La primavera araba:
quale futuro per l’Islam
del Mediterraneo
Il titolo stesso di
questo nostro incontro ci porta a riflettere per comprendere quale sia il rapporto
tra primavera araba e Islam. E ancora ci chiediamo se essa (la primavera) stia
avendo un impatto non solo sui paesi del Medio Oriente ma anche su quelli della
sponda Nord del Mediterraneo.
La risposta alla
seconda domanda è certamente affermativa e basti pensare al ruolo della Francia
e dell’Italia nella rivoluzioni libica ma anche al possibile collegamento tra
le proteste degli “indignados” e quelle dei giovani di piazza Tahrir.
La prima domanda –
Islam e Primavera – è assai più insidiosa e per provare a dare una risposta ai
nostri interrogativi mi sembra necessario ripartire dagli avvenimenti. La
primavera araba sta per “compiere” il suo primo anno di storia. Il 17 dicembre
2010 nella città di Sidi Bouzid (250 Km a sud di Tunisi) si è verificato il
gesto disperato di Mohamed Bouazizi (17 dicembre 2010), l'ambulante che si è
dato alla fiamme davanti al palazzo governativo. Quel gesto ha prodotto, in
maniera inattesa, improvvisa una serie di avvenimenti che oggi non si sono
ancora conclusi. Gli sviluppi della primavera araba preoccupano molti
osservatori internazionali e i leader delle comunità cristiane d’Oriente che
ormai esternano pubblicamente i loro timori di una deriva islamica nel nuovo
Medio Oriente. Si parla sempre più spesso di “primavera islamica” o di “estate islamica
e inverno cristiano”. Ma a prescindere da questi slogan o da questi timori su
cui ci soffermeremo nella seconda parte di questa nostra conversazione,
vogliamo, innanzitutto, ripercorrere le date di questa grande rivolta popolare.
La primavera araba:
paesi, fatti e cronologia
Tunisia
Dopo la partenza del
ex-presidente (dittatore) Ben Ali, dal 14 gennaio la Tunisia è guidata da governi
ad interim. L'attuale primo ministo è Beji Caid Es-Sebsi (82enne, in carica da
febbraio) già ministro degli esteri con Bourguiba. Tra gli atti immediati del
governo Sebsi c'è stato l'immediato scioglimento della polizia segreta che
aveva svolto un ruolo importante nel sopprimere il dissenso politico sotto il
regime di Ben Ali. L’economia del Paese è ancora in stallo. Il turismo - tra le
principali attività produttive, che vale il 6,8% del Pil e dà lavoro a una
persona su cinque - è ancora fermo, dopo un crollo di quasi il 50% dopo i primi
sei mesi del 2011. I disoccupati nel Paese sono circa 700 mila, ovvero il 16%
della forza lavoro. Ma nelle zone rurali, più lontane dalla costa, sono il 30%,
in particolare giovani tra i 20 e i 25 anni. Nella città di Sidi Bouzid (250 Km
a sud di Tunisi) dove si è verificato il gesto disperato di Mohamed Bouazizi la
disoccupazione è addirittura al 48%. Le elezioni del 23 ottobre 2011 porteranno
alla creazione di un'assemblea costituente per aprire la strada a successive
elezioni legislative e presidenziali. Su 217 membri dell'assemblea 177 appartengono
a uno dei 5 partiti principali ovvero: Il partito izb al Nahdah, al primo posto
in termini di familiarità ha ottenuto Ḥ ‐
90 seggi. Rashid al- Ghannushi, è stato il fondatore nel 1981 del Ḥizb al‐Nahdah (Partito della
Rinascita, di tendenza islamista) insieme ad Abdelfattah Mourou, ed è tra i
leader più noti. Nel 1991 il partito fu dichiarato fuori legge dal presidente
Ben Ali, sotto l'accusa di aver fomentato il rovesciamento violento delle istituzioni.
Ghannushi fu quindi costretto a riparare nel Regno Unito, nella cui capitale ha
a lungo vissuto e operato. Moncef Marzouki è l’altro leader tunisino rientrato
dopo la rivoluzione, ed è tra i fondatori della LTDH (Lega Tunisina per i
diritti umani) e del Congrès pour la république (CPR) che ha ottenuto 30 seggi
alle elezioni. Il CPR è un partito laico socialista come il partito denominato
Ettakatol (FDTL - Mustapha Ben Jaafar) che ha conquistato 21 seggi (Democratic
Forum for Labour and Liberties) (Arabic: التكتل الديمقراطي من أجل العمل والحريات
, at-Takattul ad-Dīmuqrāṭī min ajl il-‘Amal walḤurriyyāt) Gli altri partiti
rilevanti sono stati Pétition populaire o Aridha Chaabia (Hechmi Hamdi di Sidi Bouzid
dove ci sono stati gli scontri recenti) [19] e il Parti démocrate progressiste
(PDP - Ahmed Najib Chebbi) [17].
