mercoledì 31 ottobre 2012

Festa di Tutti i Santi - 1 novembre 2012




Dal libro dell'Apocalisse di san Giovanni apostolo 7,2-4.9-14
Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

Salmo 23 - Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.

Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.

Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo 3,1-3
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

Alleluia, alleluia alleluia.
Venite a me, voi tutti affaticati e oppressi,
e io vi darò ristoro.
Alleluia, alleluia alleluia.

Dal vangelo secondo Matteo 5,1-12a
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Commento
Cari fratelli e care sorelle, abbiamo contemplato nella prima lettura la visione che Giovanni descrive nel libro dell’Apocalisse. Essa ci porta in una dimensione grandiosa, fatta di angeli che sorvolano la terra, di moltitudini immense e di segni straordinari. È una dimensione così diversa dalla piccolezza delle nostre esistenze, dagli orizzonti limitati, dalla scontatezza con cui guardiamo alla nostra vita e al mondo. Nel libro dell’Apocalisse Dio ci chiama a sollevare lo sguardo dalla modestia quotidiana per posarlo sulla dimensione definitiva e ultima del destino dell’umanità.
A prima vista questa descrizione ci suscita disagio e apprensione: non ha mezzi toni, tutto è radicalizzato, non c’è spazio per rimandare, per un’ulteriore decisione, per un appello: siamo giunti al momento decisivo, dove c’è solo luce o oscurità, senza penombra e sfumature. In fondo noi siamo uomini e donne dell’indecisione, del rimandare, della non scelta. È il modo dell’uomo moderno per dire no a Dio: non nella contrapposizione diretta ed esplicita, ma nel soprassedere, nel procrastinare, nel non sentire niente ultimativo e decisivo. Ecco che allora oggi, in questo giorno di festa di tutti i Santi, la liturgia ci richiama alla necessità di porci davanti a questa dimensione diversa, perche essa diventi anche la nostra prospettiva e l’ottica del nostro guardare alla vita.
A noi uomini del compromesso e dell’aggiustarci un tale modo di vedere ci sembra poco realistico: nella vita appare impossibile fare a meno delle sfumature e della penombra. È la reazione spontanea che abbiamo davanti alle parole delle Beatitudini. In esse ci sembra che Gesù indichi una prospettiva esagerata: la beatitudine. Non basterebbe un po’ di soddisfazione, di tranquillità e di serenità? Che bisogno c’è di ambire ad una gioia troppo grande? E poi quei paradossi evidentemente esagerati: “Beati i miti, ... Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, … Beati i misericordiosi, ... Beati i puri di cuore …
Sì, Gesù ci propone un’idea di vita, di bene e di felicità molto diversa da quella che comunemente abbiamo noi, che è accontentarsi di poco e arrangiarsi per ottenerlo.
Eppure c’è chi ha fatto sua questa prospettiva ambiziosa e la visione grandiosa dell’Apocalisse: i Santi. Il libro dell’Apocalisse ci parla di loro come una folla innumerevole di uomini e donne. Non è un gruppo sparuto di supereroi, ma un popolo molto più numeroso di quanto pensiamo. Essi appaiono vestiti di bianco con una palma fra le mani, e proclamano con la loro vita che “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”. Sono cioè coloro che hanno affidato la propria salvezza a Dio, non hanno creduto di farcela da soli né con gli stratagemmi e i mezzi di sopravvivenza che il mondo mette a disposizione.
Ma come si fa a mantenere immacolata la veste della propria vita? Il mondo è difficile e complicato,  pieno di insidie, non è impossibile mantenersi puri dallo sporco del male? L’apostolo Paolo ci dice che cosa è la purezza immacolata di quegli uomini e donne dell’Apocalisse: “Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.” Cioè la purezza non viene dal non mischiarsi con la vita per non sporcarsi, ma dall’avere “speranza in lui”cioè dal tenere fissa la bussola del nostro orientamento in Dio, convinti che da lui viene il nostro futuro, da lui viene ogni bene, a lui dobbiamo guardare per sapere quale è la strada da percorrere in mezzo al terreno accidentato e pieno di insidie della vita.
Infatti l’Apocalisse così descrive gli uomini e donne che vestono gli abiti candidi della purezza: “Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello”. Cioè sono quelli che hanno preso la vita come una lotta, si potrebbe dire, all’ultimo sangue, senza i mezzi toni di chi si aggiusta, le penombre dei compromessi, ma combattendo con fatica e impegno a tenere ferma la direzione dei propri passi verso Dio. Per questo le loro vesti sono divenute candide, perché la fiducia in lui le ha mantenute pure da ogni compromesso con lo sporco dei poteri cattivi del mondo che vogliono dominare e possedere, rendere schiave le persone con la violenza, l’arroganza, l’orgoglio, il desiderio di dominio, ecc… 
Queste persone vestite di bianco sono rimaste pulite non perché si sono tenute lontane dallo sporco del male, ma anzi perché se ne sono caricate lottando contro di esso. Non hanno evitato di compromettersi con la vita a tinte forti che spesso pone davanti a scelte difficili, ma anzi si sono immersi nel sangue della vita vera, che scorre nelle vene del mondo ancora troppo intossicato dal dolore che il male provoca e infettato da ferite sanguinanti: le guerre, le ingiustizie, le povertà, le situazioni di disperazione e abbandono. Immergendosi in quel sangue le nostre vesti tornano candide, perché siamo purificati dal dolore del mondo.
Chi invece si tiene alla larga da tutto ciò, chi si preserva dal dolore ed evita di avere a che fare con i frutti velenosi del male, apparentemente rimane immune, ma in realtà coltiva dentro di sé una distanza non colmabile dal trono dell’Altissimo da cui viene la nostra salvezza e non trova la strada per arrivare ad esso. Quel trono infatti è la croce e il Signore ha lavato le sue vesti su quel legno insanguinato e da quel trono giudica l’umanità intera. Da quel trono proclama la beatitudine di chi come lui ha preferito la mitezza, la fame e sete di giustizia, la povertà in spirito, la misericordia, il pianto, la purezza di cuore, la pace. Scegliamo anche noi le tinte forti del Vangelo, viviamo la gioia piena della beatitudine e ci manterremo puri dallo spirito di questo mondo che vuole sporcarci con la volgarità e la bassezza dei compromessi col male. Viviamo con lotta e tribolazione dentro le ferite del mondo e scopriremo che il Signore ci indicherà la via per raggiungerlo donandoci la speranza fiduciosa nel domani che abita nei cuori di chi affida  a lui la propria salvezza.

