministratori del Comune, da gente della politica, non da gente di chiesa. E’ contestazione frequente oggi, quando anche nel mondo cristiano si fanno strada derive spiritualiste, ma che fin dai primissimi anni del cristianesimo ha attraversato i secoli, e molti testimoni delle prime generazioni cristiane l’hanno dovuta affrontare. Ad esempio Paolino da Nola, monaco del IV secolo, nel sud Italia fondò comunità di cristiani che vivevano con fedeltà radicale al Vangelo. Ebbene volle che la casa dove la comunità dei fratelli viveva avesse al piano terra un luogo di accoglienza per i viandanti senza tetto, proprio a significare che a fondamento della vita cristiana sta un esercizio concreto e accogliente dell’amore. Ma già almeno un paio di secoli prima i padri della Chiesa, sia in oriente che in Occidente avevano colto il legame stretto che esiste fra annuncio cristiano e solidarietà vissuta. Lo testimoniano, fra gli altri, gli scritti di Giustino, cristiano romano del II secolo, che trovandosi nella necessità di spiegare il cristianesimo a chi non lo conosceva e lo giudicava male scrisse testi in cui fra le prove principali della bontà della nuova dottrina annoverava proprio l’amore per chi è nel bisogno che da essa scaturisce. Questo sforzo di autopresentarsi che coinvolgeva i primi cristiani ben presto li portò davanti alla necessità di definire con maggior chiarezza i nuclei essenziali della loro fede. Si giunse così ad affermare che se i sacramenti, e fra di essi l’Eucarestia in misura primaria, costituivano il fondamento della vita cristiana, questa non poteva essere pensata senza l’esercizio della carità verso i deboli. Anzi l’una non poteva sussistere senza l’altra e si apportano vicendevolmente forza e vitalità. Eucaristia e carità, mensa del banchetto e mensa dell’amore fraterno fin dai primi secoli della vita cristiana sono stati così legati fra loro da far dire a Giovanni Crisostomo, arcivescovo d Costantinopoli del IV secolo queste parole di grande spessore spirituale: “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Ebbene, non tollerare che egli sia ignudo; dopo averlo ornato qui in chiesa con stoffe di seta non permettere che fuori egli muoia di freddo per la nudità. Colui che ha detto «questo è il mio corpo» (Mt 26,26), confermando con la sua parola l’atto che faceva, ha detto anche: «Mi avete visto soffrire la fame e non mi avete dato da mangiare» e quanto non avete fatto a uno dei più piccoli tra questi, neppure a me l’avete fatto (Mt 25,42-45). Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo quindi a pensare e a comportarci degnamente verso così grandi misteri e a onorare Cristo come egli vuol essere onorato. Il culto più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che egli stesso vuole, non quello che pensiamo noi. Anche Pietro credeva di onorare Gesù, impedendogli che gli lavasse i piedi (cf. Gv 13,8), ma ciò non era onore, bensì il contrario. Così anche voi onoratelo nella maniera che egli stesso ha comandato, impiegando cioè le vostre ricchezze a favore dei poveri. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro” (Giovanni Crisostomo, Commento a Matteo, 50, 2-ss). E’ evidente il legame che Crisostomo indica fra corpo di Cristo eucaristico e corpo di Cristo nei poveri e la necessità di vivere l’amore per entrambe, perché ciascuno sia vero. Di questo ha scritto lungamente il nostro vescovo nei primi capitoli del suo libro Storia dei poveri in Occidente.
Questo abbiamo voluto realizzare tra noi, ed è per noi un privilegio che lo stesso tetto ospiti il luogo della celebrazione liturgica e quello del servizio ai poveri, come a sottolinearne l’unità intrinseca. La parrocchia di Santa Croce è un povero edificio, ce ne rendiamo ben conto, basti pensare che il suo tetto è stato distrutto dai bombardamenti del ’45, eppure può vantare fondamenta solidissime: quelle della preghiera e dell’amore per i poveri. Le parole della liturgia celebrata nella sala accanto a questa diventano qui vita vissuta il mercoledì, quando sono distribuiti amicizia, aiuti alimentari e vestiario a oltre 150 famiglie, e nel piano di sopra, dove diventano tetto e protezione per chi è senza casa.