Egitto
I 18 giorni di
manifestazioni che, a partire dal 25 gennaio 2011, hanno portato alla caduta
del regime di Hosni Mubarak hanno aperto per l’Egitto scenari nuovi e
inaspettati dopo un trentennio di regime. Dopo le dimissioni di Mubarak, l’11
febbraio, le funzioni della presidenza sono state assunte ad interim da un consiglio
di militari, guidato dal comandante in capo delle forze armate dal 1991,
Mohammed Hussein Tantawi, ex ministro della difesa di Mubarak. Egli si è
guadagnato un certo consenso poiché ha contrastato l’ordine di attaccare i
manifestanti nei giorni delle manifestazioni di piazza. Da allora il paese si è
avviato verso il cambiamento degli assetti istituzionali, con un referendum che
in marzo ha aperto la strada alle prossime elezioni parlamentari previste per
novembre, cui seguiranno le elezioni presidenziali. I giovani, e con loro, i
partiti di tendenza laica, tra i protagonisti delle giornate in piazza Tahrir
(Liberazione) temono che il risultato ottenuto dalla piazza venga stravolto da
un lato, dai militari che hanno di fatto il controllo del paese, dall’altro
dalle correnti islamiche più conservatrici (salafiti). La piazza ha mostrato la
fecondità dell’incontro tra correnti diverse, movimenti religiosi e laici, musulmani
e cristiani, potevano essere uniti in un unico e alto obiettivo, quello di
immaginare un futuro diverso per il proprio paese. È quello che testimoniano i
racconti entusiastici dei protagonisti della piazza, di ogni corrente. Uno dei
principali obiettivi dei movimenti giovanili e dei raggruppamenti nuovi o della
vecchia opposizione, è quello di fissare alcuni principi basici su cui chiedere
l’accordo a tutti coloro che saranno chiamati a rappresentare il paese in
parlamento. Una sorta di patto pre-elettorale che dovrebbe garantire l’osservanza
dei principi democratici di fondo da iscrivere nella nuova costituzione.
Proprio sui principi di
fondo, come è naturale che sia, si è sviluppato il dibattito dei mesi post
rivoluzionari che hanno visto anzi tutto l’emersione di tanti nuovi e vecchi
partiti, usciti dalla clandestinità. Dal punto di vista politico, i maggiori
temi di discussione sono: il sistema democratico, la politica economica, i
rapporti internazionali. Su questi temi si stanno presentando anche i candidati
alle elezioni presidenziali, il cui numero sfiora la trentina, appartenenti
alle varie anime della comunità nazionale: laici di sinistra, partiti storici
di opposizione come il Wafd e il Tagammu, il leader del movimento Ghad
(domani), perseguitato dall’ex regime, indipendenti e nomi illustri della
politica egiziana, come Amr Mousa, dato per favorito, o El Baradai, il
viennese, poco popolare nel paese. Da segnalare la candidatura di un leader
della Fratellanza Musulmana, che ha fondato un suo partito, ma ha optato per
non presentare un proprio candidato alle presidenziali. Abu’l Futuh, leader del
sindacato dei medici egiziani, per questa sua decisione è stato espulso dalla
fratellanza. Dal punto di vista economico, il paese soffre una profonda
depressione dovuta al ristagno delle sue attività dopo la rivoluzione e alla
caduta del turismo.
Il vecchio sistema
soffriva per gli enormi squilibri economici tra ricchi e poveri, per la
mancanza di opportunità lavorative e per il ristagno del settore pubblico.
Tutto ciò sta provocando una grave crisi per la maggioranza dei cittadini egiziani.
Libia
Il 15 febbraio scorso è
sorto in Libia il movimento che portato alla fine della “Grande Jamhiriya”. Le
manifestazione contro il regime di febbraio sono state contrastate con violenti
repressioni a Bengasi e Al Baida (est). Dai primi giorni della rivolta i
minsitri della Giustizia, Mustapha Abdel Jalil, e dell'Interno, Abdel Fatah
Younes, si uniscono alla rivolta. Decine di rappresentanti politici e militari faranno
lo stesso. Il 10 marzo la Francia è il primo Paese a riconoscere il consiglio
nazionale di transizione (CNT), creato a fine febbraio dall'opposizione a
Bengasi; il 17 marzo l'Onu autorizza un ricorso alla forza contro le truppe
fedeli al colonnello per proteggere i civili. Il 15 luglio il gruppo di
contatto, guida politica dell'intervento “alleato” riconosce il CNT ''autorità governativa
legittima''. Il 20: agosto scoppia la ribellione su Tripoli con l'appoggio
aereo della Nato. Il 23 agosto viene conquistato il bunker del colonnello
Gheddafi a Bab al-Aziziya, mentre da piu' parti lo danno in fuga. Il 15
settembre Nicolas Sarkozy e David Cameron vanno in Libia e il 16: l'Onu
riconosce il CNT. Dopo le sanguinose battaglie di Sirte e Beni Walid, il 20
ottobre il colonnello Gheddafi viene catturato e ucciso. Sirte, ultimo bastione
del regime, viene liberata. Il 31 ottobre in seguito alle dimissioni di Ma m d
Jibr l è stato ḥ ū ī nominato primo ministro Abdurrahim Khaled Abdulhafiz
El-Keib. Il CNT si sta impegnando per dar vita alla nascita di un nuovo
congresso nazionale (parlamento) entro otto mesi, e a indire elezioni
multipartitiche in Libia nel 2013.
