mercoledì 30 marzo 2011

Scuola del Vangelo 2010/11 – XIX incontro (IV di quaresima) : Un mondo senza speranza è triste e bloccato


Riprendiamo la nostra riflessione di Quaresima partendo da quello che dicevamo l’ultima volta: viviamo in un mondo spento e bloccato, vecchio e senza prospettive. Abbiamo parlato dei martiri del nostro tempo, dai quali riceviamo un messaggio forte, che è il messaggio della croce: vale la pena spendere la vita per gli altri e non per salvare se stessi. Nel primo caso infatti la riceviamo moltiplicata, nel secondo la perdiamo:

“Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà” (Lc 17,33).

Perdere’ la vita significa non solo ‘morire’, ma spenderla per gli altri, come Gesù spiega ai discepoli poco oltre:

non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà” (Lc 18,29-30).

Dare la propria vita, spenderla per gli altri, usarla non solo per se stessi la rende eterna, cioè piena e duratura, e fin da subito più felice. Chi cerca di conservarsi tutto per sé invece la perde, e fin da subito è triste e sempre insoddisfatto. Questo è il messaggio forte della croce che i martiri hanno incarnato nel nostro tempo.


La Quaresima è dunque il tempo in cui noi accompagniamo Gesù che si avvia verso Gerusalemme a rendere questa sua estrema testimonianza, verso la Santa Settimana di Passione: “Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno.” (Mt 16,21) Al sentire questo messaggio forte però l’uomo del mondo vecchio prende le distanze. Non lo fa con cattiveria, ma perché è naturale e istintivo. Il peccato infatti non è solo fare il male per amore del male, ma è anche seguire la corrente, come fosse la cosa più naturale. Infatti appena udite quelle parole di Gesù il Vangelo prosegue: “Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: ‘Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai’. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: ‘Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!’” (Mt 16,22-23).


Gesù sa cosa lo aspetta nella città santa, ma vuole salvare gli uomini, per questo non si risparmia, non salva se stesso, come gli suggerisce Pietro, uomo del compromesso che protesta contro quella prospettiva così funesta. La giudica una sconfitta, un pericolo, un male da evitare a tutti i costi: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai”. Il Signore però sa che non è possibile un compromesso. In fondo Gesù aveva già fatto molto: aveva annunciato il Vangelo per città e villaggi, guarito i malati, liberato gli indemoniati, istruiti i dodici, discusso con gli scribi e i farisei, non poteva bastare? Gesù sa che la sua missione non sarà compiuta se non si spenderà fino in fondo non risparmiando niente di sé, finché cioè non avrà offerto la sua vita per realizzare il piano di Dio che è l’avvento del suo Regno: “non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme.” (Lc 13,33) Sì, per Gesù la vita non ha senso se non spesa per inaugurare nella vecchia Gerusalemme quella nuova Gerusalemme di cui parla il libro dell’Apocalisse: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate».” (Ap 21,1-4)


È solo stando dentro la Gerusalemme vecchia che Gesù potrà inaugurare la nuova Gerusalemme.

È solo vivendo immersi nel mondo vecchio che descrivevamo che noi possiamo affrettare la venuta di un mondo nuovo.


È l’itinerario cha la Quaresima ci propone: dare la vita per realizzare un mondo nuovo, un tempo nuovo, la Gerusalemme che viene dal cielo, nella quale si realizza la salvezza dell’uomo. Così ci si salva, spendendo la vita per realizzare un mondo nuovo che non è il mio.


Ci chiediamo allora: cosa vuol dire “dare la vita” per noi che spesso non siamo nemmeno disposti a dare il nostro tempo o le nostre energie per gli altri? Noi come Pietro cerchiamo il compromesso, la giusta misura: faccio già abbastanza, cos’altro si può pretendere in più da me? Noi ci sentiamo tranquilli e sicuri solo se abbiamo accumulato abbastanza per noi, figurarsi spendere tutto per gli altri ! Il problema è che noi non desideriamo un mondo nuovo (lo dicevamo già l’altra volta), ma anzi temiamo la novità, non speriamo l’avvento di un tempo nuovo, ma vorremmo prolungare all’infinito il nostro presente.


Si pone allora la questione cruciale della nostra salvezza: dove trovare le ragioni per tornare a vivere la speranza che la Scrittura ci indica come la prospettiva che dà senso alla vita dell’uomo e lo porta, perdendola, a ritrovarla piena? I poveri hanno bisogno di liberazione dal male, dalla povertà, dalla violenza: hanno bisogno di speranza per sopravvivere, come del cibo per non morire. Anche sulla riva Sud del Mediterraneo c’è una domanda di liberazione. Possiamo allora partire in questa Quaresima dal bisogno dei poveri, che non hanno rinunciato alla speranza. I poveri del grande mondo, i poveri vicino a noi hanno fame di speranza. Ci sono popoli che, pur senza sapere bene dove andare, chiedono libertà e speranza. Ci sono poveri che pur vivendo in condizioni durissime guardano al futuro con speranza di un tempo migliore. Da loro si alza un gemito che sale al cielo, una invocazione gridata con la forza di chi è nel dolore che per Paolo è decisiva: “tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto; essa non è sola, ma anche noi che possediamo le primizie delle Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Perché nella speranza noi siamo stati salvati.” (Rm 8,22-23)


Il mondo dei poveri vive questa attesa angosciosa e dolorosa, questa speranza che un mondo nuovo nasca al più presto, ma anche noi se abbiamo dentro le primizie dello Spirito, cioè quei primi segni di un amore che nasce nel nostro cuore per essi, possiamo fare nostro quel grido, quella speranza, quell’invocazione di un mondo nuovo che deve essere generato. Se però rifiutiamo quelle primizie, quel fragile germoglio che nasce nella pietà e nella tenerezza per il povero non ci salveremo, “Perché nella speranza noi siamo stati salvati”. Allora possiamo dire che veramente i poveri conoscono la vita più di noi, perché la conoscono attraverso la sofferenza. I poveri gemono aspettando l’adozione a figli: hanno speranza che Dio non si dimentichi di loro ma li prenda sotto la sua protezione paterna. Come i bambini orfani, quando vedono uno che li va a visitare: tendono le mani verso di lui sperando di essere adottati.


La volta scorsa ci chiedevamo se la Chiesa non è qualcosa di antiquato e non attuale. I più giovani per lo più non credono che valga la pena spendere la propria vita per un ideale così antico, vecchio di oltre 2000 anni, non moderno. Ma anche noi, più anziani, avvolti in un’ombra di tristezza, siamo occupati a risparmiarci per cercare una felicità che è il proprio piacere e soddisfazione, e non crediamo che la Chiesa sia uno strumento per cambiare il mondo attuale e realizzarne uno nuovo. Ci siamo abituati ad essa, alla sua compagnia come ad una vecchia amica, moglie, compagna, che non suscita più passione e da cui non ci aspettiamo più niente di nuovo. Le soddisfazioni le si trovano altrove, non certo da lei. Allo stesso tempo siamo affezionati, perché la conosciamo da tanto, ci ha accompagnato a lungo, è casa nostra e l’abbiamo adattata a noi, come un vestito usurato che ha preso al forma del nostro corpo.


Nessuno vuole cambiare il mondo o inaugurare una nuova fase della storia. Nessuno pensa che la Chiesa abbia questo come suo scopo primario, e per questo Dio la conserva e la protegge, come luogo della profezia, cioè dove si può intravedere fin da ora e pregustare il tempo nuovo e il mondo nuovo che è la prospettiva futura.


Gesù dice in questo tempo di Quaresima: “Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo. … Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. ... Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.” (Lc 21,10-11;25-28). Gesù parla di un mondo in preda alla violenza e all’angoscia: è quello che vediamo attorno a noi. È il momento di alzare il capo per attendere la liberazione, e non tenerlo più chino a vedere solo se stessi. Non illudiamoci di essere al sicuro, al riparo dai disastri della vita, se non li guardiamo in faccia, se ci risparmiamo dalla tristezza di puntare lo sguardo su di essi. Facciamocene allora carico, sostenendo, almeno un po’ il peso della vita che grava spesso eccessivamente sulle spalle troppo gracili di tanti poveri. Non ci sentiamo forti e autosufficienti! E non a caso la Quaresima si apre proprio con il segno della debolezza umana: la cenere. La Quaresima parla con il simbolo antichissimo della polvere grigia della cenere: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3,19)


Sono le parole che Dio dice all’uomo all’inizio del suo cammino terreno, intriso della debolezza, del peccato e condannato a morire. Se vivi convinto di essere al sicuro, forte e autosufficiente, appagato dell’amore per te stesso, non sei che polvere! Hai in bocca il sapore della polvere. Facciamo nostra questa coscienza di debolezza condividendola con chi questa debolezza non può nasconderla, come i poveri. Non preoccuparti per quel che sei, preoccupati per la tua coscienza finta, per la tua interiorità pietrificata, per la tua paura paralizzante!


Abramo ricevette la visita di Dio a Mamre con l’annuncio della fecondità per la vita sua e di sua moglie: quale grande speranza avere un erede! Da quel momento, prese a parlare con Dio come un amico, senza dimenticare che era polvere. Infatti egli disse: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore io che sono polvere e cenere” (Gen 18,27). Avendo la coscienza della sua umile statura fu preso dal desiderio di salvare i giusti nella città di Sodoma, pur sentendosi polvere.


A volte noi diciamo: ma cosa posso fare io che sono un poveraccio e non conto niente? Come può un uomo umile avere grandi sogni, sognare come Abramo di salvare i giusti di un’intera, enorme città, come era Sodoma? Come posso vivere una tale speranza, tanto da ambire a far cambiare progetti a Dio che ha deciso di annientarla? Lo stesso potremmo dirlo sulla vita di tanti poveri sui quali ci sembra incomba una condanna definitiva e inappellabile. Che posso farci io? Sì, l’uomo può ambire a tanto se accoglie il Signore nella sua tenda, se si confida con lui, se accoglie le sue parole e le crede vere per sé, come fece Abramo a Mamre.


Solo se accetterai di essere polvere e cenere, avrai l’ardire di parlare al Signore in Quaresima e di spenderti per il sogno di un mondo nuovo e di un tempo nuovo. C’è bisogno di pregare per questo, di lavorare concretamente e di incamminarti con Gesù verso Gerusalemme a dare l’estremo annuncio che la vita è salvata se spesa per gli altri. Per ciascuno c’è una Gerusalemme, cioè un luogo e un’ora in cui ci è chiesto di dare tutta la nostra vita.