Agostino scriveva a proposito del Padre Nostro: “Anche i ricchi e i nobili secondo il mondo… sono invitati da queste parole a non trattare con superbia i poveri e gli umili, poiché tutti insieme dicono Padre Nostro. Non possono pronunciare queste parole con verità e pietà se non si riconoscono fratelli.” (Agostino d’Ippona, Il discorso della montagna, II, 4,16). Sì, una comunità non può dirsi cristiana se non ha al centro delle sue preoccupazioni il culto dei poveri accanto a quello eucaristico, perché l’uno fa riferimento all’altro.
Avevo fatto cenno all’inizio al valore profetico e di denuncia del nostro impegno, ma, in conclusione, vorrei dire che non sono stati questi i motivi, per validi che siano, che ci hanno spinto a sognare fortemente e, finalmente, a realizzare questa casa. Non credo che ne sarebbe valsa la pena. La vera motivazione che ci ha spinto infatti non è stato tanto il desiderio di dimostrare che era possibile, né di denunciare istituzioni o privati che si disinteressano. Non ci sentiamo i pierini primi della classe, né crediamo che fare qualcosa di buono dia diritto a sentirsi migliori. No, noi siamo partiti invece da una storia che assomiglia ad una fiaba per bambini.
Tutti noi conosciamo le storie del libro della Genesi, perché sono strane e interessanti: la creazione del cosmo, con tutte quelle descrizioni così affascinanti; Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, il diluvio e l’arca di Noè con tutte le specie animali, la torre di Babele e la confusione delle lingue, e tante altre. E’ come se Dio, all’inizio della storia dell’uomo, lo abbia voluto istruire con favole accattivanti e profonde, capaci di scuotere la sua fantasia un po’ bambina.
Una di queste storie narra di due fratelli, Caino e Abele, i primi due fratelli dell’umanità. E’ chiaro fin da subito che Dio ha scelto la loro storia per dirci qualcosa di importante, e niente in essa è casuale. Il nome Abel in ebraico significa “soffio”: ha il peso lieve delle vite di tanti esseri umani fragili, così deboli da essere come un soffio, tanto che è facile, direi normale, non accorgersi nemmeno di loro. E’ quello che avviene, dicevamo poco fa, per molti poveri ancora oggi. Dio, stranamente, ci ha voluto presentare i primi due fratelli dell’umanità non come il buono e il cattivo, il malvagio e il virtuoso, come sarebbe forse venuto spontaneo a ciascuno di noi. No, Caino e Abele sono innanzitutto il forte ed il debole. Solo in un secondo momento, quando Caino vede l’amore protettivo di Dio per Abele il debole, la sua predilezione per chi ha la vita fragile e lieve come un “abel”, un soffio, solo allora Caino sviluppa l’invidia e il rancore che porteranno, come sappiamo, al fratricidio. Da allora, cioè fin dai primi passi dell’umanità, risuona la domanda preoccupata di Dio: “Dov’è Abele, tuo fratello?” Fin da allora Dio, ansioso per i tanti “abel” di tutti i tempi e di tutti i luoghi si aggira per il mondo e rivolge a ciascuno la stessa domanda: “Dov’è Abele, tuo fratello?” Lo fa con preoccupazione e ansia, sapendo quanto la vita degli “abel” del mondo sia legata veramente ad un soffio, il soffio di vita che egli gli ha donato, e null’altro li protegge.
Ecco cari amici perché abbiamo fortemente voluto questa casa, per poter rispondere a Dio “Eccolo, Abele è qui con noi, stai tranquillo è al riparo”. Forse ci accontentiamo di poco, è una motivazione da bambini, come da bambini è la storia di Caino e Abele. Ma forse, se impariamo a guardare la nostra città con occhi da bambini diventiamo capaci di accorgerci dei poveri, diventati trasparenti agli adulti. Forse, come quei bambini dalle domande un po’ imbarazzanti nella loro semplicità ed evidenza, realizzeremo che sono tanti, troppi, e che non è normale che vivano così male. E come bambini siamo contenti perché oggi è una bella giornata, e ce la ricorderemo per sempre.