Syria, Yemen e Bahrein
La primavera araba ha
toccato altri paesi del Medio Oriente, alcuni li ha appena sfiorati come l’Algeria
o l’Arabia Saudita, altri le ha toccati debolmente come il Marocco e la
Giordania e altri ancora li ha interessati direttamente anche se i nostri mass
media ne parlano con diverse tonalità anche perché si tratta di situazioni
ancora confuse o non concluse. Dal 15 marzo, il regime del presidente Bashar
al-Assad ha affrontato un movimento di protesta in tutto il paese. Almeno 3.500
persone sono state uccise in Siria dall’inizio della rivolta, secondo le ultime
stime delle Nazioni Unite. E’ difficile, tuttavia, avere notizie certe dato che
la stampa internazionale è stata espulsa dal paese e, prima di tutte, la
televisione satellitare “Al Jazeera” una grande protagonista delle rivolte in
Egitto, Tunisia e Libia. Il governo sembra avere ignorato l’accordo fatto con la
Lega Araba lo scorso mercoledì 2 novembre, di ritirare le truppe e soldati
dalle strade, di permettere l’ingresso nel paese a osservatori stranieri e ai
media internazionali. Nello Yemen, un movimento di protesta importante è stato
lanciato il 27 gennaio per chiedere la cacciata del presidente Ali Abdullah
Saleh, al potere dal 1978. Il regime è attualmente sempre più indebolito per le
defezioni nell'esercito, ma Saleh rifiuta di dimettersi. Lo Yemen sembra
scivolare nel caos dopo mesi di proteste antigovernative e crescenti tensioni.
Il rischio è che un conflitto prolungato si trasformi in una guerra civile
incontrollabile un po’ com’è avvenuto in Libia. Saleh sta guardando ciò che è
accaduto a Hosni Mubarak in Egitto e vuole evitare la stessa sorte. Anche se
non sarà presidente per un altro mandato vorrebbe evitare di rimanere ostaggio
del caos. Con un paese pieno di armi e molte fazioni in competizione, ci deve
essere un chiaro senso di come potrà essere la transizione. Inoltre, i problemi
dello Yemen non saranno magicamente risolti con le dimissioni di Saleh. La
situazione è molto complicata. Infine da metà febbraio a metà marzo il Bahrain
ha assistito al movimento di protesta che chiedeva riforme politiche. L'Arabia
Saudita a metà marzo ha inviato truppe per soffocare le proteste. Circa 30
persone vengono uccise durante la repressione. Nonostante la diminuzione delle
proteste di massa, le tensioni rimangono alte, com’è provato dalle proteste di
decine di esponenti dell'opposizione e manifestanti continuano nella capitale.
Proteste pacifiche,
guerre civili e situazioni sospese
Riflettendo sugli
avvenimenti di questi ultimi undici mesi è evidente che essi hanno suscitato,
in Europa e non solo, sentimenti diversi: attesa, emozione, timore, speranza,
preoccupazione. Io vorrei cominciare dai sentimenti positivi e direi che c’è
stata una passione di chi non ha paura del futuro. C’è un passo da compiere nel
proprio cuore, è il passo di chi non ha paura di perdere qualcosa, non ha paura
di avanzare pacificamente ed è il passo della democrazia. E’ quello che ha
raccontato al recente incontro internazionale di Monaco Ramy Shaath (figlio del
più celebre negoziatore palestinese, Nabil) che dopo aver tenuto contatti con dei
suoi amici grazie a Tweeter ed aver girovagato peri i vicoli del Cairo per
evitare di essere fermato dalla polizia si era dato appuntamento con qualcuno
in piazza Tahrir un giorno di fine gennaio del 2011.