Chiediamoci seriamente: dov’è la nostra Gerusalemme? Dove e quando spendo la mia vita per gli altri? Non restiamo fuori dalla città, come ci consiglia il Pietro pauroso che è in ciascuno di noi, non ritraiamoci spaventati, ma come Abramo, sapendo di essere cenere, fidiamo nella forza del Signore e non nella nostra, facciamoci compagni della speranza dei poveri di un mondo e un tempo nuovo e, al termine della Quaresima, riceveremo anche noi la forza di una vita che risorge dalla morte e non finisce più.

mercoledì 23 marzo 2011

Scuola del Vangelo 2010/11 – XVIII incontro

Icona dei Nuovi Martiri - Basilica di S. Bartolomeo, Roma


Scuola del Vangelo 2010/11 – XVIII incontro
I martiri del XX e XXI secolo:
testimoni di un amore che fa vivere


Abbiamo parlato la volta scorsa di un mondo vecchio e spaventato che non riesce a trovare le ragioni per una gioia vera. Un velo di falsa tristezza egocentrica copre tutto facendo sì che per niente valga la pena gioire, ma nemmeno c’è niente per cui valga la pena di soffrire. E’ il modo di vivere tipico del nostro mondo Occidentale ricco ma allo stesso tempo insoddisfatto, sazio ma sempre alla ricerca di esperienze più forti, incapace di generosità perché schiavo di una mentalità opportunista che dà valore solo a ciò che conviene a me, scontento e lamentoso di tutto ma senza che l’insoddisfazioni porti mai alla decisione di cambiare vita, ecc…. La descrizione potrebbe essere ancora molto lunga, ma già ne abbiamo parlato altre volte.

L’uomo occidentale di certo non si è svegliato così com’è dall’oggi al domani. È stato un processo lungo e progressivo che ha portato dalla seconda metà del Novecento, il secolo del “noi” di ferro, delle ideologie collettive (di destra o di sinistra ma sempre collettive), del nazionalismo che abbraccia un popolo in una patria comune, dall’89 con il processo di unificazione di una Europa divisa da steccati e muri, fino ad un ribaltamento di prospettiva e all’affermarsi di ciò che potremmo definire la “privatizzazione dell’io” negli ultimi venti o trent’anni. Dalle assemblee e dall’euforia del collettivo del ’68 e anni seguenti, si è passati al personal. Tutto è individuale in un misto di narcisismo e di cinismo. Si è smarrito il noi. La felicità è diventata trarre il massimo delle emozioni dall’attimo che si vive: una privatizzazione della felicità come piacere personale. Felicità non è mai esperienza condivisa ma uno status privato, al massimo assieme ad un altro. Si è andato quindi affermando l’io con le sue emozioni, incapace di comunicare e solidarizzare con altri, dei quali ha paura come di nemici o rivali, restando così prigioniero di una tristezza solitudinaria di fondo.

L’11 settembre 2001, di fronte ad un mondo individualista e intento a fare affari per migliorare la propria posizione, si è presentato un “noi” fresco e aggressivo, terribile, quello dell’islam. Le società musulmane sono salite alla ribalta come un mondo magmatico, dalle forti passioni collettive, in cui l’individuo sembra perdersi nella folla e in sentimenti condivisi. Un mondo così fa paura, non solo perché nel suo seno sono potute attecchire ideologie violente come quelle di Al Qaeda (ma questo è avvenuto nella storia e ripetutamente anche in seno alle società cristiane, pensiamo all’IRA in Irlanda o l’ETA nei Paesi Baschi o lo stesso terrorismo delle Brigate Rosse ecc…), ma anche perché ci sembra un mondo in cui l’individuo si annulla nel collettivo. Ma l’islam si è svelato come un mondo diverso dalla caricatura di Osama ben Laden, comprendendo invece al suo interno tante diversità: lo si vede in questi giorni in cui in alcuni Paesi del Nord Africa e della Penisola Arabica queste diverse “anime” islamiche si manifestano, rompendo quella omogeneità granitica che prima sembravano possedere. Il mondo individualista resta però diffidente e spaventato della riva Sud così massificata e collettiva.

Da noi la privatizzazione dell’io ha portato un’altra conseguenza, cui facevamo cenno di sfuggita anche l’altra volta, e cioè il rifiuto della storia: un io che vuol star bene oggi, nel presente, rifiuta la fatica e i rischi di costruire un futuro e cerca di conservare a tutti i costi il presente così come è. Tutto è presente. Non vale la pena di preoccuparsi del futuro. Non interessa entrare nei meccanismi di trasformazione dei mondi, andare fuori da sé e dal proprio piccolo ambiente. È il modo di vivere dell’Europa: un condominio di io, bloccato, quasi paralizzato e intento a gestire i propri privilegi in una estenuante contrattazione interna, più appassionato sulle razze animali e sulle qualità di cibi e vini che sulle sorti delle società del mondo.
Un mondo tutto preso dal piccolo quotidiano è anche un mondo che non si alza contro Dio, come è avvenuto con il comunismo o il nazismo nel Novecento. Non si sente nemmeno il bisogno di sfidare Dio, perché si vive senza Dio. Dio infatti è più grande del mio io, non può essere circoscritto al mio piccolo mondo o alla mia esperienza privata. Dio è Dio di un popolo e lo si incontra se si accetta di essere una figlia o un figlio di quel popolo che Lui si è scelto, di una storia che coinvolge tanti e dà un futuro a tanti.

Davanti a questo scenario la Chiesa diventa qualcosa di inattuale, obsoleto, perché è un popolo, una famiglia, una identità collettiva che ambisce addirittura a raccogliere tutto il genere umano in un unico abbraccio familiare.

Joseph Ratzinger ha scritto: “L’inattualità’ della Chiesa, è, da un lato, la sua debolezza – essa viene emarginata – ma può essere la sua forza. Forse gli uomini possono percepire che contro l’ideologia della banalità, che domina il mondo, è necessaria un’opposizione, e che la Chiesa può essere moderna, proprio essendo antimoderna, opponendosi a ciò che dicono tutti. Alla Chiesa tocca il ruolo di opposizione profetica …”

I profeti sono sempre inattuali nel contesto del loro mondo. Geremia, ad esempio, è ossessionato da chi lo considera un uomo che semina terrore del futuro. La Quaresima, già abbiamo accennato, è il tempo opportuno in cui vincere il clima di anemia di speranza, di sfilacciamento del noi, di felicità come piacere individuale e solo di un momento, di spegnimento della storia nell’attimo presente dell’io.
Spesso però, di fronte alla profezia della Quaresima, noi siamo mediatori: non vorremmo abbracciare il mondo così come è, che avvertiamo essere ingiusto e estraneo allo spirito del Vangelo, ma allo stesso tempo non ci sentiamo nemmeno in grado di allontanarcene perché è il nostro mondo, e abbiamo paura a differenziarci. La fede cristiana accetta i peccatori, anche i grandi peccatori – lì può abbondare la grazia! – ma è inconciliabile con i mediatori. E’ il senso delle parole della lettera alla chiesa di Laodicea citata nel libro dell’Apocalisse: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.” (Ap 3,15-16)

Davanti a questa idea di mediazione vorrei oggi con voi soffermarmi un po’ davanti alla testimonianza dei martiri del nostro secolo (XX e XXI).

I martiri
Sono persone che hanno creduto che il cristianesimo è una cosa seria. Il martirio è una realtà che dal ‘900 ha assunto una dimensione notevole: decine e decine di migliaia sono le persone uccise perché hanno creduto al Vangelo e lo hanno vissuto in situazioni in cui il mondo voleva intimidire coloro che volevano il bene. Sono stati vittime dei regimi totalitari: comunismo in Europa dell’Est e Russia, del nazifascismo, in Europa occidentale; vittime della violenza diffusa di società disgregate, come in Africa, o di organizzazioni mafiose e di narcotraffico, come in America Latina o in Italia meridionale; vittime dell’intolleranza religiosa e del terrorismo di matrice religiosa, come in Iraq, India, Pakistan, Nigeria, Indonesia, ecc….

Sono migliaia e migliaia di persone che hanno vissuto il Vangelo in modo radicale e serio, ma non sono eroi nel senso tradizionali della parola, cioè non sono persone che hanno cercato e sfidato la morte, non hanno disprezzato la vita, anzi, l’amavano. Ad esempio Mons. Romero, vescovo ucciso il 24 marzo 1980 mentre celebrava la S. Messa perché era un difensore coraggioso dei poveri vittima dell’ingiustizia e della violenza di bande armate organizzate dalle potenti famiglie di possidenti terrieri. Egli otto giorni prima di essere ucciso affermò: “Finché il popolo viene sistematicamente assassinato dalle forze di repressione della giunta, io, che sono un semplice servitore del popolo, non ho nessun diritto di cercare misure di sicurezza. Vi prego di non fraintendermi: io non voglio morire, perché so che il popolo non lo vuole, ma non posso tutelare la mia vita come se fosse più importante della loro vita.”

Sono persone che hanno vissuto quello che l’altra volta dicevamo essere la logica inversa di quella di questo nostro mondo. Questo ci insegna che bisogno sempre cercare il proprio tornaconto, mentre loro hanno ceduto che l’interesse degli altri veniva prima del loro; il bene degli altri e la fiducia in Dio valevano più della loro vita stessa. I martiri dimostrano con la loro testimonianza quanto sia falso quello che la gente grida a Gesù in croce: “salva te stesso!” Non è risparmiando la propria vita che la si salva, perché una vita spesa a fare solo il proprio interesse è una vita persa, sprecata, usata male e quindi gettata al vento. La vera salvezza, cioè fare il proprio interesse, è spenderla per gli altri, in modo serio e radicale.

Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze religiose del Pakistan è stato ucciso il 2 marzo 2011 a Islamabad. Si era impegnato nella lotta contro la legge sulla blasfemia, che in Pakistan consente di condannare chiunque sia accusato di bestemmia. La sua storia è molto bella: figlio del mondo cristiano povero dei villaggi, 750.000 persone umiliate da una società non solo islamica ma ancora feudale. I cristiani sono poveri, abitano spesso in villaggi, come quello di Yohannabad, ormai inglobato in Lahore, un grande compound di cristiani. Sono rassegnati all’umiliazione di una società feudale e musulmana, società di pochi ricchi e di masse di servi. Bhatti ha studiato e si è fatto strada con l’aiuto di un grande vescovo pakistano, Mons. Lobo, fino a poco fa vescovo di Feisalabad. Lobo lo aveva fatto studiare e lui era diventato un cristiano diverso, pieno di forza e speranza. Come ministro, Bhatti ha lavorato con coraggio: contro la legge della blasfemia, per migliorare la situazione dei cristiani, per difendere i cristiani dai pogrom. Questo gli ha valso tante minacce. Ma lui ha rivelato una grande forza: la forza di sperare. Ha lasciato un testamento spirituale in cui dice:

Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.
Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita.

Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.

Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna".

I martiri, come Bhatti, mostrano una fede che rende giovani i vecchi e rende anziani nella sapienza i giovani: uno spirito di speranza per cui non ci si lascia bloccare dall’impossibile e si crede che tutto può cambiare; uno spirito di amore per cui si dà la propria vita per gli altri e non ci si lascia legare dall’amore per sé. Essere cristiani è una cosa seria, perché è essere tutti profeti nel nostro tempo.

Ma potremmo dire: anche noi dobbiamo sperare di morire per poterci salvare?

Non si tratta di desiderare o augurarci la morte, ma di fare nostro l’atteggiamento di queste persone che non hanno cercato il compromesso per salvare se stessi e non rinnegare il mondo, ma hanno creduto di dover offrire tutta la loro vita, fino a rischiarla, per fare l’interesse del Signore e degli altri e non tenerla per sé, cercando la propria convenienza.

Mons. Romero diceva che ciascuno deve essere pronto a dare la vita, come la dà la madre al figlio, giorno per giorno, prendendosi cura di lui.

Ecco allora che i martiri si fanno nostri compagni in questo tempo di Quaresima e ci indicano una via di uscita dal clima grigio e spaventato del nostro mondo vecchio e individuale. Alla paura di rimetterci, al timore di cambiare qualcosa, al rifiuto di gioire veramente e soffrire veramente, i martiri hanno contrapposto la serietà di una vita vissuta fino in fondo, non senza timore e trepidazione, ma senza umiliarsi sotto la schiavitù della propria convenienza a tutti i costi.

Prendiamo i martiri come nostri compagni in questi giorni di Quaresima e imitiamo il loro essere cristiani desiderosi di non fare compromessi ma di compromettersi con Vangelo nel mondo, fino a rimetterci e a perdere la vita, quella che tutti vogliono conservare, anche a costo di buttarla via per ciò che non vale niente.

mercoledì 16 marzo 2011

II domencia del tempo di Quaresima


Dal libro della Gènesi 12, 1-4
In quei giorni, il Signore disse ad Abram: «Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.

Salmo 32 - Donaci, Signore, la tua grazia: in te speriamo
Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 1, 8b-10
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.

Lode a te, o Signore re di eterna gloria!
Dalla nube luminosa, si udì la voce del Padre:
«Questi è il mio Figlio amato: ascoltatelo».
Lode a te, o Signore re di eterna gloria!

Dal vangelo secondo Matteo 17, 1-9
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».


Commento

Cari fratelli e care sorelle, con questa seconda domenica siamo immersi nel pieno del tempo di Quaresima che, come una madre paziente e affettuosa, ci accompagna verso la Pasqua di Resurrezione.

Spesso si è voluto vedere la Quaresima come un tempo di ripiegamento su se stessi, di macerazione interiore, di tristezza incupita. In realtà se così fosse la Quaresima non sarebbe molto diversa dal tempo ordinario, perché nel nostro tempo mi sembra che un velo di tristezza e rassegnazione copra sempre il nostro mondo e le nostre città. Certo, c’è la tristezza che viene da una coscienza di noi stessi, e cioè quella di essere polvere e cenere, come abbiamo voluto affermare mercoledì scorso col gesto che apre la Quaresima. Ma la tristezza più comune è una sorta di mesta modestia, che proprio perché modesta e costante quasi non pesa più, anzi della quale quasi non si può fare a meno, come un modo di essere di “basso profilo”, funzionale a mantenere tutto a basso livello nelle nebbie della rassegnazione.

Questa falsa tristezza, impastata di rassegnazione, non si vince con un’emozione, ma accettando la cenere sul capo, cioè guardando alla nostra inadeguatezza e complicità col peccato per vivere la speranza di liberarsene.

La Quaresima dunque non è tempo triste e basta, ma è il tempo in cui dobbiamo prepararci ad una grande gioia, che è vero, ancora non c’è, ma che si intravede al termine del nostro cammino. La pienezza della gioia è infatti la vittoria della vita sulla morte. A una tale gioia sembra che, figli di un mondo triste e rassegnato, siamo tutti impreparati, come vasi sigillati o rotti, incapaci di accoglierla e conservarla in sé. Prevalgono infatti sempre i motivi di scontento e pessimismo, piuttosto che quelli per cui gioire: siamo un po’ più invecchiati, la situazione è un po’ peggiorata, ecc… C’è una vera e propria paura di vivere la gioia per un futuro nuovo, che è un segno di vecchiaia del cuore e della vita. Il vecchio infatti non ama la novità, ma preferisce rimpiangere il passato e conservarsi in un presente sempre uguale.

La Quaresima vuol essere questa proposta a chi è invecchiato, prigioniero della tristezza e della rassegnazione: andare verso Cristo nella Pasqua. Ma, per questo incontro, bisogna prepararsi per avere occhi, cuore, per non dormire per la tristezza, come i discepoli nel Getsemani, accanto a Gesù che pregava e sudava sangue.

Per poter gioire della novità è richiesta un’apertura fiduciosa al futuro, la disponibilità a vivere con speranza, come fece Abramo: “il Signore disse ad Abram: «Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò...» Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.”

Abramo, nonostante fosse avanti negli anni, davanti alla promessa di Dio, audace fino all’assurdo, di concedergli una discendenza numerosa e una terra non reagì come un vecchio spaventato dalla novità, ma accettò di riformare se stesso, il suo modo di vivere. Cambiò le priorità della sua vita: invece di prepararsi una serena vecchiaia, godendosi quello che aveva ottenuto e assicurandosi la continuità di un presente tranquillo, accettò di compiere un cammino lungo e pericoloso, di rischiare anche di perdere tutto, di faticare per raggiungere la gioia di un futuro nuovo, cioè diventare “una grande nazione”.

S. Paolo parla di Abramo ai Romani: “[Abramo] ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo - aveva circa cento anni - e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento.” (Rm 4, 19-21)

Questo “sperare contro ogni speranza” fu il suo modo di “avere fede”, dice Paolo, vincendo l’invecchiamento del cuore e della vita.
Oggi la Quaresima ci pone la stessa domanda di Dio ad Abramo: vuoi vincere la paura da vecchio per accogliere la gioia della vita nuova che la Pasqua viene a portarci?
Eppure la paura è la reazione spontanea davanti alla visione grande di Dio sulla vita dell’uomo, come quella che propose ad Abramo. Capitò anche a tre apostoli che Gesù chiamò con sé sulla montagna. Ad essi, in disparte, si mostrò trasfigurato, immerso in quello splendore che trasforma la realtà umile e meschina dell’uomo nella gloria della Resurrezione. Fu per i tre apostoli un anticipo della vita nuova che il Signore avrebbe inaugurato a Pasqua con la vittoria definitiva sulla morte che umilia la vita, è la strada che propone a ciascuno di noi: passare dalla vita vecchia e triste alla gioia della vita nuova che non finisce. Gli apostoli prima furono felici, ma poi sembrò troppo per loro, si gettarono spaventati faccia a terra. È la reazione “normale” di ciascuno di noi: all’entusiasmo iniziale segue la paura e il ritorno alla contemplazione di sé dal basso.

Fratelli e sorelle, la Quaresima che stiamo vivendo è come Gesù che ci invita a seguirlo sul monte per pregustare con lui come può essere la vita glorificata dalla sua resurrezione: la nostra vita personale, con i suoi affanni e miserie, la vita del mondo, con i drammi e la violenza che lo attraversano. Noi siamo attratti da questa visione, ma ci sembra troppo grande per noi e restiamo ancorati alla rassegnazione che tanto niente potrà mai cambiare.

Come fare a vincere questa paura, come rialzare il volto da terra per rivolgerlo con fiducia e speranza verso il futuro indicato da Cristo? Una voce lo dice chiaramente ai tre sbigottiti apostoli: “Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. Ascoltare il Signore, ecco la via per rinnovare la nostra vita e vincere la vecchiaia nostra e del mondo. Una via semplice e concreta che vogliamo fare nostra in questa Quaresima: ascoltare con attenzione e disponibilità la Parola di Dio perché questa entri in noi e si faccia strada nel chiuso del nostro intimo, restituendoci quel cuore con cui gioire della Resurrezione a Pasqua. Viviamo una Quaresima di ascolto, di silenzio interiore e ascolto attento della Parola di Dio. Torniamo sulla pagina della Scrittura, abituiamoci a far tornare alla mente le parole che ci guidano nella vita e torneremo capaci di appassionarci, di gioire e di soffrire per una vita non più vecchia e ripiegata su di sé.


Preghiere

Ti preghiamo o Signore nostro perché viviamo in questo tempo di Quaresima l’inquietudine per il nostro peccato, nella serena fiducia del tuo perdono.
Noi ti preghiamo

Donaci in questo tempo o Dio di vivere nell’ascolto della tua Parola, perché vinciamo ogni paura e ci incamminiamo fiduciosi in te verso la gioia della Pasqua.
Noi ti preghiamo
Con insistenza o Dio ti preghiamo perché tu soccorra tutte le vittime del terremoto in Giappone. Fa’ che chi è sopravvissuto al terribile disastro trovi consolazione e riparo e chi è morto riposi in pace nel tuo amore.
Noi ti preghiamo

Guarda con amore alla tua Chiesa o Padre del cielo, perché la Quaresima sia in tutte le comunità un tempo di ascolto della tua Parola e di conversione del cuore.
Noi ti preghiamo
Sostieni con il tuo amore, o Padre misericordioso, quanti soffrono per la miseria e l’abbandono e tutti quelli che si sforzano di essergli vicini. Uniscili nella benedizione di una vita rinnovata e consolata.
Noi ti preghiamo

Accogli o Padre il nostro sforzo di uscire come Abramo dalla vita ordinaria per metterci in cammino verso il Cristo risorto a Pasqua. Sostienici e aiutaci a non restare fermi su noi stessi.
Noi ti preghiamo.