Mi chiamo Patrizia e vorrei raccontare un po’ del nostro incontro con tante persone che vengono qui a chiedere un aiuto. Qualcuno, tempo, fa, mi ha chiesto chi me lo fa fare, stupito che dopo le faccende di casa avessi ancora la forza e la voglia di occuparmi anche di altra gente che non sono miei parenti. Ho fatto caso che quelli che me lo dicevano sono poi gli stessi che si lamentano sempre, sono insoddisfatti e vittimismi. Forse, mi sono detta, a me non viene tanto da lamentarmi perché incontro gente che ne ha invece motivo e perché mettere in pratica il Vangelo aiuta ad essere felici. Gesù stesso ci invita a farlo e come gli Apostoli, ci chiama a costruire una chiesa non di pietre, ma di uomini e donne, e di persone qui ne incontriamo veramente molte ogni settimana. Il materiale da costruzione non ci manca.
Quando circa tre anni fa abbiamo cominciato ad accogliere le persone che ci chiedevano aiuto, ad andare a trovare gli anziani all’istituto “Le grazie”, a preoccuparci di chi è senza dimora, ci sembrava un compito molto arduo, soprattutto perché avevamo paura di non averne le forze. Chi farà tutto quello di cui c’è bisogno. Eravamo pochi e senza mezzi. Prima di tutto ci siamo affidati alla preghiera che fedelmente ogni mercoledì ci accompagna qui nella cripta e poi la domenica a messa; ci siamo affidati alle mani del Signore e abbiamo cominciato a mettere su le pietre di questa chiesa viva, e oggi le mura hanno anche un tetto che ripara tanti.
Abbiamo incontrato molte difficoltà, e tuttora capita, è normale. Ma se all’inizio eravamo solo in quattro ora sono molti gli amici e le amiche che ci aiutano. Abbiamo scoperto che il bene fatto con passione e cuore è contagioso. Ma non solo sono venute persone giovani ad aiutarci. Vorrei raccontarvi la storia di mia madre, 82 anni, con difficoltà ad uscire di casa. Per fortuna abita sopra casa mia e posso aiutarla a restare a casa sua. Le ho parlato del nostro impegno e le ho raccontato la storia di due persone, una donna e suo figlio giovane con qualche problema, che avevo incontrato qui e che non avevano casa. Mia madre, come tutte le persone di una certa età, hanno conosciuto la durezza della vita. Quando era ragazzina la fame era una realtà mai del tutto debellata e si affacciava di tanto in tanto in famiglia, come anche il freddo e la paura, in guerra, sotto le bombe. Forse per questo mi chiedeva spesso di loro, finché un giorno mi ha proposto di farli venire a dormire a casa sua. Ha una stanza libera e non pensava giusto lasciarla vuota. Così sono stati da lei per molti mesi, finché non hanno trovato una sistemazione migliore in un’altra città.
Quando abbiamo iniziato il nostro impegno qui con la gente venivano 30/35 famiglie. Alcuni ci suggerivano di porre dei limiti, come ad esempio quelli dei confini parrocchiali, altri di fare una specie di “test di povertà” per capire chi veramente aveva bisogno. Ma come si fa a mettere un limite all’amore? La carità fraterna non conosce confini, nemmeno quelli parrocchiali. Gesù è arrivato a guarire e sfamare gente anche fuori dai limiti del suo popolo e della sua regione. Ci siamo allora affidati a lui e questo ci ha fatto escogitare tanti sistemi per far sì che oggi, pur venendo fra le 100 e le 150 famiglie a settimana, non mandiamo mai nessuno a mani vuote. A Terni infatti il mangiare non manca, anzi tante volte si spreca. Con pazienza e un po’ di furbizia ci siamo messi allora a cercare i modi per recuperarlo. Tutte le settimane alcuni forni, pizzerie e bar ci regalano, la sera, i prodotti che non hanno venduto. Poi il sabato andiamo davanti ai supermercati per raccogliere i prodotti che la gente che fa la spesa compra in più per noi. Così facendo abbiamo visto moltiplicarsi quei pochi pani che avevamo in mano e tanti ora se ne saziano. Le persone che vengono sono tante e di lingua, nazione e religione diversa. Noi li conosciamo uno ad uno, sappiamo quanti sono in famiglia, conosciamo i loro bambini, e per noi sono ormai parte della nostra famiglia.
Ci mancava però questa casa per i senza dimora. Vedere tanta gente dormire alla stazione o su qualche panchina, soprattutto in inverno, ci ha dato la spinta per realizzare questa casa.
Ringraziamo tutti quelli che ci aiutano e ci sostengono anche con la loro preghiera. Abbiamo scoperto come voler bene agli altri, specialmente i più deboli, ci fa essere più felici e meno preoccupati di noi stessi, vogliamo allora dirlo oggi: tenere questa porta più aperta ha fatto sì che imparassimo a conoscere Gesù come doveva essere in Galilea. Stanco, debole, desideroso di essere aiutato ed accolto. Noi proviamo a farlo.