Pensava di incontrare
poco decine di “amici” e si è trovato davanti a una piazza pacifica e strapiena
di persone: non erano “fratelli musulmani” o “salafiti” ma donne e uomini,
moltissimi giovani come lui, cristiani e musulmani senza differenze. La chiesa
copta, le sue gerarchie, era preoccupata perché Mubarak con tutti i suoi
difetti era comunque una garanzia. Il grande Sheikh di Al Azhar aveva scelto
una posizione defilata e i grandi predicatori si sono trovati spiazzati da un
movimento giovane ed entusiasta. Questa è stata la primavera araba al suo inizio,
dopo il tragico gesto di Mohamed Bouazizi, morto a Tunisi a soli 27 anni, lui
che pur avendo studiato volgeva l'attività di venditore ambulante abusivo di frutta
e verdura nella città di Sidi Bouzid (a 250 Km dalla capitale). Il 17 dicembre
2010 la polizia gli confisca tutte le merci, apparentemente perché privo dei
permessi necessari per la vendita ambulante e che dopo aver protestato
inutilmente per avere indietro la mercanzia sequestrata acquista una tanica di
benzina e si dà fuoco di fronte al palazzo del governatore locale. La primavera
è cominciata dai giovani come la 32enne attivista yemenita Tawakkul Karman,
quasi sconosciuta in occidente fino a quando e stata insignita del premio Nobel
per la pace con la seguente motivazione: "per la sua lotta non violenta
per la tutela delle donne e per la salvaguardia del diritto delle donne di una
piena partecipazione nella costruzione della pace ". La primavera araba ha
prodotto, inconsapevolmente, dei frutti amari. Le immagini tragiche e violente
della morte di un dittatore come Gheddafi hanno fatto riflettere molte persone
come noi sul percorso intrapreso dagli eventi. La repressione in Siria, che
continua a fare vittime, ci pone crescenti interrogativi sul futuro di quel
paese e anche dei cristiani (ancora numerosi) che lo abitano. Le rivolte che
hanno caratterizzato la Tunisia e l’Egitto sono state pacifiche; quello che è avvenuto
in seguito, negli altri paesi, è stato molto meno pacifico. Non possiamo sapere
cosa si nasconda dietro le pieghe della storia dopo la primavera araba come non
eravamo in grado di prevedere cosa sarebbe successo dopo gli avvenimenti del
1989 anch’essi segnati da grandi manifestazioni pacifiche ma anche da episodi tragici
e violenti come la morte di Nicolae Ceau escu. Il 25 dicembre 1989 i coniugi
Ceau escu furono giudicati ș ș colpevoli dopo un processo sommario e condannati
a morte. La loro esecuzione fu effettuata alcuni minuti dopo la pronuncia della
sentenza. Nonostante quella tragica esecuzione nel 1989 ci sentivamo tutti
europei, ci sentivamo tutti parte della festa alla porta di Brandeburgo. Mi
sono chiesto durante quest’anno se anche io sarei sceso in piazza, se, da
egiziano, mi sarei ritrovato in piazza Tahrir o se, in fondo, la primavera
araba sia stata solo la scelta entusiasta di Ramy, la scelta coraggiosa di
Tawakkul, la scelta disperata di Mohammed e loro, in fondo, sono diversi da
noi, lontani anche nel nostro mondo globalizzato.
Quale futuro per il cristianesimo
del Mediterraneo?
Vorrei concludere con
la domanda inversa al titolo di questo nostro incontro: quale futuro per il cristianesimo
del Mediterraneo? Ha scritto di recente Hisham Matar, scrittore libanese: “La
primavera araba è una reazione, potente ed esemplare, non solo all’epoca dei
tiranni ma anche a quello che rimane dell’influenza imperiale. L'esito finale
delle nostre rivoluzioni – ammesso che la storia conosca esiti finali – è
ancora incerto. Potremmo non riuscire a costruire un futuro migliore. Ma
nessuno può mettere in dubbio l’autenticità del nostro desiderio, o quanto
siamo disposti a sacrificare pur di conquistare l’autodeterminazione, la
dignità e la giustizia”. Cristiani e musulmani egiziani hanno espresso in
piazza Tahrir una grande domanda. Io vorrei fidarmi di te. Posso? Questa
domanda ha attraversato in maniera potente la società egiziana. Questa domanda
interroga anche le nostre coscienze e ci chiede comunque di non dimettere mai dei
sentimenti di fiducia e simpatia nei confronti di quanti hanno voluto una
primavera che sta fiorendo (il 90% dei tunisini hanno partecipato
democraticamente a elezioni libere) pur tra alcune ombre e ambiguità come molti
avvenimenti della storia.
Andrea Riccardi, il
fondatore della Comunità di Sant’Egidio al termine della cerimonia di consegna del
premio “Carlo Magno” ad Aquisgrana nel 2009 si esprimeva con delle parole che
non sono molto lontane da quelle che stanno animando la primavera araba. Dobbiamo
assaltare il palazzo del potere, quello dell’Europa. Non con la violenza, ma
assaltarlo con la passione europea e le idee. Per aiutare i governanti a
guardare oltre e sognare un’Europa dei popoli e che gli europei siano popolo. C’è
fretta. L’accelerazione verrà anche dalla volontà dei cittadini, che debbono
prendere tener alta la visione europea. Le visioni sono icone di speranza. Aiutano
a vedere la speranza, suscitano la passione del futuro. Molto possiamo noi,
europei della strada. Come diceva il grande Hillel, maestro ebraico del tempo
di Gesù: “quando mancano gli uomini, sforzati tu di essere uomo!”.