Preghiere

Aiutaci o Dio nostro Signore ad aprire gli occhi sulla visione grandiosa del destino dell’umanità, perché impariamo a non sfuggire la decisione di incamminarci verso di te,
Noi ti preghiamo

Sostieni i nostri passi nelle difficoltà della vita, perché come hanno fatto i Santi che ci hanno preceduto sappiamo lottare contro il male e tenere viva la speranza fiduciosa in Te,
Noi ti preghiamo

Perdona o Dio onnipotente tutti coloro che macchiano la propria vita con i compromessi con il male e l’orgoglio del volersi salvare da sé, fa’ che sappiamo essere tutti discepoli tuoi, o maestro di mitezza e di misericordia,
Noi ti preghiamo

Ti preghiamo o Padre per tutti coloro che con fatica e impegno lavano la propria vita nel sangue del dolore dei fratelli e delle sorelle. Benedici la loro tribolazione perché produca frutti di bene per tutta l’umanità,
Noi ti preghiamo

Insegnaci o Signore Gesù a riconoscerti Signore e Salvatore della nostra vita, perché anche noi, accostandoci al trono della tua croce, impariamo la beatitudine dell’amore per gli altri,
Noi ti preghiamo

Dona o Dio pace al mondo intero, guarisci le piaghe della violenza e argina la corrente di odio che sovrasta i popoli e le nazioni. Rendi ciascuno di noi un operatore di riconciliazione e un costruttore di comprensione,
Noi ti preghiamo.

 Ascolta o Dio il grido del povero, in modo particolare ti invochiamo per chi è malato e senza casa, per chi è umiliato dall’ingiustizia e schiacciato dal dolore. Dona a tutti guarigione e salvezza,
Noi ti preghiamo

martedì 30 ottobre 2012

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domenica 28 ottobre 2012

XXX domenica del tempo ordinario - 28 ottobre 2012


 

Dal libro del profeta Geremia 31, 7-9

Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: "Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele". Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».

 

Salmo 125 - Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Négheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni. 


Dalla lettera agli Ebrei 5, 1-6

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».

 

Alleluia, alleluia alleluia.
Cristo Gesù ha vinto la morte
e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.
Alleluia, alleluia alleluia.


Dal vangelo secondo Marco 10, 46-52

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. 

 

Commento

Il racconto evangelico ci mette di fronte ad un uomo del quale Gesù riconosce la fede. Gli dice infatti: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. Proviamo dunque a capire in cosa consiste per il Signore avere una fede che salva.

Bartimeo era un cieco, costretto dalla sua infermità a mantenersi mendicando. La sua è una situazione bloccata, senza prospettive né futuro. Eppure egli non smette di conservare, in fondo al cuore, la speranza di uscire da quel suo stato. Questo è il primo elemento che caratterizza l’uomo di fede: davanti alla realtà che sembra ormai definitivamente compromessa e ormai immutabile non smette di sperare. Spesso l’atteggiamento più comune è quello di un realismo pessimista che di fronte a situazioni difficili o bloccate non riesce a mantenere viva la speranza, ma accetta il male come normale compagno della vita dell’uomo. Ad esso bisogna rassegnarsi, si pensa, chiamando la rinuncia “realismo” o “buon senso”.

Bartimeo invece non smette di sperare nella guarigione, e proprio questo gli permette di accorgersi che Gesù sta passando, nonostante fosse “insieme a molta folla”, come sottolinea il vangelo. Quella gran confusione non gli fa maledire il fastidio di una situazione che, di certo, lui non riusciva a controllare, essendo cieco, e per questo doveva causargli non poche difficoltà. Evidentemente ha sentito parlare di Gesù, e capisce che quel suo passaggio è per lui un’opportunità da non perdere.

Chi mantiene viva la speranza che il male sia vinto coglie il passaggio di Gesù come un’opportunità da non perdere. Possiamo vedere questa visita divina nelle tante occasioni che ogni giorno ci sono offerte di vivere il Vangelo. Spesso però non solo noi siamo ciechi, perché incapaci di rendercene conto, ma ormai siamo “realisticamente” rassegnati e la confusione che crea il passaggio di Gesù ci infastidisce e ci spinge a ritrarci e attendere che tutto si calmi. Il Vangelo infatti ogni volta che ci parla suscita confusione, fa nascere tante domande, sconvolge i nostri piani e i metri di giudizio, contraddice i modi normali di pensare con una folla di pensieri e sentimenti nuovi e prima sconosciuti. Ciò infastidisce chi è soddisfatto di sé, anche se ha problemi, e ha rinunciato a cercare di stare meglio. Ma per chi invece non smette di sperare il passaggio di Gesù, cioè le occasioni che si presentano di vivere il Vangelo, sono occasione per metterci in moto e non restare bloccati.

È quello che fa Bartimeo, che si alza, grida, invoca aiuto. Per gli altri è una reazione fastidiosa e cercano di mettere a tacere il suo entusiasmo. Le ragioni della normalità, della rassegnazione, cella conservazione della realtà così come è cercano di fermare chi invece, animato dalla speranza, non vuol lasciare cadere l’occasione di vivere il Vangelo che si presenta. Tutti sconsigliano, con ragionevolezza, e provano a far tacere la voce del cieco, che però non si lascia convincere.   

A questo punto, avendo fatto Bartimeo il primo passo e invocato l’aiuto a uscire dalla propria situazione bloccata, è Gesù che fa tutto il resto: lo fa uscire dalla folla e lo invita a venire davanti a sé, lo interroga e infine risolve la sua cecità, riaprendogli lo sguardo sul mondo.