XXIX domenica del tempo ordinario – 17 ottobre 2010


Dal Libro dell’Esodo 17, 8-13

Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè : "Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio". Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè , Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l`altro dall`altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.

Salmo 120 - Il mio aiuto viene dal Signore.

Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore:
egli ha fatto cielo e terra.

Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno
il custode d’Israele.

Il Signore è il tuo custode, +
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.

Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.

Dalla seconda lettera dell’Apostolo Paolo a Timoteo 3, 14-4,2

Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l`hai appreso e che fin dall`infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l`uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina.

Alleluia, alleluia.
La parola di Dio è viva ed efficace,
discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Alleluia.

Dal vangelo secondo Luca 18, 1-8

Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: "C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c`era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi". E il Signore soggiunse: "Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell`uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?".

Commento

Oggi è un giorno speciale, come sempre è eccezionale e straordinaria la domenica, perché ci prende e ci porta lontano dall’abituale scorrere del tempo, fatto di lavoro, di studio (per chi è più giovane) di tante occupazioni che ci riempiono le giornate. La messa ci tira fuori dal groviglio dei mille affanni e ci accompagna su un monte, come fece Mosé in quella giornata di lotta fra il popolo d’Israele e Amalek, come abbiamo ascoltato nella prima lettura.
Sì, questo luogo dove ci troviamo oggi è un luogo alto, come un monte, perché è reso santo dalla presenza del Signore che ci parla. E’ vero è una piccola chiesa, eppure ogni domenica il Signore ci convoca a salire sull’alto colle di questa casa perché ci vuole parlare. Ecco che allora anche da un luogo piccolo, come la chiesa di Santa Croce, quasi nascosta nel centro di Terni, possiamo oggi abbracciare con lo sguardo del nostro cuore tutto il nostro quartiere, ma anche di più, la città e il mondo intero.
Mosé quella mattina dal colle sul quale era salito poteva vedere ai piedi dell’altura la lotta che si svolgeva fra i due eserciti in combattimento. Anche noi qui dall’alto possiamo vedere le tante guerre, piccole e grandi che dividono gli uomini e le donne attorno a noi. E questo è un dono del Signore, perché quando ci stiamo in mezzo neanche ce ne accorgiamo e troppo spesso diventiamo anche noi bellicosi combattenti. Anche noi infatti viviamo le nostre battaglie per far prevalere il nostro modo di vedere, per farci valere, per avere ragione, e così via. E’ così facile vivere infatti una cultura del nemico secondo la quale per sentirsi forti e contare qualcosa bisogna essere contro qualcuno. Per questo la Messa della domenica è un dono prezioso, perché ci fa salire in alto, ci fa smettere di sgomitare, e ci porta nel luogo santo dove possiamo incontrare il Signore che è la vera pace.