Bisogna pensare, anche
nel quadro degli avvenimenti del 2011, ad un nuovo modo di essere nella storia
del mondo. “Se soffre per mancanza di visione –deve allora aprirsi la strada
fra i segni…”- scriveva Giovanni Paolo II. Non è un segno la domanda di
democrazia che viene da tante parti del mondo?
Sebbene l’appartenenza
religiosa può costituire la retorica con cui i conflitti vengono rappresentati,
dopo l’11 settembre 2001, al livello globale, si assiste a un inedito tentativo
delle grandi religioni di dialogare in una prospettiva di comprensione
reciproca e di costruzione della pace. Vorrei ricordare, a tal riguardo, lo
storico incontro di Assisi voluto dal beato Giovanni Paolo II nel 1986 e del
quale abbiamo celebrato quest’anno il 25 anniversario con il papa Benedetto
XVI.
Quell’incontro,
replicato annualmente e fedelmente in tante grandi città dell’Europa e non
solo, è stato ed è un segno che anche le religioni possono vivere nel confronto
o forse, per usare un linguaggio diverso, una democrazia del convivere.
Federico Di Leo
Una riflessione cristiana sulla primavera araba
ncontro
di questa sera si propone di riflettere su un tema che apparentemente ha poco a
che fare con noi ma che in realtà ci pone dei seri interrogativi, non solo
sociologici o politici ma anche esistenziali, cioè che riguardano il nostro
modo di concepire noi stessi, il mondo, la vita e, in ultima analisi, il nostro
essere cristiani. La nostra domanda stasera si potrebbe riassumere così: cosa
vuol dire essere cristiani dopo, o davanti, la primavera araba? Infatti,
come stiamo comprendendo sempre meglio in questi nostri incontri, la fede non è
una dimensione avulsa dalla realtà esterna, anzi per essere autentica, deve
sapersi mischiare alla vita, abbracciando un orizzonte vasto dentro il quale
pensarsi alla luce del Vangelo, immersi in una realtà mutevole piena di
interrogativi e sfide.
Imparare l’arte del convivere
In questo senso il
movimento della primavera araba ci obbliga a porci con urgenza una questione
seria, direi epocale che fino a poco tempo fa sembrava superflua: come i
cristiani devono rapportarsi a una presenza sempre più massiccia e
significativa di persone di religione diversa e, in particolare, islamica? Si
tratta di una presenza concreta, perché aumenta il numero dei musulmani che
vivono nei nostri Paesi occidentali, ma anche una presenza in un orizzonte più
vasto. Infatti il protagonismo dei popoli musulmani che hanno dato vita alla
primavera araba ci chiede di impostare con essi un nuovo rapporto diretto e
paritario: popolo con popolo, cultura con cultura, comunità con comunità, religione
con religione, senza la mediazione dei regimi più o meno repressivi che
proponevano agli Stati occidentali uno scambio reciprocamente vantaggioso:
attenuare l’identità arabo-musulmana attraverso un’occidentalizzazione dei
costumi e una repressione degli ambienti che non l’accettavano passivamente, in
cambio di buoni affari e appoggio politico.
In questi ultimi due
decenni è cambiato il nostro contesto: per la prima volta nella storia i
cristiani in Europa hanno direttamente a che fare con comunità religiose
strutturate e portatrici di un’identità forte. Prima avevamo a che fare solo
gli ebrei, ma la loro presenza non costituiva un problema, per il loro numero
esiguo e per le misure già sperimentate nei secoli di “contenimento” e “separazione”.
Pensiamo ai ghetti nei quali gli ebrei sono stati costretti a vivere,
l’interdizione di certe professioni, misure che spiegano anche la facilità con
cui si è potuta perpetrare la feroce persecuzione durante l’ultima guerra
mondiale che mirava all’annientamento di tutto il popolo ebraico in Europa,
abituato da secoli ad essere subalterno e isolato. Inoltre la fede ebraica non
ha un atteggiamento proselitistico, essendo l’identità ebraica strettamente
legata a quella etnica: si è ebrei perché parte del popolo Israelita, i
convertiti sono assai rari. E poi gli ebrei in secoli di convivenza hanno
assimilato la civiltà dei paesi in cui si sono radicati, limitando la loro
diversità all’ambito strettamente religioso.
L’islam
invece no: si presenta a noi con il volto di una cultura diversa, di una fede
che, come anche il cristianesimo, ha la pretesa di fare proseliti, di un forte
senso identitario e comunitario che non si fa “diluire” nell’anonimato delle
nostre società occidentali. Ha una letteratura, un’arte, un diritto, che
pretende di influenzare i contesti in cui viene a inserirsi. Tutto ciò suscita
problemi e timori.