Benedici o Dio il papa Benedetto XVI che sabato prossimo incontreremo a Roma. Sostieni il suo impegno di indicare Te come unica via per la felicità dell’uomo.
Noi ti preghiamo

Proteggi tutti i cristiani perseguitati per la loro fede nel tuo Nome. Fa’ che in futuro si aprano ponti di comprensione fra i popoli e le religioni, così che nessuno più soffra e muoia per la propria fede.
Noi ti preghiamo

martedì 15 marzo 2011

Scuola del Vangelo 2010/11 – XVII incontro (II di Quaresima) : Quaresima tempo di riforma per un mondo vecchio

Scuola del Vangelo 2010/11 – XVII incontro
Quaresima tempo di riforma per un mondo vecchio
16 marzo 2011

La Quaresima è un tempo in cui pensare il proprio cambiamento: è tempo dedicato alla riforma, perché non si può arrivare a Pasqua così come siamo sempre stati.

Spesso si è voluto vedere la Quaresima come un tempo di ripiegamento su se stessi, di macerazione interiore, di tristezza incupita. In realtà se così fosse la Quaresima non sarebbe molto diversa dal tempo ordinario, perché un velo di tristezza e rassegnazione copre il nostro mondo e le nostre città. Certo, dobbiamo partire da una coscienza reale di noi stessi, e cioè dalla tristezza di essere polvere e cenere, quali siamo, come abbiamo voluto affermare mercoledì scorso col gesto che apre la Quaresima. C’è infatti una vera tristezza, che è il senso del limite del nostro peccato e della minaccia della morte che grava su di me ogni giorno. Ma la tristezza più comune è una sorta di modestia mesta, che non sente il peso del proprio limite, anzi quasi non può fare a meno del proprio “profilo basso”, funzionale al tenere tutto a basso livello nelle nebbie della rassegnazione. Paolo quando si sente circondato da questa tela di tristezza grida: “Perché se io rattristo voi, chi mi rallegrerà se non colui che è stato da me rattristato?” (2 Cor 2, 2). Rattristare gli altri è un peccato grave, perché li conferma in una rassegnazione cupa che umilia la speranza. Non bisogna mai rattristare nessuno, ma, come dice Paolo: “siamo invece collaboratori della vostra gioia” (ivi, 1,24).

Questa falsa tristezza, impastata di rassegnazione, non si vince con un’emozione, ma accettando la cenere sul capo, cioè guardando alla nostra inadeguatezza e complicità col peccato per vivere la speranza di liberarsene. È il cammino di Quaresima. La gioia del Signore è la nostra forza –insegnano le Scritture. Ma la gioia è anche il segno che, nonostante i problemi, il Signore ha vinto la morte ed è risorto. Gesù prega nel Vangelo di Giovanni perché i suoi discepoli “abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (17,13), dopo aver pregato perché “siano una cosa sola” (ivi,13). La pienezza della gioia è la vittoria della vita sulla morte. A una tale gioia sembra che, figli di un mondo triste e rassegnato, siamo tutti impreparati, come vasi sigillati o rotti, incapaci di contenerla.

La Quaresima dunque non è tempo triste e basta, ma è il tempo in cui dobbiamo prepararci ad una grande gioia, che è vero, ancora non c’è, ma che si intravede al termine del nostro cammino. Ma per poter gustare la gioia bisogna essere pronti ad accoglierla. Questo non è scontato, perché oggettivamente prevalgono sempre i motivi di scontento che quelli per cui gioire: siamo un po’ più invecchiati, la situazione è un po’ peggiorata, ecc… C’è una vera e propria paura di vivere la gioia per un futuro nuovo, che è un segno di vecchiaia del cuore e della vita. Il vecchio infatti non ama la novità, ma preferisce rimpiangere il passato e conservarsi in un presente sempre uguale.

La Quaresima vuol essere questa proposta a chi è invecchiato, prigioniero della tristezza e della rassegnazione: incontrare Cristo nella Pasqua, evento centrale della liberazione dell’uomo dalle catene più antiche. Ma, per questo incontro, bisogna prepararsi per avere occhi, cuore, per non dormire per la tristezza, come i discepoli nel Getsemani, accanto a Gesù che pregava e sudava sangue. Da questa Pasqua sorgono discepoli liberati, che portano la resurrezione nel cuore come fede gioiosa, per liberare il mondo.

La vecchiaia è condizione di ciascuno di noi, come individui, ma è anche una realtà del mondo in cui ci troviamo a vivere.

UN MONDO VECCHIO


Due incontri fa’ abbiamo parlato di quanto in questi giorni sta avvenendo nella riva Sud del Mediterraneo, in Egitto, Tunisia e Libia. Parlavamo di un vento di novità (che purtroppo in Libia sta lasciando dietro di sé una scia di sangue per gli scontri che ancora si susseguono) che però il nostro mondo occidentale fa fatica ad accogliere con un senso di positiva riapertura di un futuro che per molti popoli sembrava irrimediabilmente chiuso da una cappa opprimente. È un esempio di come la novità di uno scoppio inatteso di libertà e di speranza possa essere ingrigito e involgarito dalla paura che noi uomini del Nord abbiamo che i nostri privilegi vengano intaccati da questi eventi.

Questo atteggiamento è rivelatore della paura di un mondo vecchio, il nostro, che chiede al grande mondo di non disturbarlo. Ne è un esempio la politica italiana verso la Libia: prima, quando si trattava di fare affari e bloccare gli immigrati Gheddafi è stato trattato ridicolmente con tutti gli onori, fino al baciamano tributatogli dal nostro Presidente del Consiglio; poi, al momento della rivolta, l’imbarazzata presa di distanza dal raìs di fronte alle critiche del mondo a tanta opportunistica cecità di fronte alla palese assenza di libertà e democrazia in Libia; infine, ora che le cose si mettono male per i rivoltosi contro il regime di Gheddafi il Governo è diventato più prudente perché prima o dopo si prevede la possibilità concreta che ci dovrà di nuovo avere a che fare con Gheddafi a capo della Libia. Pertanto si aspetta e si sta a guardare, senza prendere posizione. Ma Gheddafi ha bombardato con l’aviazione il suo popolo che manifestava chiedendo libertà e democrazia, come si può restare neutrali? Scriveva giustamente nel 1904 il grande filosofo e letterato spagnolo Miguel de Unamuno: “Viviamo in piena gerontocrazia … subendo l’imposizione di vecchi incapaci di comprendere lo spirito giovane e che mormorano: Non spingete ragazzi…”. Sì, il mondo soffre di anemia di passioni. Padre Davide Turoldo, prete e poeta cristiano, parlava di senilità dello spirito in una sua poesia:

Signore, salvami dal colore grigio dell’uomo adulto
e fa’ che tutto il popolo sia liberato da questa senilità dello spirito.
Ridonaci la capacità di piangere e di gioire;
fa’ che il popolo ritorni a cantare nelle tue chiese.”

La capacità di piangere e gioire con gli altri è la passione per la storia che va avanti fra mille sfide, che mostra volti nuovi e pone domande inedite, che non si può arrestare perché mi disturba con la sua irruenza fastidiosa. La storia è la giovinezza di un uomo e di un popolo, e vivendola dal di dentro ci è data la possibilità di rendere nobile la mia vita, perché finalmente amo non solo me stesso.

In realtà oggi in Europa e in tutto l’Occidente benestante si è rinunciato a fare la storia, ma ci si difende dalla storia. Quel che conta è il mio “io”. Sì, un mondo di tanti io che non si amano e che non si piacciono, che si scontrano gli uni contro gli altri, che non guardano al futuro insieme. E attraverso la storia Dio opera, mediante le correnti profonde dello Spirito di cui parlava La Pira, che agiscono determinandone la direzione. Giovanni Paolo II aveva forte questo senso della storia come un terreno nel quale Dio opera, non al di sopra dell’uomo, ma con il suo consapevole aiuto. Ad esempio già vecchio e malato, al termine della sua vita, non smetteva di esprimere la speranza di un futuro nuovo che la storia dell’umanità poteva conoscere:

Sono impressionato dal sentimento di paura che dimora sovente nel cuore dei nostri contemporanei. Il terrorismo subdolo che può colpire in qualsiasi istante e ovunque; il problema non risolto del Medio Oriente, con la Terra Santa e l’Iraq; gli scossoni che scompigliano il Sud America, particolarmente l’Argentina, la Colombia e il Venezuela; i conflitti che impediscono a numerosi Paesi africani di dedicarsi al proprio sviluppo; le malattie che propagano il contagio e la morte; il problema grave della fame, in modo speciale in Africa; i comportamenti irresponsabili che contribuiscono all’impoverimento delle risorse del pianeta: ecco altrettanti flagelli che minacciano la sopravvivenza dell’umanità, la serenità delle persone e la sicurezza delle società.
3. Ma tutto può cambiare. Dipende da ciascuno di noi. Ognuno può sviluppare in se stesso il proprio potenziale di fede, di probità, di rispetto altrui, di dedizione al servizio degli altri. …
È dunque possibile cambiare il corso degli eventi quando prevalgono la buona volontà, la fiducia nell’altro, l’attuazione degli impegni assunti e la cooperazione fra partner responsabili.
” (Discorso di Giovanni Paolo II al Corpo Diplomatico - Lunedì, 13 gennaio 2003).

Tante volte questa mentalità di rinuncia alla storia si ritrova tra di noi. Il problema del tramonto politico o economico dell’Europa sui grandi scenari del mondo non è perché ci sono gli islamici che minacciano la nostra identità o perché troppi immigrati premono sulle coste, o a causa della crisi economica; il vero problema è che viviamo un tramonto della speranza, e con essa della simpatia, della passione per cambiare, del sogno di fare cose grandi, della capacità di piangere e gioire con gli altri, in una parola della voglia di un nuovo futuro, proprio quello che la Pasqua viene a portare nel mondo con la vittoria della vita sulla morte.