Mosè osservava quella battaglia non come chi vede le cose con distacco. E’ preoccupato perché vede gente soffrire, lottare gli uni contro gli altri, odiarsi, farsi del male. Per questo alza le braccia verso il Signore e invoca la sua protezione. Anche noi, come Mosè, possiamo alzare le nostre braccia ed invocare la fine delle tante lotte che ci mettono gli uni contro gli altri. La fine della condanna che pesa sugli anziani, lasciati tante volte da soli. La fine della tristezza dei più giovani che non riescono più a credere nell’amicizia, delusi da noi adulti che non sappiamo voler bene con fedeltà. La fine della sofferenza dei tanti che sono colpiti dalla crisi, che non sanno come andare avanti, che hanno perso il lavoro o che non lo trovano. La fine delle lotte sanguinose in Terra Santa, in Africa. Oggi dall’alto della messa domenicale vediamo tutta questa sofferenza attorno a noi e come Mosè abbiamo il potere di alzare le nostre braccia e pregare il Signore che non è sordo alla nostra invocazione e combatte dalla parte di chi rischia di soccombere sotto il peso del male.
Tante volte noi invece preferiamo salire su un altro monte che è quello dell’indifferenza. Un monte sul quale ci illudiamo di sfuggire al male e di trovare la pace perché non vediamo quello che avviane attorno a noi e non ne siamo coinvolti. Ma, fratelli e sorelle, questa è un pericolosa illusione, perché il male non viene solo da fuori, ma, anzi, il più delle volte sgorga proprio da dentro di noi. Per questo gli diamo meno peso e lo tolleriamo quasi con tenerezza, perché è parte di noi. Eppure le sue conseguenze non sono meno sanguinose e terribili della violenza che ci circonda. Sul monte dell’indifferenza e dell’egoismo sanciamo la nostra condanna ad essere per sempre imprigionati alla schiavitù del male. L’unico modo infatti per vincere il male non è negarlo e ignorarlo, ma combatterlo, in sé e negli altri. Estirpare le radici della rivalità, dell’egoismo, del menefreghismo e della sopraffazione è infatti, paradossalmente, l’unico modo per vivere la pace, che è proprio la vittoria sulle espressioni del male. E’ il ruolo che Mosè assume sul monte della preghiera. Partecipa con fatica e sofferenza alle espressioni di male, ma proprio per questo, alzando le braccia e invocando l’aiuto di Dio, riesce a vincerle. Non fida infatti solo nelle sue forze, ma anzi ha bisogno di Aronne e Cur che sorreggano le sue mani. Mosè non è un eroe isolato e invincibile: è debole e bisognoso come noi, ma la sua forza è proprio nel farsi aiutare e nel coinvolgere altri nella sua battaglia contro il male.
Abbiamo bisogno del fratello e della sorella per vincere il male: la pace e la felicità a cui tutti giustamente aspiriamo non viene dall’isolamento del monte dell’indifferenza, ma dall’alleanza con tanti che sorreggano le nostre mani nello sforzo di voler più bene.
Questa è l’eredità più preziosa che potremo lasciare ai nostri figli. Comunicargli l’umiltà di non credersi autosufficienti e bastanti a se stessi, la tenacia di non arrendersi davanti al male e la fiducia di rivolgersi a Dio per ricevere da lui l’aiuto necessario a vincerlo dentro di sé e attorno a sé.
Questa casa allora ogni domenica dilata le sue mura: non è più un luogo piccolo e insignificante, confuso nel caos della città, ma diventa un monte altro sul quale osservare il mondo, partecipare dei suoi dolori, avvertire con passione il suo bisogno di bene, e dove assieme ci sosteniamo per alzare le mani e chiedere a Dio la forza di fare nostra la battaglia contro il male del mondo.
Care sorelle e cari fratelli con questo sogno negli occhi invochiamo l’aiuto del Signore e la nostra vita cambierà, il mondo attorno a noi sarà migliore, più umano e caldo di amore.

Preghiere
Ti ringraziamo o Dio misericordioso perché ci hai convocato sul monte santo della liturgia. Fa’ che ci affrettiamo a uscire dalla confusione della vita ordinaria per incontrarti come nostro amico a maestro.
Noi ti preghiamo

Guida o Padre buono i nostri passi perché non ci disperdiamo su strade che ci allontanano da te e dai fratelli, ma, come una famiglia, ci incamminiamo assieme verso il luogo dell’incontro con te.
Noi ti preghiamo

O Signore Gesù, aiutaci a vincere le rivalità e le contrapposizioni che ci dividono dagli altri. Tu che sei mite e umile di cuore mostraci la via dell’amore che conduce alla gioia vera.
Noi ti preghiamo