La scorciatoia più facile: lo
stereotipo
Come si è
caratterizzato l’atteggiamento delle nostre società europee finora?
In Occidente negli
ultimi decenni si sono consolidate alcune immagini stereotipate dei musulmani.
I mass media e alcuni intellettuali hanno costruito degli stereotipi molto
semplificati, e per questo di facile diffusione televisiva e di presa sulle
masse, secondo i quali alle società musulmane, nonché ai singoli islamici, sono
stati attribuiti comportamenti e caratteristiche che li caratterizzerebbero
indistintamente, quasi un diverso codice genetico. Gli elementi principali sono:
·
oscurantismo e arretratezza culturale;
·
normalità, anzi “sacralità” dell’uso
della violenza a fini politici e religiosi (la nota “guerra santa” e gli
“sgozzamenti rituali”);
·
un’aggressività connaturata al credo
musulmano;
·
intolleranza e integralismo religiosi
come carattere ordinario dell’islam;
·
tendenza a ingannare mostrando un volto
tollerante al fine di nascondere la presunta vera anima aggressiva;
·
rifiuto viscerale di tutto ciò che è
cultura occidentale;
·
tendenza ad un certo isolazionismo;
·
disprezzo della donna; ecc…
E' vero, esistono in
alcuni ambienti islamici tali tendenze, ma compiere delle arbitrarie
generalizzazioni non ha aiutato certamente ad avere una visione più chiara e
realistica della realtà.
Anche perché nel
variegato universo cristiano si possono trovare esempi altrettanto calzanti per
ognuno degli aspetti su elencati:
·
l’ultracoservatorismo di certe comunità neoprotestanti
fondamentaliste che rifiutano ad esempio l’uso dell’elettricità o della
tecnologia perché non presenti nella Bibbia;
·
senza giungere fino alle crociate,
pensiamo all’uso del terrorismo come strumento politico di affermazione della
comunità cattolica contro quella anglicana in Nord Irlanda, o della tortura da
parte dell’ultracattolico regime franchista, per non parlare dello schiavismo e
all’apartheid, praticati fino a pochi decenni fa in Paesi cristianissimi (USA;
Sud Africa; ecc..);
·
l’aggressività culturale e sociale del
colonialismo e neocolonialismo economico della globalizzazione operato da parte
di nazioni cristiane, o i movimenti neo-nazi antislamici che hanno larga
diffusione in Olanda, Ungheria e Francia ; ecc…
Ma la presenza di
questi elementi non ci porta a dire che il cristianesimo è religione della
violenza e del fanatismo.
Per il mondo musulmano invece
si è preferito deliberatamente costruire una caricatura da sbandierata ad ogni
occasione: in televisione, nei dibattiti pubblici, nella politica (vedi ad
esempio la Lega e la Svizzera e il loro rifiuto alla costruzione delle moschee
o addirittura dei negozi che vendono cibo dei paesi musulmani, il kebab). Ma
qual che è più grave è che purtroppo questo meccanismo ha coinvolto anche tanti
cristiani che vedevano in questa demonizzazione del musulmano un motivo per il
rafforzamento, nelle società occidentali, di un’ identità collettiva che
facesse riemergere il suo carattere intrinsecamente cristiano. Ma che cristianesimo
possono evocare le identità che si nutrono di intolleranza per chi è diverso da
sé e che si rafforzano nell’essere “contro” qualcun’altro?
Hanno
avuto dunque buon gioco i cosiddetti “atei devoti” (i Giuliano Ferrara, Oriana
Fallaci, Eugenio Scalfari, ecc…) che pur non essendo cristiani, ed anzi
professandosi apertamente atei, appoggiano la polemica antimusulmana
utilizzando strumentalmente le “radici cristiane” della civiltà occidentale,
fino a renderle una specie di decorazione del loro mondo salottiero: la
bellezza del suono delle campane, l’architettura sacra, il senso rassicurante
della cultura contadina, ecc… Tutte cose che hanno molto poco a che vedere con
un Vangelo incarnato nel mondo di oggi, e per questo inoffensive e accettate
senza problema.
Gli schemi non funzionano più
I fatti che sono
avvenuti e che ancora sono in corso nel mondo arabo hanno del tutto sparigliato
le carte di questo gioco di schemini semplificati preconfezionati. Infatti:
·
I giovani musulmani si sono rivelati
assai simili ai nostri giovani occidentali, con un diffuso uso di internet,
Twitter, Facebook: seguono le stesse mode ed hanno gli stessi loro modelli
culturali di massa (consumismo, televisione, aspirazione al benessere, ecc…);
·
Le loro rivendicazioni non sono per una
società oscurantista e arretrata, piena di divieti e per un ritorno al passato,
ma hanno aspirazioni democratiche e di libertà, voglia di un futuro migliore;
·
Il loro comportamento in piazza Tahrir
(al centro del Cairo) non aveva nulla della rozzezza primitiva del trucido
fanatico musulmano con la spada in una mano e il Corano nell’altra: le uniche
loro armi erano striscioni, slogan, resistenza passiva e pacifica, presenza e
compattezza, c’era un’atmosfera quasi di festa popolare;
·
c’era una presenza massiccia di donne,
in prima fila nello scandire slogan e mostrare striscioni.