Siamo malati di anemia di speranza, stanchi, invecchiati, spaventati. Così guardiamo i fatti a Sud del Mediterraneo. Così ci guardiamo l’un l’altro, incapaci di un sogno comune, di fare comunità. È l’incapacità di essere un “noi”. Pensiamo alla difficoltà a gioire per questa festa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Certo non tutto qui da noi è perfetto e la situazione attuale può non essere del tutto soddisfacente, ma la diffidenza a gioire di questa storia comune nasce proprio da questa diffidenza a guardare al futuro insieme, in tanti, come una comunità larga che ha una storia passata in comune e un destino futuro da costruire assieme. Si preferisce invece chiudersi nel particolarismo: la mia regione, città, quartiere, condominio, fino all’”io e basta”. Così la storia, che necessariamente è un processo comune, corre in avanti e noi ne restiamo fuori, presi ciascuno dalla propria vicenda individuale che però non è storia. I vecchi sono anemici di speranza e di simpatia.

CHE FARE?

Non possiamo rischiare di arrivare a Pasqua come uomini del vecchio mondo, perché rifiuteremmo il suo dono di vita nuova. La Quaresima è tempo opportuno per fare una profonda riforma del nostro vivere, a partire da alcuni aspetti che determinano l’essere “vecchio”.

Il primo modo in cui dimostriamo la nostra paura di vecchi è questo: guardare agli altri e al mondo con gli occhi del proprio tornaconto. Il metro di giudizio per le persone e i fatti è “quello che mi conviene”. Giudicare infatti in base al bene e al giusto per gli altri espone a rischi, è più faticoso e ci chiede di prenderci responsabilità e magari anche di pagare di persona. Giudicare in base al bene e al giusto per me stesso ci pone al riparo da questi rischi.

La soluzione di un problema è allontanarlo da me: pensiamo alle politiche sull’immigrazione, i respingimenti, la chiusura delle frontiere, ecc…

Non solo quello che non vedo (che ormai poche sono le cose che possono dirsi nascoste) ma quello che decido che non mi riguarda non esiste per me: pensiamo alla condizione degli anziani allontanati dalle famiglie e dal tessuto sociale ordinario per rinchiuderli nei cronicari dove sono invisibili. Quanti dicono: no, di certe cose non me ne posso occupare perché sono tropo sensibile e poi ci sto male. Addirittura si arriva al paradosso che una presunta propria sensibilità è motivo valido per fregarsene degli altri: allora è meglio essere un po’ meno sensibili e meno egoisti.

L’idea che quotidianamente dobbiamo confrontarci sulle priorità della nostra vita in base alle esigenze della storia che ci pongono di fronte ci sconvolge. Il ritmo della nostra vita è ormai impostato e senza possibilità di scelta autonoma, ed è lui a determinare le nostre scelte su cosa è più importante e cosa di meno: ad esempio lo scorso mercoledì delle ceneri c’è stato chi si è raccomandato che la preghiera delle 19.00 non andasse troppo per le lunghe, perché poi c’era la cena. Nemmeno passa per l’anticamera della mente che per la preghiera delle ceneri, che viene una volta l’anno e inaugura un tempo forte come la Quaresima, la cena potesse subire un ritardo di 10 o 15 minuti. Non sia mai che il ritmo regolare della nostra vita sia messo in discussione, fosse pure dalle ceneri, fosse pure per 10 minuti. La priorità è già decisa dalla vita, dalle abitudini, dai ritmi e dai giudizi istintivi.

Questi e tanti altri esempi che potremmo fare ci fanno toccare con mano come la vecchiaia del cuore ci fa essere sclerotici, rigidi nelle abitudini e nei modi di pensare, spaventati delle novità, desiderosi che il presente si ripeta senza cambiamento per l’eternità: se siamo così, come potremo accogliere il dono della vita nuova a Pasqua?

Per poter gioire della novità infatti è richiesta un’apertura fiduciosa al futuro, la disponibilità a vivere con speranza, come fece Abramo, di cui ci S. Paolo parla ai Romani:

“[Abramo] ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo - aveva circa cento anni - e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento.” (Rm 4, 19-21)

Abramo, nonostante fosse avanti negli anni, davanti alla promessa assurda di Dio di concedergli una discendenza numerosa e una terra non reagì come un vecchio spaventato dalla novità, ma accettò di riformare se stesso, il suo modo di vivere. Cambiò le priorità della sua vita: invece di prepararsi una serena vecchiaia, godendosi quello che aveva ottenuto e assicurandosi la continuità del presente sereno, accettò di compiere un cammino lungo e pericoloso, di rischiare anche di perdere tutto, di faticare per raggiungere la gioia di un futuro nuovo, cioè diventare “padre di molti popoli”. Questo “sperare contro ogni speranza” fu il suo modo di “avere fede”, dice Paolo, vincendo l’invecchiamento del cuore e della vita.

Oggi la Quaresima ci pone la stessa domanda di Dio ad Abramo: vuoi vincere la paura da vecchio per accogliere la gioia della vita nuova che la Pasqua viene a portarci?

Per accogliere questa proposta di Dio dobbiamo fare come Abramo ed invertire il punto di vista: non guardare agli altri e al mondo con gli occhi del proprio tornaconto, ma farsi dettare l’agenda e il calendario dal tornaconto di Dio e degli altri. È quello che Paolo ammira tanto in Timoteo: “Infatti, non ho nessuno d'animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo”. (Fil 2, 20-21).

Cercare gli interessi di Cristo” significa, un po’ come già accennavamo il mercoledì delle ceneri, accettare che la priorità non sia sempre il mio interesse, ma siano le “necessità” degli altri: quello che ci chiede la Scrittura, le domande dei poveri, le richieste dei fratelli e delle sorelle, le domande delle folle e la preoccupazione che incontrino il Signore e il Vangelo, quella capacità di piangere e gioire con gli altri di cui parlavamo poco fa e che ci rende protagonisti felici della storia e non lamentosi e paurosi rinchiusi in un angoletto. Questo ci fa vedere il mondo con occhi nuovi e ci fa sperare ed attendere la novità che è il Vangelo: buona notizia. Vivere con questa ottica invertita ci permette di vincere le paure e di non desiderare la conservazione del presente, ma aprirci alla speranza, come Abramo, in vista del dono di una vita che ci spiazza e ci ridona un futuro nuovo.

I domenica del tempo di Quaresima




Dal libro della Gènesi 2, 7-9; 3, 1-7
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Salmo 50 - Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; +
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5, 12-19
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato.... Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

Lode a te, o Signore, re di eterna gloria!
Non di solo pane vive l'uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Lode a te, o Signore, re di eterna gloria!

Dal vangelo secondo Matteo 4, 1-11
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.


Commento


Cari fratelli e care sorelle, inizia questa domenica il tempo di Quaresima che ci conduce fino alla Pasqua. È un tempo che si caratterizza per la serietà pensosa con cui siamo chiamati a considerare la nostra vita, affinché sappiamo accogliere con maggior coscienza e gioia più piena il dono della vita che non finisce che con la resurrezione di Cristo il Padre vuole fare anche a noi. Come tutti i doni, infatti, non basta riceverli per poterne godere. Il dono deve essere accolto e apprezzato: se ci sembra una cosa inutile e che non serve lo lasceremo cadere e presto ce ne dimenticheremo. Così è per la Pasqua per chi non vive la Quaresima come tempo opportuno per conoscere meglio se stesso, e il proprio bisogno del dono di una vita rinnovata da parte del Signore.


Il vangelo ascoltato oggi ci aiuta nel nostro cammino di Quaresima facendoci riflettere sul fatto che spesso noi abbiamo una visione delle cose della vita diversa da come esse sono in realtà. Se vogliamo è un fatto molto banale: diamo tanta importanza a qualcosa che ci sembra decisiva per il nostro futuro e la nostra felicità, e poi magari, una volta raggiunta, ci rendiamo conto che non è come ci sembrava. Ma non è tanto banale, perché la vita spesa dietro a ciò che non vale è persa per sempre e non è detto che, alla fine, siamo disposti ad ammettere il nostro errore: magari preferiamo mascherare il fallimento e continuare fino in fondo a fare affidamento in ciò che si manifesta come incapace a darci la felicità.


Gesù stesso fa questa amara esperienza: anch’egli è sottoposto al dubbio circa cos’è che veramente vale.

La prima tentazione, cioè il primo modo con cui la vita lo vuole trarre in inganno, è quella di considerare essenziale e primario soddisfare i propri bisogni materiali. La potenza di Dio, dice il tentatore, si manifesta nel trasformare la realtà in qualcosa di utile a me. È il dominio di una mentalità materialistica che attribuisce valore solo a ciò che si può vendere e comprare, che serve a qualcosa e si scambia. Oggi la mentalità mercantilistica del nostro mondo ci porta con facilità a vivere questo atteggiamento per cui tutto ciò che non ha una rilevanza economica o utilitaristica viene considerato secondario. Ma Gesù risponde a questa tentazione dicendo che non solo il pane, bene materiale, ci nutre, ma anche l’amore che è espresso dalla Parola di Dio. È vero questo a volte non si vede, non si compra e non è quotato nelle borse, ma senza non si vive una vita degna di questo nome.


Poi, in secondo luogo, il tentatore propone a Gesù di vivere un senso di onnipotenza individuale, secondo il quale ciascuno può fare quello che istintivamente si sente, senza bisogno di costruirsi pazientemente e con fatica capaci di scegliere in base al valore reale della vita. Lo vediamo spesso come sia facile gettarsi in avventure, costruire relazioni, buttarsi a capofitto in progetti o impegni, come se bastasse per essere felici affidarsi alla passione del momento o alla foga o intensità nel vivere. Salvo poi, dopo il fallimento, coltivare un senso vittimistico per cui la colpa è degli altri che non hanno aiutato abbastanza o non hanno assecondato. Alla proposta di vivere così Gesù risponde che Dio non può essere messo alla prova, cioè usato come scusa per il proprio fallimento, ignorato quando ci indica come vivere, ma poi preso come responsabile con cui prendersela del poco amore che abbiamo saputo costruire nella nostra vita.


Infine il tentatore propone a Gesù di credere che tutto è a sua disposizione. Che si può agire ed essere secondo il proprio capriccio, come il padrone fa con le sue cose: oggi ne ho voglia, domani chissà; finché mi serve lo accetto, poi chissà. È la mentalità individualista ed egocentrica che pervade la nostra società, nella quale l’altro è una pallida comparsa sul palcoscenico della nostra vita, sfuggevole e inconsistente è puramente funzionale alla scena madre che devo recitare io, e finché le è utile bene, poi può anche scomparire nel nulla. È qual culto di se stesso che il tentatore pretende da Gesù e che ognuno di noi è pronto a offrire e a pretendere dagli altri. Ma Gesù, anche in questo caso, non cede, ma risponde con la centralità di un unico culto che è rivolto a Dio, l’Altro per eccellenza, e che ci si presenta con il volto del fratello e della sorella, del bisognoso, del piccolo (Mt 25) perché noi gli rendiamo il culto dell’amicizia e dell’amore che accoglie e fa spazio nella propria vita.