Fa’ o Signore che tutti quelli che cercano un senso alla loro vita possano incontrarlo nell’amore che tu ci insegni. Guida i passi degli incerti perché incontrino fratelli e sorelle testimoni del vangelo e operatori di bene.
Noi ti preghiamo

Dona o Signore la tua pace ai popoli in guerra, fa’ tacere le armi e aiuta tutti gli uomini a vivere con animo riconciliato, perché nessuno più muoia e soffra per mano del fratello.
Noi ti preghiamo

Sostieni o Padre misericordioso tutti coloro che sono nel bisogno: chi è senza casa, chi è solo e nel dolore, i malati e i sofferenti. Dona al mondo intero guarigione e salvezza.
Noi ti preghiamo.

Guida e proteggi o Dio i tuoi discepoli ovunque essi vivano. Fa’ che le loro parole e le loro azioni parlino di te a chi ancora non ti conosce.
Noi ti preghiamo

Ti preghiamo o Signore Gesù per il Medio Oriente, perché nella terra in cui tu sei nato popoli di fedi e tradizioni diverse sappiano convivere in pace.
Noi ti preghiamo

martedì 12 ottobre 2010

XXVIII domenica del tempo ordinario – 10 ottobre 2010




Dal secondo libro dei Re 5, 14-17
In quei giorni, Naamàn, il comandante dell’esercito del re di Aram, scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato dalla sua lebbra. Tornò con tutto il seguito da Elisèo, l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».

Salmo 97 - Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 2, 8-13
Figlio mio, ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

Alleluia, alleluia, alleluia.
In ogni cosa rendete grazie:
questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
Alleluia, alleluia, alleluia.

Dal vangelo secondo Luca 17, 11-19
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. E Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».


Commento


Il Vangelo del Signore si presenta innanzitutto come un viaggio. Non a caso il brano di oggi è tutto pieno di parole che indicano il movimento: Cammino, attraversava, entrando, vennero incontro, andate, ecc... La vita di Gesù si svolge per lo più sulle strade, nelle piazze, lungo le vie, e lì incontra le tante persone con cui ha un rapporto.
Questo non è un caso, ma sta a significare che la vita con Dio è un cammino: uscire da sé stessi e andare verso una meta che sono gli altri e Dio stesso. Chi sta fermo non è con Dio, perché rifiuta la compagnia di qualcuno che non sta fermo su se stesso.
A noi il viaggio fa paura: si incontrano realtà sconosciute, persone diverse, si fa fatica, ci vuole tempo. Noi preferiamo la sedentarietà di una situazione in cui conosciamo l’ambiente e sappiamo bene come sono le persone con cui abbiamo a che fare. Ma il nomadismo fa parte del DNA della nostra fede: Abramo, il padre dei credenti, il primo a cui Dio promise un futuro grande e felice, promessa di cui anche noi cristiani, ultimi arrivati, siamo eredi proprio perché innestati nella discendenza di Abramo, era un nomade e Dio gli chiese come primo gesto di fiducia di uscire dalla sua terra e di lasciare la casa della sua famiglia per intraprendere un viaggio.
Anche ai lebbrosi che invocano la guarigione da Gesù il Signore indica di intraprendere un cammino: “Andate a presentarvi ai sacerdoti.” Sembra una proposta sciocca: cosa potranno mai sperare di ottenere? Gesù chiede innanzitutto di uscire dal chiuso di una vita centrata solo su se stessi e di andare incontro all’altro. Lì c’è la salvezza dalla malattia, la peggiore delle malattie, come era la lebbra al tempo di Gesù, perché non solo minava la salute fisica, ma allontanava da tutti e rendeva intoccabili e inavvicinabili. Proprio a loro il Signore chiede di andare verso gli altri.
Anche noi tante volte abbiamo mille motivi per sentirci in credito con gli altri: con tutto quello che mi hanno fatto o che non hanno fatto per me, perché io dovrei andare incontro all’altro? E così restiamo per conto nostro a rimuginare sui torti subiti e i diritti non riconosciuti. Gesù ci chiede innanzitutto di uscire da questa “prigione volontaria”. Sì è una prigione di cui noi possediamo le chiavi: ci lamentiamo di essere isolati e soli, ma siamo noi stessi che allontaniamo gli altri, che li sentiamo come un fastidio inutile se non pericoloso.
Il vangelo dice che “E mentre essi andavano, furono purificati.” Cioè è il muovere il primo passo verso l’altro che ci guarisce già in viaggio, non arrivare alla meta. E’ il forzare la nostra chiusura, la diffidenza, le paure, le difese che ci apre alla felicità di far entrare la vita degli altri nella nostra. Sembra un paradosso, perché è l’esatto contrario di quello che ordinariamente si crede: dicono più pensi a te stesso, più te ne stai per conto tuo e meno avrai problemi, più sarai felice. Il Signore ci indica la via opposta e, come sempre, è lui a fare per primo quello che chiede agli altri: si avvicina ai lebbrosi, non li evita, nonostante fossero considerati pericolosi, li ascolta e li guarisce. E la prima guarigione sta proprio in quel rapporto che li fa uscire dall’isolamento.
La meta del viaggio che Gesù indica a quei dieci è il tempio, dove i lebbrosi potevano essere riaccolti nella comunità e dove ringraziare Dio con una offerta per la guarigione ottenuta. Il Signore chiede una fiducia cieca nel suo aiuto: ancora prima di essere guariti considerarsi già sanati e pronti a ringraziare Dio per il dono ottenuto. E’ la fede di un bambino che sa già che otterrà quello che sta per chiedere. Ma non basta la fede, ci vuole anche la gratitudine per il dono ricevuto. Su dieci solo uno torna a rendere lode e ringraziare, ed è solo lui che ottiene oltre alla guarigione anche la salvezza.
Fratelli e sorelle, accogliamo questo invito ad essere uomini e donne pronti a uscire dal chiuso di una vita che allontana gli altri, basta fare il primo passo e la guarigione ci aprirà ad un senso grato della vita. E’ il primo passo che porta alla salvezza, perché è il Signore che compierà gli altri e ci guiderà alla vita che non finisce.