Sì, possiamo ben dire che quasi tutto lo fa Gesù: è lui che gli passa accanto, senza che nemmeno Bartimeo lo avesse cercato; è Gesù che dà ascolto alle sue grida, lo invita a farsi più vicino, lo interroga con disponibilità su quello di cui ha bisogno; infine è sempre Gesù che lo guarisce e lo libera dal male.

La fede allora è lasciar fare a Dio quello che lui già vuole per la nostra salvezza e il nostro bene, non resistere né fuggire davanti a lui che passa. 

Fratelli e sorelle, lasciamoci trascinare, come Bartimeo, da una speranza più grande di ogni realismo, scopriremo che fidarsi di Dio è, soprattutto, lasciar fare a lui senza intralciarlo. Non ci facciamo spaventare dalla novità che il Vangelo suscita attorno a sé e dentro di noi, facciamoci trascinare dalla folla di domande e di pensieri che ci suscita dentro per farci anche noi parte di quelli che gli vanno dietro e gli restano vicini. Dio farà tutto il resto. Egli ci conosce, ci chiede solo di fidarci e lasciarci aiutare da lui.

 

Preghiere

 

O Signore Gesù, aiutaci a mantenere viva la speranza che il male possa essere vinto dal bene. Fa’ che non prevalga in noi il pessimismo realista di chi accetta come normale il mondo così com’è.

Noi ti preghiamo

 

Come il cieco Bartimeo, o Dio nostro salvatore, anche noi spesso siamo bloccati senza poter vedere un futuro migliore. Aiutaci ad avere come lui speranza in te e di invocarti come fece lui,

Noi ti preghiamo

 

Fa’ o Signore Gesù che siamo pronti a riconoscerti quando ti fai vicino alla nostra vita. Aiutaci a restarti vicino nonostante il timore e l’incertezza, per obbedire con prontezza all’invito del Vangelo a seguirti.

Noi ti preghiamo

 

Perdona o Dio la rassegnazione dei nostri cuori che smettono di fidarsi che tu puoi cambiare la realtà e guarire l’uomo da ogni sua malattia. Guarisci la nostra cecità che non ci permette di riconoscerti,

Noi ti preghiamo

 

Proteggi o Signore quanti sono in difficoltà per la loro fede in te, chi si affatica per il vangelo e chi rischia per costruire la pace

Noi ti preghiamo

 

Sostieni o Dio la tua chiesa che riunisce tutti i tuoi figli dispersi per formare la famiglia dei discepoli. Aiutala a farsi annunciatrice audace e instancabile della Parola che salva,

Noi ti preghiamo

giovedì 25 ottobre 2012

I incontro sul Concilio - Da Giovanni XXIII a Paolo VI, perché un Concilio? Il Vaticano II e la sua eredità


 

Da Giovanni XXIII a Paolo VI, perché un Concilio?

Il Vaticano II e la sua eredità

Il Concilio: perché oggi occuparsi di un avvenimento di oltre 50 anni fa’?

Si potrebbe ritenere che il Concilio sia un episodio chiuso della storia della Chiesa, una specie di capitolo di un libro che è ormai andato avanti. A volte le immagini stesse del Concilio ci fanno vedere un mondo che non esiste più: il papa sulla sedia gestatoria, i flabellarii e i lunghi strascichi dei mantelli cardinalizi, i volti ieratici, l’uso del latino come lingua comune, ecc… Sembra un evento di un mondo morto e sepolto.

In realtà esistono numerosi motivi che ci invitano a non considerare il Concilio un capitolo chiuso della nostra storia.

Innanzitutto, è vero, esso ha ancora le forme e il volto di una Chiesa antica e oggi superata, ma questo volto è proprio quello che il Concilio ha cercato di rinnovare, rendendolo più giovane e meno arcigno, più essenziale e meno barocco, più amichevole e vicino alla vita degli uomini comuni. Allora capire in che modo, attraverso quali passaggi e quali decisioni tutto ciò è avvenuto è il modo migliore per non restare alla superficie del fenomeno di profondo aggiornamento che la Chiesa ha intrapreso a partire del Vaticano II e per non farne solo una questione di “moda” passeggera. Molto più che l’abbigliamento o le forme è cambiato tutto un mondo di idee, di modi di vivere e sentirsi cristiani, di vedere e giudicare il mondo e gli uomini, ma tutto ciò va capito in profondità perché divenga un patrimonio anche della nostra generazione e di quelle successive.

In secondo luogo i Concili nella storia della Chiesa sono stati eventi di portata epocale, che hanno condizionato profondamente la vita e il modo di credere dei cristiani in tutti i tempi. Essi sono paragonabili alla spina dorsale dello sterminato corpo della Chiesa, che su di essi poggia il peso bimillenario della sua storia e della vita attuale. Un peso enorme, ma che si muove in una articolazione complessa e ricca che il mondo di oggi richiede ancora con maggior urgenza. Allora conoscere e rendersi conto dell’impalcatura che sorregge tutte le membra del corpo ecclesiale ci aiuta a renderci conto delle fondamenta su cui poggia la vita di una comunità universale, come quella cattolica, di cui anche noi siamo parte.

Infine il Concilio è stato innanzitutto un evento in cui possiamo avvertire con potenza il soffio dello Spirito. Si è trattato di una primavera ricca di promesse e di buoni frutti spirituali e concreti, di cui noi, appena 50 anni dopo, godiamo con abbondanza: pensiamo al nostro rapporto con la Scrittura, alla liturgia rinnovata, al rapporto con il mondo, all’ecumenismo, ecc… Potremmo dire che non siamo che all’inizio di un processo lungo e ancora in buona parte poco esplorato. Ripercorrere il Concilio allora serve a immetterci in questa corrente fortemente animata dallo Spirito e vivere anche noi questa giovanile primavera spirituale, evitando così il rischio, sempre in agguato, di rinchiuderci in un clima di pessimismo o ripiegamento su di sé.