Cari fratelli e care sorelle, possiamo dire che, in sintesi, alla tentazione di spendere la propria vita per ciò che non vale, fosse il materialismo gretto che non va oltre la soddisfazione dei bisogni materiali, oppure l’irresponsabilità vittimistica del farsi trascinare dalla passione di sé per poi dare colpa agli altri o a Dio del fallimento, dell’eliminazione degli altri per vivere nell’isolamento narcisista dell’individuo autosufficiente, il Signore contrappone la sapienza antica della scrittura: “Sta scritto…” risponde infatti Gesù. Egli ci indica una strada. Non è in noi né nelle sapienza del mondo che ci si offrono a buon mercato che troveremo la strada per costruire la propria felicità e trovare il senso della nostra vita. La parola di Dio piuttosto ci indica i materiali e la sapienza, ci offre, come dicevamo due domeniche fa, il fondamento solido su cui costruire con pazienza l’edificio solido che non cada alle piogge e ai venti della vita. Confrontandoci con cuore aperto con il Vangelo di questa domenica troveremo anche in noi le tentazioni che il maligno, cioè la normalità della sapienza del mondo, ci suggerisce. Facciamo nostre le risposte sapienti di Gesù, perché ci rendiamo conto che senza di esse siamo esposti ad un vento pericoloso che ci rende vittime delle passioni passeggere e dell’individualismo. Cominceremo così la costruzione per la quale la Quaresima è tempo opportuno e favorevole.


Preghiere




O Signore ti ringraziamo perché ci doni la sapienza del Vangelo per resistere ai suggerimenti del tentatore. Fa’ che sappiamo riporre in te la nostra fiducia.
Noi ti preghiamo


O Dio donami la forza di resistere alla corrente di una vita spesa senza preoccupazione per te e per i fratelli. Fa’ che sappiamo mettere in pratica le parole del vangelo.
Noi ti preghiamo


Aiutaci o Signore in questo tempo di Quaresima a riconsiderare le scelte della nostra vita, perché sappiamo riformarla secondo il tuo esempio e insegnamenti.
Noi ti preghiamo


Guida i nostri passi o, Padre del cielo, verso la Pasqua di resurrezione, perché nell’attesa del dono della vita che non finisce sappiamo scoprirci umili e bisognosi del tuo perdono.
Noi ti preghiamo


Guarda con amore o Padre alle vittime del terremoto in Giappone, perché chi è nel dolore sia consolato e chi ha perso la vita sia accolto nel tuo abbraccio amorevole.
Noi ti preghiamo


Sostieni tutte le vittime della guerra e della violenza, in Libia, in Terra Santa, in Costa d’Avorio, perché cessino gli scontri e si apra un tempo di riconciliazione e pace.
Noi ti preghiamo.


Proteggi dal male o Signore tutti coloro che sono perseguitati per la loro fede in te, proteggi chi soffre a causa del vangelo e per l’amore per la giustizia.
Noi ti preghiamo


Guida i tuoi figli o Dio del cielo perché con il loro operato e le loro parole siano testimoni credibili del Vangelo e indichino a chi ancora non ti conosce la strada che conduce alla gioia dell’essere tuoi discepoli.
Noi ti preghiamo



venerdì 11 marzo 2011

Scuola del Vangelo 20101/11 - XVI incontro - Il tempo di Quaresima

Mercoledì delle Ceneri – 9 marzo 2011


Dal libro del profeta Gioèle 2,12-18

Così dice il Signore:
«Ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore,
pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion,
proclamate un solenne digiuno,
convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo,
indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.


Oggi apriamo un capitolo importante della nostra vita di quest’anno. Il tempo di Quaresima infatti è una tappa significativa per il nostro rapporto con Dio. A questo tempo si collegano nella nostra memoria tanti ricordi circa gli usi del passato: la pratica del digiuno, altre devozioni, il divieto di fare feste o celebrare matrimoni, ecc… Normalmente ci si rammarica del fatto che tutte queste abitudini e riti che facevano parte della vita sociale e caratterizzavano un periodo dell’anno siano venute meno e in fondo niente più differenzi queste giornate da tutte le altre dell’anno. Da una parte è un segno negativo, forse, ma dall’altra è anche una sfida: non si tratta oggi infatti più di adagiarsi su di un comportamento sociale, qualche regola da osservare, ma piuttosto ci è chiesto di caratterizzare le nostre giornate con una “Quaresima del cuore”, che se è vissuta con profondità non è meno visibile e decisiva di quella dei “riti” sociali di un tempo.

Nelle parole del profeta Gioele che nella liturgia odierna ci sono proposte Dio infatti chiede: “Laceratevi il cuore e non le vesti”, proprio a sottolineare che il lavoro da compiere è innanzitutto interiore e non superficiale ed esteriore. Siamo infatti più disponibili a rinunciare magari a qualcosa o a cambiare qualche nostra abitudine, tanto sappiamo che è solo per un periodo, siamo ben disponibili a lamentarci per i tempi che corrono, ma è ben più difficile “lacerare il proprio cuore”, perché fa male e lascia una cicatrice che non passa.


La prima cosa allora che vogliamo è che questa Quaresima passi lasciando un segno, una cicatrice, non superficiale, ma profonda nelle fibre della nostra esistenza, fin nel loro cuore profondo.


È l’augurio, per così dire, con cui iniziamo questa nostra meditazione e preghiera del Mercoledì delle Ceneri che apre la Quaresima. La prima constatazione, se vogliamo banale, ma non ovvia, è che la Quaresima si apre non in un giorno festivo. Non sarebbe stato più opportuno spostarlo alla domenica, per renderlo più visibile? Anche in questo caso questo inizio così importante rischia di passare inosservato: la vita continua con i suoi ritmi, chi se ne accorge? Ma forse non è un caso che una tappa così importante si apra proprio nel cuore della vita feriale, perché il tempo del Signore si mischia con quello degli uomini, fino quasi a scomparire. Non ci sono due tempi: quello di Dio, degli ideali, della santità, della perfezione, del Vangelo, e poi un tempo degli uomini, molto più modesto, in cui il compromesso è indispensabile per andare avanti, in cui tutto è per forza più grigio e più brutto, in cui prevale la nostra miseria e modestia. No, il tempo di Dio non è un tempo estraneo alla vita di tutti i giorni, non richiede di isolarsi e rendersi stranieri al tempo di tutti, ma scorre assieme a quello di tutti perché vuole animarlo dal di dentro. Questo Mercoledì allora non è innanzitutto un mercoledì del calendario, ma l’inizio di un tempo del cuore, in cui è protagonista la nostra vita interiore. Questo non vuol dire che è una cosa privata e intimistica, giocata fra me e i miei stati d’animo, tant’è che ci siamo riuniti assieme per ascoltare la scrittura, pregare, ricevere il segno della cenere.


Dio c’invita innanzitutto: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti.” C’è bisogno di muoversi e di avere una direzione ben precisa: tornare da Lui. Nella nostra vita spesso le direzioni verso le quali ci muoviamo sono molteplici, e non sempre compatibili. Verso quello che ci sembra il nostro interesse, verso quello dei nostri cari, verso l’espletamento dei nostri doveri, verso le mode, verso la direzione a cui ci sospinge l’abitudine o il fare comune di tutti, ecc… Come dicevamo domenica scorsa, la nostra vita spesso è vissuta in nome dell’arte del compromesso per poter trovare un modo per mettere d’accordo tutte le direzioni verso le quali siamo indirizzati.


Proprio per questo, a volte, quando ci fermiamo a riflettere, in quei rari momenti di lucidità, ci sembra poi di non essere mai andati molto avanti e di aver zigzagato un po’ qua e un po’ là, alla fine poi girando sempre attorno a se stessi.


Per questo la Quaresima ci invita, almeno per queste settimane, a prendere con decisione la direzione giusta, quella verso di lui: “Ritornate a me”. Ma come fare: troppe rinunce, troppi sacrifici, poi a certe cose non possiamo dire di no: l’agenda e il calendario non è nelle nostre disponibilità. In realtà se ci proviamo scopriamo che non è vero. Infatti andare verso il Signore non significa uscire dal terreno della nostra vita per camminare su una nuvola per aria, così come il tempo vissuto con il Signore non è un tempo diverso da quello della vita umana. Solo si tratta di scegliere la direzione verso cui camminare, poi con chi lo facciamo non importa, anzi, più siamo e meglio è. Allora, ad esempio, lavorare sì, certo, non si può interrompere, e Dio non ce lo chiede, ma si può viverlo cercando di restare vicini a Dio, non prevaricando, non affannandosi per carriera e affarismo, tenendo conto di chi abbiamo accanto, non facendo del proprio lavoro l’unico scopo che ci tiene in vita, ecc… Così con la famiglia: tanti doveri ci legano ad essa, certo, ma con la priorità di vivere un amore che ha per modello quello di Dio e che per questo ci avvicina a lui: non schiavi delle pretese dei parenti, o angosciati per soddisfare le loro smanie egocentriche, o facendo noi sì che per sentirci indispensabili si scarichi sui rapporti familiari un surplus di attenzioni e di aspettative che poi restano regolarmente, come naturale, deluse. Oppure le altre occupazioni quotidiane.


Insomma, mi sembra che, contrariamente a quanto sembra a prima vista, avere nella propria settimana la priorità chiara di dover vivere in cammino verso Dio e non appresso all’ultima cosa che capita o che gli altri pretendono da noi, ridà ad essa un ordine e un senso unitario, uno scopo chiaro, tutte cose che non solo ci fanno stare meglio ma trasformano dal di dentro i nostri rapporti e la qualità di quello che facciamo, rendendo tutto più bello e ricco di senso.


Proviamo in questo tempo di Quaresima e ce ne accorgeremo.