·
La protesta ha visto assieme, mano nella
mano, giovani musulmani e cristiani, spontaneamente raccolti dal desiderio
comune di futuro. Gli striscioni dicevano “Musulmano
e cristiano, una sola mano”, oppure “Musulmani
e cristiani uniti contro il governo”.
Insomma i recenti fatti
sono stati una vera e propria sconfessione del modello stereotipato costruito
dall’Occidente, ma tutte queste carte andate in aria invece di provocare un
senso di stupita curiosità, di interesse e il tentativo di rimettere in
discussione le idee del passato ha spinto il mondo occidentale, attraverso i
media e i commentatori, in due diverse direzioni:
·
da un lato cercare di riproporre le
vecchie letture dicendo che quello che si vedeva dall'esterno era solo
un’apparenza e la realtà erano i presunti manovratori nascosti nell’ombra (ad
esempio all’inizio delle rivolte si diceva che sarebbe finita come in Iran con
l’instaurazione di un regime teocratico e oscurantista, peccato che il contesto
era completamente diverso);
·
dall’altro lato leggere la svolta
storica che stava avvenendo guardando dal buco della serratura del proprio
interesse e tornaconto: tutto ciò che stava avvenendo si involgariva in un
lamento per il paventato aumento del flusso degli immigrati, l’innalzamento del
prezzo del petrolio (dovuto alla speculazione delle compagnie occidentali che
lucrano sempre nei momenti di disordini o incertezza politica e istituzionale),
le paure nelle sue varie espressioni, le prudenze a prendere posizione delle
Cancellerie occidentali che dovevano sconfessare decenni di appoggio ai regimi
oggi abbattuti dalle piazze, ecc...
Cioè si è dimostrato
come davanti ai popoli del Nord Africa che rivendicavano con forza e
pacificamente il proprio desiderio di un futuro nuovo, più giusto e libero la
reazione dei popoli occidentali era lo spavento e la presa di distanza, senza
la minima simpatia e partecipazione, senza provare pietà per gente umiliata da
decenni di mancanza di libertà, subiti per di più con la benedizione dei nostri
Paesi.
Infatti va aggiunto che
il paranoico allarme degli analisti occidentali sul pericolo islamico visto
dietro ogni angolo ha offerto il destro ai regimi autoritari dei Paesi citati
per giustificare agli occhi dell’Occidente (USA ed Europa per primi) la loro
politica repressiva come un comodo rimedio alle nostre paure del terrorismo
fondamentalista. Con la scusa della mano pesante contro tutte le espressioni di
un islam politico e radicale (come ad esempio i Fratelli Musulmani) i Ben Ali,
Mubarak, Gheddafi, Assad, ecc… si sono garantiti l’immunità da ogni critica per
la loro negazione dei minimali diritti civili e anzi l’appoggio occidentale
alle loro politiche accentratrici del potere e degli affari nelle mani dei loro
clan familiari.
Quanto
questo gioco sia stato sporco è emerso con chiarezza dal fatto che, ad esempio,
dopo la caduta di Mubarak in Egitto il suo ministro degli interni Habib El Adly
sia stato incriminato per aver effettuato attraverso i Servizi Segreti Egiziani
l’attentato di Capodanno contro la chiesa copta Dei Santi ad Alessandria, del
quale il Governo aveva incolpato Al Quaeda.
Il fastidio per la novità e la
paura
Per concludere, mi
sembra che l’atteggiamento dell’Occidente sopra descritto riveli come un
profondo fastidio per la novità, motivato dai tanti argomenti citati: la
paura, la disabitudine ad una comprensione più approfondita delle realtà
complesse, il rifiuto della fatica di modificare il proprio quadro di
interpretazioni e giudizi già consolidati.
Ma questo atteggiamento
si pone in aperta contraddizione con i capisaldi del cristianesimo.
Nel
libro dell’Apocalisse l’apostolo Giovanni presenta la visione grandiosa del
destino dell’umanità. Egli descrive la “nuova Gerusalemme”, cioè la città
trasfigurata dalla presenza di Dio che vive assieme agli uomini, e dice:
E
vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti
erano scomparsi e il mare non c'era più. E vidi anche la città santa, la
Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per
il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal
trono e diceva:
"Ecco
la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro
ed essi
saranno suoi popoli
ed egli
sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E
asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non
vi sarà più la morte
né
lutto né lamento né affanno,
perché
le cose di prima sono passate".