È quello che ha voluto esprimere nel suo testamento il beato Giovanni Paolo II, che si definiva un vescovo e un papa del Concilio:

“Stando sulla soglia del terzo millennio «in medio Ecclesiae», desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l'intera Chiesa — e soprattutto con l'intero episcopato — mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all'evento conciliare dal primo all'ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l'eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato.”

Questo mi sembra lo spirito giusto con cui oggi provare a capire e conoscere meglio il Concilio ecumenico Vaticano II, come qualcosa che ci riguarda e ci interroga, come comunità e, personalmente, come singoli credenti.

Sul Concilio sono state scritte biblioteche di libri e non basterebbe un anno intero di conferenze per approfondirne solo i principali aspetti. Stasera, senza pretendere di essere esaustivi, vogliamo entrare in contatto con questo Spirito di primavera conciliare delineando:

·      prima di tutto il quadro della Chiesa e del mondo in cui si colloca il Vaticano II;

·      poi descrivendo come si è svolto il Concilio e i suoi protagonisti principali;

·      infine provare a coglierne l’eredità e gli interrogativi che ancora oggi ci pone.

 

Che bisogno c’era di un Concilio?

Il primo annuncio di un progetto di Concilio avviene il 25 gennaio 1959 in un incontro di Giovanni XXIII con alcuni cardinali della Curia romana a S. Paolo fuori le mura. L’annuncio viene accolto con molta freddezza e qualche timore. Non se ne avvertiva la necessità, anzi sembrava un progetto avventato e foriero di possibili rischi. Il 18 luglio 1870 era stato proclamato il dogma dell’infallibilità del papa ex cathedra, cioè nelle sue proclamazioni di verità di fede, e questo si pensava avesse reso inutile il Concilio che, nei secoli passati, era servito proprio a ratificare solennemente e ufficialmente i dogmi di fede ritenuti vincolanti per tutti i cattolici. L’atteggiamento e lo spirito con cui tale annuncio fu accolto si può facilmente capire dal fatto, ad esempio, che l’Osservatore Romano, organo ufficiale della S. Sede che ha fra i suoi compiti istituzionali proprio quello di essere portavoce fedele delle parole del papa, il giorno successivo nemmeno riportò le parole con cui Giovanni XXIII ne aveva dato notizia:

“Pronunzio innanzi a voi certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione di un Sinodo diocesano per l’Urbe e di un Concilio generale per la Chiesa universale”

Giovanni XXIII era stato eletto pochi mesi prima (il 28 ottobre 1958) come papa di transizione, anziano e umile era stato considerato come un uomo che avrebbe portato avanti l’ordinaria amministrazione della vita della Chiesa senza scossoni per poco tempo e senza grandi novità.

Primo elemento da sottolineare è il fatto che Giovanni XXIII concepisce e annuncia il Concilio quando ha l’età di quasi 80 anni, smentendo l’idea che ci si era fatti di lui. Di umilissime origini, proviene da una famiglia di poveri contadini del bergamasco, diviene prete e sperimenta a Bergamo, come segretario del vescovo, le durezze della vita operaia coinvolta in quegli anni in dure lotte sindacali. Per la prima volta la Chiesa sta rendendosi conto in quegli anni che la ricerca della giustizia la obbliga a non stare sempre dalla parte che tradizionalmente aveva preso, cioè quella delle classi nobili o benestanti, ma a prendere in più seria e partecipata considerazione le aspirazioni di giustizia e libertà delle classi più umili, rurali e operaie. È il tempo in cui si sviluppa una dottrina sociale cattolica che cerca di delineare un progetto di società più giusta. Poi don Angelo Roncalli diviene cappellano militare e condivide il dramma delle masse di poveri soldati mandati al macello sul fronte della I guerra mondiale. Intraprende la carriera diplomatica e lavora prima nel mondo difficile dell’Oriente (in Turchia) e poi a Parigi, subito dopo la II guerra mondiale. È un uomo dalla spiritualità profonda, di formazione tradizionale, incarna la figura del prete all’antica, ma ha la straordinaria capacità di entrare in comunicazione “simpatica” con i mondi e le persone con cui viene in contatto. Ha un vero e proprio culto dei rapporti e vive la fiducia che attraverso di essi si spossa intervenire sul corso della storia dei singoli e dei popoli. Una volta divenuto papa, Giovanni mantiene vivo il suo spiccato senso ottimistico della storia e la fiducia di poter vincere con la forza del bene le manifestazioni del male.

Ne è un esempio, fra i tanti, la decisione presa di ricevere la figlia e il genero di Krusciov in visita a Roma. Si era in piena guerra fredda, il mondo era spaccato in due fra il blocco sovietico e quello occidentale. Giovanni però avverte che la Chiesa non può schiacciarsi su posizioni filo- occidentali fino a confondersi con le posizioni politiche degli USA, i principali sostenitori del blocco anti-comunista. Sa che nell’Est Europa la Chiesa è ferocemente perseguitata, ma sa anche che le contrapposizioni muro contro muro non offrono possibilità di superamento delle impasse. Rischia e punta tutto sul rapporto personale, non fugge né si chiude a riccio. È un esempio di come intendeva il suo apporto con il mondo: pur essendo stato fortemente sconsigliato, riceve quegli emissari del capo del nemico numero uno della fede, il Partico Comunista sovietico, e gioca il suo colloquio su un’amabilità paterna, pur non nascondendo il dolore per la persecuzione della Chiesa.