Certo fare questo ci chiede uno sforzo, perché non ci viene naturale. È quel “lacerare il cuore” di cui parlavamo all’inizio, che fa male, in un primo tempo, ma fa sì che un cuore sclerotizzatato nelle abitudini e indurito torni a palpitare e a scaldarsi per qualcuno che non sono solo io e a pompare sangue in membra altrimenti esangui e debilitate dal non occuparsi ossessivamente altro che di se stessi.


Il profeta Gioele continua: “ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male.”


Il motivo di incamminarsi verso il Signore è perché egli è buono e ci vuole bene, tanto da “ravvedersi riguardo al male”. Questa ultima notazione riassume, in conclusione di frase, con quale segno veramente incredibile si manifesta l’amore di Dio: rinunciare al male che, secondo giustizia, noi ci saremmo meritati per il nostro comportamento. E il male più grande che Dio può fare agli uomini è trascurarli e dimenticarsi di loro.

Sì, spesso la nostra vita ordinaria è una vita che zigzagando attorno a sé, come dicevamo prima, si dimentica completamente di Dio, trascura le sue ragioni, ignora il suo invito a ricordarsi di lui e disconosce il bisogno che abbiamo di tutto quello che lui ci dona per vivere. Davanti a questo atteggiamento giustizia vorrebbe che Dio ci ripagasse con la stessa moneta, dimenticandosi di noi.
Ma Dio è molto di più che giusto, è buono, e per questo è “pronto a ravvedersi riguardo al male” che noi ci meriteremmo. Basta un segno, un gesto, un ricordo, un’attenzione verso di lui che prevalga nel suo cuore paterno l’amore per noi.


La Quaresima è allora un tempo opportuno per concentraci verso di lui, prestare attenzione alla sua parola, provare a vivere camminando verso di lui e non dietro a noi stessi, pur restando nei luoghi e nel tempo di sempre.


Il gesto con cui apriamo questa Quaresima è chinare il capo e ricevere la cenere su di esso. È un gesto antico con il quale l’uomo riconosce la fragilità della propria volontà e chiede umilmente a Dio aiuto per decidere di incamminarsi verso di lui e a non perdersi dietro a sé e a ciò che non vale niente.

martedì 8 marzo 2011

Mercoledì delle Ceneri - 1 marzo 2006


dal libro della Genesi 3,7-12
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Hittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora và! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?». Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte».
Commento

Cari fratelli e care sorelle, ci troviamo all’inizio di questo tempo di Quaresima e la giornata di oggi, mercoledì delle ceneri, è come la soglia che varchiamo per entrare nel cammino di Quaresima. Il segno austero della cenere posta sul capo ci invita a vivere questi giorni che ci separano dalla Pasqua con un atteggiamento diverso dal solito, più serio e pensoso. Si apre un tempo di digiuno e di meditazione, di compagnia con la Scrittura e di riflessione sulla nostra vita e sul nostro rapporto con Dio.

La Quaresima infatti è un dono.
Riceviamo in regalo questi quaranta giorni per giungere alla terra promessa della nostra felicità che è la Resurrezione di Nostro Signore. Come abbiamo ascoltato dal libro dell’Esodo: “Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele,..”

Sì, il Signore si è chinato sulla nostra vita, ha osservato la nostra miseria e ha dato ascolto al grido dei poveri. Per questo ci dona la Quaresima, perché anche noi usciamo dall’Egitto e iniziamo il viaggio verso la terra bella e spaziosa, dove scorre latte e miele, dove troveremo la vita nuova del Risorto.

Tutto questo non è scontato, non è un diritto, né un’abitudine banale. La terra promessa non è un luogo comune o una pia illusione per ingenui. Il mercoledì delle ceneri è un gesto di amore di Dio, non possiamo svuotarlo facendone quasi una superstizione o un rito vuoto di significato. Il mercoledì delle ceneri è la porta che ci fa ricevere il dono della Quaresima. Siamo sicuri che possiamo disprezzare a cuor leggero questo dono, che non ne abbiamo bisogno?

Il popolo di Israele viveva da molti anni in Egitto in stato di schiavitù. Era sottoposto al giogo di sorveglianti spietati e ad un lavoro massacrante, senza poter sperare nella fine di questa situazione. Eppure quando Mosè annuncia loro che Dio gli ha annunciato che li avrebbe condotti fuori dall’Egitto e liberati dalla schiavitù essi lo rifiutano: “Mosè così parlo agli israeliti, ma essi non ascoltarono Mosè perché erano all’estremo della sopportazione per la dura schiavitù” (Gen 6,9), la schiavitù cioè li aveva così umiliati da non permettere loro di alzare lo sguardo e vedere oltre la loro situazione attuale.
Con serietà ci poniamo oggi la domanda: noi sentiamo il peso della nostra situazione di schiavitù, o vi siamo così assuefatti da non poter alzare lo sguardo oltre la vita che già facciamo? Sì, anche noi, come il popolo d’Israele in Egitto, siamo schiavi dei nostri modi di vivere, così normali ma anche, a volte, così poco umani.

Siamo schiavi dalla nostra incapacità a voler bene ai fratelli e alle sorelle, così pronti a giudicarli e a spazientirci perché non sono come noi vorremmo.

Siamo schiavi del ritmo di una vita ormai fissata nelle sue abitudini, tanto che trovare un po’ di tempo da dedicare a chi è povero ci costa enorme sacrificio o ci sembra addirittura impossibile.

Siamo schiavi del sentirci poco portati a stare con altre persone, specie quelle con difficoltà o dalla vita che ci pone interrogativi, e più adatti a occuparci delle cose materiali, tanto qualcuno ci deve pensare, ci diciamo.

Siamo schiavi dei modi di fare spicci e un po’ giudiconi, che credono di saper capire al volo le persone e le situazioni, senza il bisogno di ascoltare e capire, senza interrogarsi.

Siamo schiavi del pensare sempre prima di tutto al proprio interesse, alla propria comodità, sicuri che tanto tutti fanno lo stesso.

Siamo schiavi del crederci capaci, esperti, pratici, pieni di risorse, senza dover porci problemi e dubbi su di noi.

Siamo schiavi dell’affannarci dietro a tante cose, senza lasciare il tempo per tornare sulla Scrittura, per fermarsi ad ascoltare chi ci è accanto, per pregare.

Siamo schiavi del credere che la vita dobbiamo prenderla così come viene, assecondare il nostro carattere così come ce lo troviamo, che non c’è bisogno di costruirci pazientemente, giorno dopo giorno, un’umanità più mite e compassionevole, più riflessiva e pacifica, più preoccupata degli altri e meno di sé.

Sì, sono tante le schiavitù a cui ci siamo così abituati, tanto da non desiderare più di esserne liberati, come dice Israele a Mosè.

Per fortuna il Signore è tenace e misericordioso e ha già preparato il paese nuovo in cui accompagnarci, l’umanità calda, fraterna, sollecita al dolore degli altri, sensibile, profonda alla quale vuole condurci. Per fortuna invia ancora una volta Mosè in questo mercoledì delle ceneri a proporci il dono della Quaresima, tempo dell’esodo dall’Egitto per incamminarci verso la terra promessa.
L’esodo è uscire dalla vita di sempre. Gli israeliti aprono gli occhi sulla propria schiavitù e decidono di seguire Mosè in un viaggio difficile verso la meta della liberazione. E’ una scelta difficile, che li obbliga a lasciarsi dietro tante cose della propria vita, i propri beni, la stabilità che, nel bene e nel male, si erano costruiti in Egitto, nonostante la schiavitù.

Il mercoledì delle ceneri è anche per noi il momento della scelta. Anche noi abbiamo il nostro Mosè, che è la parola di Dio, che ci propone oggi un esodo che non è un timido affacciarsi alla finestra della nostra vita per sentire un po’ che aria tira fuori dal caldo di casa nostra. Esodo vuol dire uscire portandosi dietro il minimo indispensabile, con la certezza che nei terreni sconosciuti nei quali ci inoltreremo il Signore non ci farà mancare l’acqua, come fece con Israele a Massa e Meriba, il pane, come fece col dono della manna, il nutrimento sostanzioso, come fece con le quaglie sull’accampamento, la guida, come fece con la colonna di fuoco, la sua compagnia affettuosa e consolante, come fece con l’Arca dell’alleanza.

Siamo pronti a fare il nostro esodo dall’Egitto della vita di sempre, delle sue schiavitù, della miseria del nostro peccato per cercare con la compagnia di Dio la libertà del voler bene? Questa è la domanda che ci pone il mercoledì delle ceneri, porta che ci fa entrare nella Quaresima, e la cenere che riceviamo sul capo è il segno che vogliamo sottometterci con fiducia ed umiltà a questo bel disegno di Dio sulla nostra vita.

E’ una decisione importante e impegnativa, che ci chiede lavoro e memoria, sforzo per cambiare il nostro cuore e per rendere disponibili le nostre braccia. Come fare? Dove trovare il coraggio? Questa non è una domanda da vigliacchi, ma da gente che, umilmente, sa la misura stretta della propria generosità e la poca tenacia della propria decisione. Anche Mosè si pone lo stesso problema: “Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?»”.
Chi siamo noi?”, ci domandiamo un po’ timorosi stasera. Il Signore non lascia senza risposta Mosè, e le sue parole sono rivolte stasera a ciascuno di noi come incoraggiamento nel nostro esodo: “Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte»” Abbiamo una promessa e un segno: la promessa che non saremo mai abbandonati (Io sarò con te); il segno che come un sigillo ci rende fermi e inattaccabili, la preghiera (servirete Dio su questo monte).

Dal monte di questa preghiera questa sera rivolgiamo dunque la nostra invocazione al Signore che ha liberato Israele dalla schiavitù e l’ha condotto nella terra promessa, perché non ci scoraggiamo nel cammino del nostro esodo, perché con gli occhi aperti sulla nostra schiavitù intraprendiamo il nostro esodo, attenti alla Parola di Dio, nostro Mosè, e pronti a tornare di frequente sul monte della preghiera a servire il Signore che ci libera.
Con animo grato accogliamo allora in questo mercoledì il dono della Quaresima, tempo di decisione e di conversione del cuore, tempo opportuno per imparare a voler bene. Chiniamo il capo per ricevere nella cenere il suggello dell’umiltà e della docilità con cui Dio ci segna. E così sia.

domenica 6 marzo 2011

IX domenica del tempo ordinario – 6 marzo 2011


Dal libro del Deuteronomio 11, 18. 26-28
Mosè parlò al popolo dicendo: «Porrete nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi. Vedete, io pongo oggi davanti a voi benedizione e maledizione: la benedizione, se obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, che oggi vi do; la maledizione, se non obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, e se vi allontanerete dalla via che oggi vi prescrivo, per seguire dèi stranieri, che voi non avete conosciuto. Avrete cura di mettere in pratica tutte le leggi e le norme che oggi io pongo dinanzi a voi».