Preghiere




O Dio ti ringraziamo perché ci liberi dalla prigione di una vita chiusa dal piccolo orizzonte individuale, per aprirci alla libertà di un amore senza confini.
Noi ti preghiamo

Guidaci, o Signore Gesù, sulla via che ci conduce all’incontro con il fratello e la sorella, perché aprendo la nostra vita ad essi impariamo a vivere come tuoi discepoli figli di un unico padre.
Noi ti preghiamo

Aiutaci o Signore Gesù a vincere la paura che ci chiude all’incontro con i fratelli, specialmente i più poveri e bisognosi del nostro aiuto. Fa’ che sappiamo vedere nel volto di chi incontriamo qualcuno da amare e a cui tendere la mano amica.
Noi ti preghiamo


Guida o Signore tutti coloro che sono persi nei sentieri tortuosi del male e non trovano la strada per incamminarsi verso di te. Fa’ che anche con il nostro esempio la tua Parola orienti i loro passi e illumini il loro cammino.
Noi ti preghiamo

Sostieni o Dio del cielo tutti coloro che sono colpiti dal male e soffrono a causa della violenza degli uomini e della natura. Fa’ che trovino presto il sostegno e la consolazione di cui hanno bisogno.
Noi ti preghiamo

Guarda con amore a noi tuoi figli e, nonostante il nostro peccato, ti preghiamo di guidare i nostri passi sulla via del bene. Fa’ che, fidandoci del tuo amore misericordioso, affidiamo a te la nostra salvezza.
Noi ti preghiamo.

Proteggi e sostieni o Padre del cielo tutti coloro che annunciano la tua Parola e cercano di viverla, perché il tuo Nome porti salvezza e vita dove oggi regnano le tenebre.
Noi ti preghiamo

Ti preghiamo o Padre Santo, di essere sempre al nostro fianco perché anche nei momenti bui e di dimenticanza sappiamo accorgerci della tua presenza amorevole ed essere grati per la tua grande bontà.
Noi ti preghiamo