E Colui
che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose".
E soggiunse: "Scrivi, perché queste parole sono certe e vere".
(Ap 21, 1-5)
Dio si presenta come
colui che rende nuove tutte le cose. La sua presenza è fonte di novità e in sua
compagnia niente resta uguale a prima. La “novità” pertanto è un concetto
teologico di grande rilevanza, è segno del rivelarsi di un oltre divino che
supera la realtà attuale. È la realtà che Dio vede “dietro” o “dentro” le cose,
le persone, le situazioni. E’ lo sguardo misericordioso e perspicace di Gesù
che non giudica sulle apparenze ma legge nei cuori e non si accontenta dei
giudizi facili ma vuole far emergere da ciascuno il meglio di sé, la novità che
porta dentro, pensiamo all’adultera che stava per essere (secondo diritto)
lapidata e invece Gesù salva dalla morte, aprendogli una nuova esistenza
perdonata (Gv 8, 10-11).
Per questo aver paura
della novità e preferire un’attitudine di conservatorismo è sicuramente
estraneo al cristianesimo.
Ma poi, se entriamo nel
dettaglio, cosa ci dà tanto fastidio e ci fa paura?
Innanzitutto la
dimensione collettiva, di popolo. Noi siamo gente
dell’individualismo e ci da fastidio l’idea che un popolo possa esprimere un
ideale collettivo e quasi sublimarsi in una dimensione che supera il me e il te
in un noi che è qualcosa di ulteriore. Ci sembra eccessivo, spersonalizzante,
pericoloso. Ma il cristianesimo è religione di un popolo: siamo il nuovo
Israele, cioè un popolo prescelto da Dio e non singole individualità, e poi la
fede richiede la dimensione collettiva che si esprime in modo pieno nella
liturgia, che letteralmente significa proprio “servizio del popolo”, e Chiesa
significa “assemblea”, riunione del popolo.
Ci spaventa poi l’immagine
di popoli giovani, ed anche per questo entusiasti e appassionati. Siamo
abituati ad un mondo di vecchi e dai sentimenti spenti e moderati.
La
nostra reazione istintiva allora deve suonare come un campanello di allarme: attenzione
a non infastidirci proprio di quegli elementi che dovrebbero essere nel corredo
genetico della nostra fede.
Costruire un nuovo rapporto
È necessario ripensare
e costruire un nuovo rapporto con una realtà nuova, o comunque che ci si
presenta davanti per la prima volta e con un nuovo protagonismo. Il confronto
con quelle che definivo come identità forti chiede proprio a noi cristiani di
essere anche noi con una forte identità cristiana, che, sull’esempio di Gesù,
non può che essere identità di incontro, amicizia, accoglienza e amore. Questa
è la nostra forza, come ci insegna San Francesco. L’ideologia del muro contro
muro sarebbe una pericolosa debolezza, perché vorrebbe dire stravolgere la
propria identità cristiana per, paradossalmente, cercare di riaffermarla. La
croce è il simbolo della mitezza e del sacrificio di Gesù, non può nelle nostre
mani diventare una clava con cui colpire gli altri.
Davanti a questi fatti
potremmo dire: “Noi che c’entriamo? sono cose lontane e non ci riguardano,
abbiamo i nostri problemi e di questi dobbiamo occuparci.” Io però credo che
nel nostro tempo la folla che cercava e chiedeva aiuto a Gesù non è solo quella
del mio quartiere o al massimo della mia città. In un mondo globalizzato la
dimensione nella quale la storia ci proietta è quella del mondo, e anche le
folle del Cairo, di Tunisi, Damasco ci interpellano. Sono persone che cercano
un futuro migliore e lo intravedono in ciò che per noi, grazie a Dio, è
scontato: libertà, democrazia, sviluppo economico e sociale. Non si può reagire
a tutto ciò richiudendosi a riccio, per paura che venga intaccato il nostro
benessere o la nostra tranquillità.
Gesù si fa interrogare
dalla folla, accetta di confrontarsi con lei anche quando questa è ostile o non
sa cosa chiedere e chiede male. Cerca di interpretare il bisogno profondo che
non sa esprimere, quello di salvezza e di un futuro nuovo. Forse anche per noi
quanto succede in Egitto e dintorni è una sfida ad essere all’altezza della
nostra vocazione cristiana che, in un tempo come il nostro, non può solo
limitarsi a guardare il cortile di casa. C’è bisogno di esprimere simpatia,
comprensione, di non giudicare e respingere, di pregare e sperare che il futuro
sia veramente nuovo e migliore per loro e anche per noi. Chi infatti non sa
farlo è condannato a vivere con un o spirito spento e vecchio, senza fame di futuro
e incapace di costruire qualcosa di buono per sé e per gli altri.
Roberto Cherubini