La Chiesa che Giovanni XXIII ha ricevuto in eredità da Pio XII è fortemente caratterizzata da elementi di pessimismo. Su questi certamente influenzò anche la personalità di papa Pacelli, che in vecchiaia vive in un clima di cupa amarezza. In gioventù, da nunzio a Berlino aveva visto il sorgere e rafforzarsi del regime nazista, imperialista, razzista e anticristiano; poi a Roma come Segretario di Stato aveva fatto esperienza dell’accerchiamento della Chiesa stretta dall’aggressione dei regimi comunisti in Europa dell’Est, ma anche in Italia. Poi l’occupazione nazista di Roma lo minaccia personalmente e lo rende prigioniero in una città offesa e umiliata. È ancora recente e aperta la ferita della cosiddetta “questione romana” (risolta nel 1929 con i “Patti lateranensi”) con una Chiesa ridimensionata nella sua sovranità e autonomia ad un territorio minuscolo, la Città del Vaticano, nel quale il papa vive ancora come recluso, con rarissime uscite e pochi contatti con l’esterno. Anche al suo interno la Chiesa vive un momento di grande tensione: all’inizio del secolo alcuni tentativi di un nuovo approccio allo studio della Sacra Scrittura che tenga conto dei nuovi metodi scientifici di indagine storica e letteraria, approccio iniziato e sviluppato in ambiente protestante, vengono stroncati con durezza, con l’accusa di voler stravolgere la fede sottoponendola al vaglio della scienza. Si tratta della cosiddetta “crisi modernista”. Si crea per reazione un forte movimento di diffidenza verso le espressioni della cultura profana (storia, scienza, filologia, sociologia, psicologia, ecc…) che non possono essere applicate alle questioni legate alla vita di fede. Si crea una sorta di complesso di accerchiamento a cui la Chiesa reagisce con ripetute condanne, riaffermazioni dei principi immutabili e certi della fede, allontanamento e diffidenza verso le espressioni della cultura che non si richiamano espressamente alla dottrina cattolica e non si sottopongono al controllo della Chiesa. Nel 1864, ad esempio, era stato stilato il Sillabo, elenco di ottanta proposizioni condannate come errori, che spaziavano nei diversi campi della fede, della politica, della morale, ecc...

In questo clima Giovanni XXIII rappresenta una novità sconvolgente. La sua fede profonda e all’antica si fonde con il senso di curiosità e simpatia per le espressioni umane che caratterizzano il suo approccio con tutti gli interlocutori.

Egli così si esprime a questo proposito nel discorso di apertura del Concilio:

“Spesso infatti avviene … che ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.

 A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.

 Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa.”

 

Il sogno di papa Giovanni di un Concilio e la difficoltà a realizzarlo

Giovanni XXIII desidera convocare tutta a Chiesa del mondo per riflettere insieme sulla realtà presente e, innanzitutto, coglierne “i segni dei tempi”, espressione molto significativa che utilizza nella bolla di indizione del Concilio:

“Queste dolorose cause di ansietà si configurano alla nostra considerazione come un motivo per richiamare la necessità di vigilare e rendere ognuno cosciente dei suoi doveri. Sappiamo che la visione di questi mali deprime talmente gli animi di alcuni al punto che non scorgono altro che tenebre, dalle quali pensano che il mondo sia interamente avvolto. Noi invece amiamo riaffermare la Nostra incrollabile fiducia nel divin Salvatore del genere umano, che non ha affatto abbandonato i mortali da lui redenti. Anzi, seguendo gli ammonimenti di Cristo Signore che ci esorta ad interpretare "i segni dei tempi" (Mt 16,3), fra tanta tenebrosa caligine scorgiamo indizi non pochi che sembrano offrire auspici di un’epoca migliore per la Chiesa e per l’umanità.”[1]

A partire da questi segni Giovanni vuole ripartire per ridare fiducia e speranza al mondo annunciando ad esso il Vangelo nel modo in cui esso lo possa ricevere e accogliere per riaprire una speranza e una prospettiva per il futuro dell’umanità intera:

“Noi, fin da quando abbiamo iniziato il supremo Pontificato … abbiamo reputato nostro impellente dovere di rivolgere il pensiero, riunendo le forze di tutti i Nostri figli, a fare in modo che la Chiesa si dimostrasse sempre più idonea a risolvere i problemi degli uomini contemporanei. Per questo motivo, come obbedendo ad una voce interiore e suggerita da una ispirazione venuta dall’alto, abbiamo giudicato essere ormai maturi i tempi per offrire alla Chiesa cattolica e a tutta la comunità umana un nuovo Concilio Ecumenico che continuasse la serie dei venti grandi Concili, che hanno ottimamente contribuito nel corso dei secoli all’incremento della grazia celeste negli animi dei fedeli e al progresso del cristianesimo.”

All’inizio dei lavori, preparati lungamente da commissioni di studio, sembrò prevalere il desiderio di limitare il ruolo del Concilio ad una rapida e acritica accettazione degli schemi di documenti precedentemente preparati dagli esponenti della Curia romana. In essi si era cercato di presentare una sintesi delle condanne delle dottrine da rifiutare e una riaffermazione dei principi sempre validi della tradizione. Si desiderava che il Concilio fosse una ratifica più autorevole di quanto già durante i pontificati immediatamente precedenti si era andato affermando in quanto a dottrine e condanne.

Dopo un primo periodo di disorientamento prevalse una linea diversa. I vescovi convenuti da tutto il mondo pretesero e ottennero di poter discutere ampiamente e liberamente i temi che ritenevano centrali per la vita della Chiesa universale, giungendo ad un rifiuto integrale degli schemi precedentemente elaborati e alla creazione di nuovi testi frutto di un ampio dibattito, espressione del contributo di tutti.

Questo orientamento rispondeva all’esigenza esposta fin dall’inizio da Giovanni XXIII:

“Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina… Per questo non occorreva un Concilio… E’ necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo.”[2]

 

La celebrazione del Concilio:

Il Concilio fu un evento di una eccezionalità storica. Di per sé esso è uno strumento di governo della Chiesa che riveste un ruolo di suprema importanza: è l’organo più autorevole esistente e le sue decisioni sono universalmente valide. Esso è convocato dal Papa e raccoglie tutti i vescovi. Al Vaticano II, ventesimo Concilio della bimillenaria storia della Chiesa, parteciparono per la prima volta anche uditori non cattolici (i delegati fraterni ortodossi e protestanti), laici anche donne, oltre a esperti teologi, fra i quali anche l’attuale papa Benedetto XVI, che allora era un giovane teologo. Per la prima volta convenivano a Roma vescovi da tutto il mondo. Erano oltre 2000, di nazioni e popoli precedentemente mai presenti in un Concilio. Era l’immagine concreta della realtà universale della Chiesa. Per i vescovi stessi fu un’esperienza sconvolgente. Per lo più abituati ad una dimensione locale, si trovavano proiettati in una dimensione realmente cattolica, a farne esperienza, a doversi misurare con la complessità e molteplicità delle culture e dei riti, delle lingue e delle sensibilità, uscendo dall’autoreferenzialità tipica di chi si muove in un mondo piccolo. Dovettero imparare a dialogare con modi di vedere la chiesa e il mondo molto diversi, a mettere in discussione i propri giudizi accettando di confrontarsi con realtà ed esperienze pastorali diversissime fra loro. Questo ha dato luogo a reazioni diverse e contrastanti, ma ormai la complessità e la molteplicità erano dimensioni entrate a far parte della dialettica interna della Chiesa in modo irreversibile. Le differenze sperimentate hanno fatto scoprire il modo per divenire complementari e non più conflittuali, non era più possibile pensare alla Chiesa ignorando l’altro.

Anche al mondo esterno la Chiesa ha mostrato un volto inedito. Per la prima volta si conoscevano realtà lontane e se ne è potuto apprezzare lo spessore cristiano e umano. Si sono riscoperte, ad esempio, le realtà assai poco note delle Chiese Orientali, che nel Concilio hanno giocato un ruolo decisivo, offrendo un contributo importante per la riforma liturgica, l’ecumenismo e i rapporti con le altre religioni. Per anni i giornali hanno parlato delle questioni dibattute nel Concilio rendendo più familiari, o almeno noti, temi di cui prima il grande pubblico ignorava perfino l’esistenza. L’immagine ha avuto un grande impatto, anche per l’uso della televisione, in tutti i paesi del mondo.

Il Concilio è durato tre anni (ottobre 1962-dicembre 1965), in quattro diverse fasi intercalate da intervalli durante i quali i vescovi tornavano nelle loro diocesi, per un totale di 168 assemblee di circa 1000 ore di lavoro complessive. Sono stati prodotti i seguenti documenti:

·      Quattro Costituzioni (Sacrosanctum Concilum sulla liturgia, Lumen Gentium sulla Chiesa, Dei Verbum sulla Rivelazione, Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo);

·      nove Decreti (sui mass media, sulle Chiese Orientali, sull’ecumenismo, sui vescovi, sui religiosi, sulla formazione sacerdotale, sui laici, sulle missioni, sui presbiteri);

·      tre Dichiarazioni (sull’educazione cristiana, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa)

·      alcuni Messaggi al mondo.

 

L’eredità del Concilio

È molto difficile, forse impossibile, fare un bilancio del Concilio. Come tutti i grandi eventi storici solo con il passare del tempo se ne colgono meglio le luci e le ombre, gli aspetti positivi e quelli negativi. Ma è anche impossibile giudicare con criteri puramente sociali o politici la portata di un evento che ha avuto principalmente una dimensione spirituale e di fede. In questo senso ne sono state fatte ricostruzioni e tirati giudizi molto diversi: pensiamo ad esempio al sorgere di movimenti integralisti che hanno fatto proprio del rifiuto del Concilio Vaticano II la loro bandiera identitaria, come nel caso del movimento ultraconservatore dei lefebvriani.

La celebrazione del Concilio è stata contrassegnata da un clima di entusiasmo e passione. Si è sognato molto, in senso positivo, si è sperimentata la forza della Chiesa che, quado è unita e coraggiosa, può superare anche gli ostacoli apparentemente più insormontabili e proiettare lo sguardo e il cuore molto lontano, guardando al futuro con fiducia e speranza. Si è sperimentata la forza della preghiera e della fede che anima la storia e la trasforma dal di dentro.

La prima grande eredità dunque è stata forse proprio questa: la vittoria sul pessimismo, introverso e autoreferenziale, per scoprire l’ottimismo dell’estroversione di una realtà che proprio perché si riscopre più umana e quindi più debole, ha più fiducia nell’affidarsi alla forza del Vangelo per combattere i mali del mondo e proporre la fede. Si è riscoperto il bisogno che i cristiani scendano in profondità nella loro esperienza di fede scoprendosi fragili e indifesi da strutture e corazze, ma, proprio per questo, testimoni molto più efficaci dell’annuncio dei salvezza del Signore. Prima, difronte al mondo, si era abituati a diffidare e condannare, a difendersi aggredendo, ora lo si conquista con la forza dell’amore, della simpatia e dell’amabilità.

Una seconda grande conquista è stata il superamento della falsa contrapposizione fra conservatori e progressisti. Ancora oggi si vive la tentazione di vivere questa logica nella Chiesa. Il Concilio ha dimostrato che il vero conservatore, colui cioè che vuole non perdere nulla dell’annuncio di salvezza del Vangelo e della tradizione, non può nascondere per paura il talento ricevuto ma deve spenderlo, rischiando di vivere nel mondo e per il mondo, confrontandosi con la novità e il cambiamento assunti come elementi positivi e di vitalità e non come pericoli da rifuggire. Non a caso il papa Paolo VI che condusse la seconda parte dello svolgimento del Concilio, dopo la morte di Giovanni XXIII, e il dopo Concilio parlava di “aggiornamento della Chiesa” come dell’atteggiamento positivo da adottare nei confronti delle novità del mondo moderno. D’altro canto il vero progressista o innovatore non è colui che segue le mode del mondo o insegue il consenso, ma colui che si àncora alla solida base della Scrittura e della tradizione della Chiesa per vivere con libertà la fantasia dell’amore che libera dalla paura e dalle chiusure a riccio. Insomma il Concilio ha rinnovato profondamente la Chiesa, ma dandole un volto più antico, che, paradossalmente, assomiglia di più a quello di Gesù e degli apostoli proprio perché si incarna nell’uomo e nella donna di oggi in ricerca di salvezza.