Salmo 30 - Sei tu, Signore, roccia di rifugio.
In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò deluso;
difendimi per la tua giustizia.
Tendi a me il tuo orecchio,
vieni presto a liberarmi.

Sii per me una roccia di rifugio,
un luogo fortificato che mi salva.
Perché mia rupe e mia fortezza tu sei,
per il tuo nome guidami e conducimi.

Sul tuo servo fa’ splendere il tuo volto,
salvami per la tua misericordia.
Siate forti, rendete saldo il vostro cuore,
voi tutti che sperate nel Signore.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 3, 21-25a. 28
Fratelli, ora, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge.

Alleluia, alleluia alleluia.
Io sono la vite, voi i tralci,
chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto.
Alleluia, alleluia alleluia.

Dal vangelo secondo Matteo 7, 21-27
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi? Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”. Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande».

Commento

Cari fratelli e care sorelle, concludiamo oggi con questa domenica il tempo ordinario e mercoledì prossimo si aprirà, con il rito austero e solenne dell’imposizione delle ceneri, il tempo santo della Quaresima. Il Vangelo che abbiamo ascoltato oggi In qualche modo ci prepara ad accogliere il dono della Quaresima che è occasione per edificare in sé un’umanità rinnovata e purificata da tante scorie per vivere nel modo migliore la Santa settimana di Passione, morte e Resurrezione di Gesù.

Il Vangelo di Matteo contiene una frase un po’ sconcertante. Gesù infatti dice: “Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.” Chi si salverà, ci chiediamo stupiti, se persino chi ha compiuto tali cose straordinarie viene giudicato indegno dal Signore? Addirittura chi non solo è stato onesto, giusto, ha osservato i comandamenti, ma anzi ha fatto anche qualcosa di più del dovuto, come compiere miracoli e cacciare demoni. A noi sembra già molto, ma al Signore non basta. Cosa ci vorrà di più?

Cari fratelli e care sorelle, non credo che il Signore voglia dire con quelle sue parole che pretende chissà cosa dagli uomini per accoglierli presso di sé nel regno, che ci sono chieste chissà quali straordinarie imprese o capacità. Infatti, paradossalmente, Gesù continua il suo discorso portando come esempio di uomo saggio e degno del suo regno quello che costruisce una casa. Un’impresa, se vogliamo, molto meno straordinaria di quelle elencate poco prima. Credo che sia proprio questo quello che il Signore vuole dirci oggi e cioè che la nostra salvezza, la felicità e la serenità che tanto cerchiamo, il regno della vita vera con il Signore non si conquista con un grande slancio, un gesto eccezionale, ma con una costruzione lenta, paziente e attenta di una casa. E il tempo di Quaresima è un tempo opportuno perché iniziamo questa costruzione, tempo di grazia e di vicinanza particolare del Signore a noi.

L’idea di costruire pazientemente però ci risulta un po’ estranea. Noi siamo gente abituata a trovare tutto pronto. Siamo in un’epoca di consumismo, domina l’usa e getta, le cose già belle e fatte, che basta comprare già pronte per essere usate e consumate a nostro piacimento e quando poi non ci servono più si buttano via. Anche nella vita siamo così. I rapporti umani, le amicizie, gli amori, ci piacciono facili, immediati, se bisogna fare troppa fatica non fanno per noi. Alla prima difficoltà poi si gettano via come cose inutili di cui disfarsi. Nel matrimonio o nel fidanzamento si cerca il colpo di fulmine, l’intesa immediata e spontanea, ma poi, alla prima difficoltà, è tutto finito e prevalgono le amarezze, le rivalse, l’odio. Anche fra amici o fra colleghi si cerca chi mi va a genio, chi mi è utile, chi è affine ai miei interessi, poi domani si vedrà, tutto cambia dalla sera alla mattina.

Anche noi dunque siamo come quegli uomini di cui parla il Signore: a parole pronti a slanci e grandi gesti, ma poi nei fatti non disposti a costruire pazientemente. È faticoso costruire, meglio prendere quello che ci va bene così come è e gettare quello che non ci piace più.

Fratelli e sorelle il Signore ci mette in guardia da un atteggiamento consumista ed egocentrico. Alla prima difficoltà, al primo vento, alla prima pioggia tutto il castello della vita crolla, se non lo abbiamo costruito solidamente, e ci ritroviamo soli, senza speranza, senza riparo dal gelo del mondo. E’ quello che vediamo così spesso avvenire: quanti si ritrovano soli, magari avanti negli anni, senza niente di solido su cui poggiare, dopo aver passato una vita a poggiarsi solo su se stessi e a “usare e gettare” tutti quelli con cui si è venuto a contatto. Il Signore ci mette in guardia: “prima che sia troppo tardi comincia anche tu a costruire” ci dice con la parabola ascoltata e ci dona il tempo di Quaresima per impegnarci con maggior cura a questa santa fatica. Anzi fa ancora di più: non solo ci invita a costruire, ma ci offre le fondamenta già pronte e solide, che sono la roccia della sua Parola, un materiale particolarmente buono per costruire, che è fare la volontà di Dio, e chiede a noi solo di lavorare a mettere con pazienza e fatica una sull’altra le pietre di una nuova costruzione. E’ questa infatti, una volta tirata su, che ci permetterà di vivere al riparo dei venti cattivi, di poter affrontare con serenità il futuro senza paura, e di lasciare a quelli che verranno una vera eredità duratura.

Ci chiediamo allora oggi come è questo edificio che ci è chiesto di costruire?

Abbiamo voluto mettere qui al centro l’icona della casa fondata sulla roccia che sta solitamente sull’altare laterale. Si vede bene qui la differenza fra la costruzione frutto del lavoro secondo il vangelo e quella invece costruita con la logica di questo mondo, consumista e fondata sulla sabbia del proprio io. La casa in alto è ampia, piena di finestre e porte, ha molte stanze, è decorata ed elegante. Cioè è una vita aperta a tutti, capace di accogliere, di dare riparo a chi è senza tetto, decorata dalla bellezza di una umanità misericordiosa, generosa, mite. Al centro di questa casa c’è la bibbia aperta, cioè letta e ascoltata. La roccia su cui è fondata è il vangelo vissuto da persone di ogni età, giovani, adulti e anziani, uomini e donne, cioè da tutti e si esprime nella preghiera, nella solidarietà con i poveri e nell’amore fraterno. L’altra casa invece è come una fortezza, chiusa, senza finestre, la prigione individualista dell’io, e proprio per questo instabile e piena di crepe, pronta a cadere alla prima avversità. Quale è la casa che noi vogliamo costruire? Che materiali e che fondamento vogliamo usare?

Nel libro del Deuteronomio abbiamo udito Mosè dire al popolo che la Parola di Dio può essere una benedizione e una maledizione. Dipende da noi. Se accogliamo l’invito di metterla in pratica, e cioè di costruire su di essa l’edificio della nostra vita riceveremo la benedizione di una vita felice, ma se preferiremo fondarci su noi stessi, consumisti dei rapporti, prepotenti e capricciosi come chi è interessato solo a se stesso, l’edificio si abbatterà su di noi e sarà rovina grande. Per questi ultimi la Parola diviene una maledizione, perché pur avendola ascoltata l’hanno rifiutata, pur conoscendola hanno preferito costruire su altro fondamento e con altro materiale. Non sia così per noi, che non ci ritroviamo al termine della nostra vita ad assistere alla rovina di quello che abbiamo malamente messo su alla meno peggio. Allora sì la nostra vita sarà segnata dalla maledizione perché potevamo ma non abbiamo voluto. Scegliamo piuttosto la via della costruzione paziente della casa del Signore, edificio solido, perché costruito con il cemento dell’amore evangelico e i mattoni dei tanti fratelli e sorelle a cui possiamo voler bene. La Quaresima è tempo opportuno per farlo, in compagnia con la Scrittura, dei poveri e dei fratelli che come noi si incamminano verso la Pasqua di Resurrezione.

Preghiere

O Signore nostro Gesù, aiutaci nel tempo che viene a farci costruttori attenti e pazienti di una vita più umana e misericordiosa, perché possiamo assomigliare a te che sei mite e umile di cuore.
Noi ti preghiamo

O Dio Padre del cielo, fa’ della nostra vita una casa grande e accogliente, perché vi trovino spazio la preoccupazione per l’altro e l’amore per i poveri.
Noi ti preghiamo

Ti invochiamo o Dio, perdona la fretta e la superficialità con cui spesso guardiamo ai nostri fratelli e sorelle, senza la pazienza di costruire con loro un rapporto di sincera amicizia. Fa’ che sul tuo esempio fondiamo ogni nostro giudizio e ogni nostra azione sulla base solida del Vangelo.
Noi ti preghiamo

Senza il tuo aiuto, O Signore, ogni lavoro è vano e ogni sforzo inutile. Accompagna con la benedizione del tuo amore la nostra fatica di costruirci discepoli obbedienti e attenti alla voce della tua Parola.
Noi ti preghiamo

Guida e fortifica o Dio quanti faticano perché il tuo Vangelo sia conosciuto ed amato nel mondo. In modo particolare ti preghiamo per quanti operano per la giustizia, anche col dono della loro vita, come Shabaz Bhatti del Pakistan. Accoglilo nel tuo abbraccio e proteggi i cristiani perseguitati nel suo paese.
Noi ti preghiamo

Guarda con amore o Padre misericordioso quanti si impegnano per i poveri: benedici i loro sforzi e fa’ che diano sempre frutti buoni di pace e salvezza.
Noi ti preghiamo.

Fa’ cessare o Dio la violenza in Libia e negli altri paesi in cui divampa la guerra. Solleva chi è ferito e nel dolore, accogli nel tuo amore chi è morto, dona a tutti la pace.
Noi ti preghiamo

Sostieni o Dio il papa che presto incontreremo nel pellegrinaggio a Roma. Fa’ che il suo impegno per il bene degli uomini aiuti tutti a conoscerti meglio.
Noi ti preghiamo