Infine forse l’elemento più decisivo recuperato dal Concilio è stato far rientrare la storia nella vita della Chiesa. Per troppo tempo infatti si era vissuti nell’illusione di poter fisare in un tempo e in una certa civiltà, come ad esempio quella medioevale, l’esempio di perfetta realizzazione della civiltà cristiana (un fenomeno che nel XIX secolo prese il nome di “cattolicesimo intransigente”, in contrapposizione con quello “liberale”). Questo aveva portato ad una idealizzazione di quel tempo e della sua forma di società, dei rapporti fra potere politico e religioso, delle espressioni devozionali, della filosofia, della teologia, della morale. Tutto il tempo successivo era visto come una progressiva decadenza. A parte il fatto che è tutto da dimostrare che il medioevo rappresenti un esempio di perfetta società cristiana e, più in generale, se una certa epoca possa essere mai assunta a modello di perfezione, di certo un tale presupposto portava a vivere con disprezzo e antipatia il progresso storico che proponeva nuovi modelli sociali, di comportamento e nuovi strumenti di pensiero e scientifici. Sono evidenti le conseguenze di un tale atteggiamento: arroccamento in un bastione difensivo, rifiuto della modernità, condanna e disprezzo per l’uomo contemporaneo, attaccamento quasi morboso a schemi anacronistici e superati, anche nel modo di pensare e di riflettere sul mondo e sulla fede.

Il Concilio ha spazzato via questi atteggiamenti, rimettendo al centro la dimensione storica della fede, vissuta prima da un popolo chiamato in una certa epoca storica e nei modi allora possibili, e della salvezza, annunciata da un Dio fattosi uomo e che quindi ha assunto la dimensione storica inseparabile dalla vita umana. Questo recupero della dimensione storica ha restituito alla Chiesa la possibilità di incidere profondamente nella realtà dei popoli e degli individui e di entrare in un dialogo proficuo con le civiltà e le culture, anche quelle lontane dalla fede, per annunciarvi il Vangelo.

Paolo VI si trovò di fronte il difficile compito di accompagnare la Chiesa a vivere l’eredità del Concilio, con esiti a volte straordinari e a volte problematici.

Questa però non è solo storia del passato. Anche noi ci troviamo di fronte tutte intere queste sfide, anche perché sono le sfide di come essere discepoli del Signore e testimoni del Vangelo all’uomo di oggi:

 

·      vincere il pessimismo autoreferenziale con l’ottimismo della fede vissuta nella libertà;

·      vincere una falsa ricerca di essere moderni e “accettati” o, al contrario, di giudicare sentendosi saccentemente distaccati e superiori;

·      porsi il problema della mediazione e trasmissione della fede nel contesto storico in cui viviamo, nei rapporti, nella cultura, nel modo di vivere e sentire dei nostri vicini, per passare dall’autoreferenzialità all’incontro.

Sono sfide epocali, sempre valide, anche per noi. Coglierne la portata e assumercene la responsabilità ci permette di vivere anche noi la primavera dello Spirito che il Concilio ecumenico Vaticano II ha inaugurato per la Chiesa del nostro tempo.



[1] Costituzione Apostolica Humanae Salutis.
[2] Discorso di Apertura del Concilio, 11 ottobre 1962.

lunedì 22 ottobre 2012

XXIX domenica del tempo ordinario - 21 ottobre 2012


 

Dal libro del profeta Isaia 53,10-11

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.

 

Salmo 32 - Donaci, Signore, il tuo amore

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo. 


Dalla lettera agli Ebrei 4, 14-16

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.  

 

Alleluia, alleluia alleluia.
Il Figlio dell’uomo è venuto a servire
e dare la vita in riscatto per molti.
Alleluia, alleluia alleluia.


Dal vangelo secondo Marco 10, 35-45

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

Commento

Cari fratelli e care sorelle, abbiamo appena ascoltato un passo del Vangelo di Marco in cui, a prima vista, sembrerebbe che alcuni discepoli vogliano primeggiare su tutti suscitando negli altri una reazione scandalizzata e indignata per questa loro arroganza. In realtà il senso di queste parole è ben diverso, se teniamo presente il contesto in cui si svolge la conversazione fra Giacomo, Giovanni e Gesù. Infatti subito prima Gesù aveva parlato del destino di passione e morte che lo attendeva. Il piccolo gruppo dei tredici si stava infatti avviando verso Gerusalemme ed era chiaro a tutti verso quali pericoli si andava incontro. Nella capitale infatti risiedeva il potere religioso supremo, proprio quello che non sopportava Gesù e la sua predicazione. Sicuramente li aspettavano giorni difficili. Gesù li conferma con le sue parole, prefigurando per sé un destino di persecuzione e morte. Marco infatti dice che “mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti.” (Mc 10,32) Poco prima, ancora, Pietro aveva chiesto a Gesù che destino li attendeva, visto che avevano lasciato tutto, famiglia, beni, lavoro, per seguirlo, spaventato forse dall’impossibilità a tornare indietro dopo scelte così radicali, in caso di fallimento della loro missione.

La paura si è impossessata dei dodici, che seguono a distanza Gesù chiedendosi forse, fra se e se, il perché di quell’atteggiamento così irresponsabile del Signore.

In questa scena possiamo riconoscere anche molto della nostra vita di discepoli che seguono Gesù un po’ da lontano, presi dai propri pensieri e preoccupazioni, spaventati dalle difficoltà a cui il vangelo del Signore sembra esporci. Sì, la paura spesso ci domina e ci trattiene dal restare vicini a Gesù: paura di perdere qualcosa, di rimetterci; paura di fare brutta figura, di essere giudicati male; paura di esporsi troppo e di compromettersi con qualcosa di nuovo e fuori dal normale; ecc… tante e diverse paure trattengono i discepoli, e le parole di Gesù sul suo destino non rassicurano certo i discepoli, che anzi ne restano scossi.

In questo contesto si collocano le parole dei due discepoli Giacomo e Giovanni: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Sembrano parole fuori luogo, infatti parlano di gloria in un contesto in cui sembra invece prevalere il tono della sconfitta e della fine di tutto. Sembra che i due non abbiano capito la situazione e dicano cose fuori luogo. In realtà è vero il contrario: solo loro infatti gli unici che hanno ascoltato tutte le parole di Gesù con attenzione. Infatti egli aveva detto loro: “Il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi, lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani. … lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà” (Mc 10,33-34). Cioè Gesù gli annuncia la sua resurrezione, ma gli unici a tenerla in considerazione sono Giacomo e Giovanni. Per questo parlano di “gloria”, perché già contemplano il Signore risorto. La loro richiesta di sedere accanto a lui nella gloria è allora l’espressione del loro voler restare vicino a Gesù e condividerne il destino. Non cancellano la prima parte della profezia, cioè la passione e morte, ed anzi, su esplicita richiesta di Gesù, affermano che sono disposti a subire lo stesso destino anche loro, ma mettono l’accento sulla seconda e più straordinaria parte: la resurrezione. Giacomo e Giovanni chiedono che sia concesso anche a loro di risorgere con lui!

Solo loro due hanno vinto quella distanza che separa gli altri, spaventati, sgomenti e chiusi nei loro pensieri, da Gesù. E lo hanno fatto aprendo con lui un dialogo, che il vangelo ci riporta : “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere,…. Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete … Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo. È  il dialogo della preghiera che fa’ uscire i due dalla chiusura in sé della paura per aprirli al desiderio di divenire partecipi della resurrezione. È un dialogo articolato, lungo, in cui Gesù incalza i due, e loro rispondono con prontezza. È insomma un paradigma di come si deve pregare: con insistenza, aperti ad ascoltare il Signore che risponde e pronti a rispondere con cuore aperto. Quel dialogo che è preghiera vince la paura dei due discepoli e li apre alla prospettiva di vivere come Gesù, di vivere il suo vangelo di resurrezione. Il Signore avverte in quelle parole la vicinanza di qualcuno che vuole essergli amico, consolarlo e non lasciarlo solo. Sì, con quel loro chiedere e pregare i due hanno dimostrato compassione per quel servo sofferente di cui ci parla Isaia nella prima lettura: “prostrato con dolori” ma che poi “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce”. La compassione ha reso i due discepoli capaci di vincere la paura e di farsi vicini all’uomo sofferente che sta davanti a loro. Questo li apre alla preghiera e dona loro le parole per chiedere la vittoria piena sul male che è la resurrezione.

Cari fratelli e care sorelle è un itinerario che questo vangelo propone a ciascuno di noi: lasciamoci toccare dal volto dell’uomo sofferente e nella compassione scopriremo il bisogno che c’è, per noi e per tanti, di essere rivestiti della forza della resurrezione che vince il male e dona la gloria invincibile dell’amore. Vinciamo la paura che abbiamo dentro contemplando il volto dell’uomo sofferente di Isaia, che è Gesù stesso. In ogni uomo sofferente c’è il volto di Gesù che va a morire a Gerusalemme. Davanti ad esso possiamo restarcene in disparte, preoccupati di noi e spaventati, oppure, come Giacomo e Giovanni, farci vicini, provare compassione e simpatia, vincere la forza del male che vuole dividere e allontanare gli uni dagli altri e chiedere a Dio stesso la grazia della forza di bene della resurrezione. È questa la vera vittoria del cristiano!

Gli altri invece colgono nelle parole di Giacomo e Giovanni solo il desiderio di mettersi in mostra, di prevalere, perché sono stati sordi all’annuncio della resurrezione, presi dalla paura pensano a come mettere se stessi in salvo e hanno fatto entrare nel proprio cuore le logiche della rivalità: se uno si salva, l’altro ci perde; se uno prevale, l’altro soccombe; meglio allontanarsi dall’uomo sofferente.

È quello che accade anche a noi quando restiamo lontano da Gesù, magari anche seguendolo, ma a distanza, presi dai propri pensieri preoccupati di sé e spaventati dal vangelo.

Gesù allora spiega agli altri dieci il senso di quella preghiera a cui ha con gioia dato ascolto: è la preghiera di chi vuole seguire il suo esempio e farsi umile nel servizio al fratello che ne ha bisogno. In questo infatti sta la gloria e la potenza della resurrezione, nel caricarsi sulle spalle un male non proprio e non meritato, con compassione e umanità, per vincerlo con la forza irresistibile dell’amore.

 

Preghiere

 

O Signore Gesù donaci un cuore pieno di compassione per te che vai a morire e per ogni uomo e donna nel dolore. Vincendo la paura saremo rivestiti della forza della resurrezione,

Noi ti preghiamo

 

Aiutaci o Signore Gesù a restarti vicino e a non allontanarci mai da te. Fa’ che non vincano nel nostro cuore le preoccupazioni per sé che chiudono il cuore all’ascolto del Vangelo,

Noi ti preghiamo

 

Ti preghiamo o Dio di consolare chi è afflitto e sollevare l’umile dalla polvere, perché chi vede i segni potenti del tuo amore proclami con le parole e la vita la potenza irresistibile della resurrezione,

Noi ti preghiamo

 

Vinci o Padre misericordioso i legacci che tengono avvinti i cuori di chi è nel peccato e collabora con il male. Fa’ che liberi dalla schiavitù tutti noi possiamo divenire operatori di bene e costruttori di pace,

Noi ti preghiamo

 

Proteggi o Signore Gesù coloro che sono minacciati dalla violenza e dalla morte: in Siria, in Nigeria, in Libano. Fa’ tacere le armi del terrorismo e della guerra e concedi a tutti di vivere in un mondo di pace,

Noi ti preghiamo

 

Guarisci, o Dio medico buono, le malattie del corpo e della mente che colpiscono i nostri fratelli e sorelle. Dona  a tutti i malati sollievo nel dolore e consolazione, apri i loro cuori alla speranza,

Noi ti preghiamo.

 

Dona forza e coraggio a chi annuncia il vangelo a chi non lo conosce. Per tutti i cristiani dal cuore tiepido e le mani chiuse, perché il tuo Spirito santo li scaldi e li apra al tuo amore,

Noi ti preghiamo

 

 

Per il papa e la chiesa tutta, perché siano testimoni fedeli e annunciatori audaci del tuo vangelo di pace e misericordia nel mondo intero,

Noi ti preghiamo