venerdì 30 novembre 2012

XXXIV domenica del tempo ordinario - 25 novembre 2012



Dal libro del profeta Daniele 7, 13-14
Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d'uomo; giunse fi­no al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno;  tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.

Salmo 92 - Il Signore regna, si riveste di splendore.
 
Il Signore regna, si riveste di maestà:
si riveste il Signore, si cinge di forza.
È stabile il mondo, non potrà vacillare.
Stabile è il tuo trono da sempre, dall'eternità tu sei.
 
Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti! +
La santità si addice alla tua casa
per la durata dei giorni, Signore.

Dal libro dell'Apocalisse di san Giovanni apostolo 1, 5-8
Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della ter­ra si batteranno il petto. Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l'Alfa e l'Omèga, Colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente!

Alleluia, alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Alleluia.

Dal vangelo secondo Giovanni 18, 33b-37
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giu­deo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno con­segnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Commento
Cari fratelli e care sorelle, con questa liturgia chiudiamo un anno liturgico e, domenica prossima, ne cominceremo un altro con l’inizio dell’Avvento. Il susseguirsi dei tempi della liturgia ci strappano da una continuità stanca e banale della nostra vita o da un esclusivo riferimento egocentrico alle proprie scadenze e ai propri ritmi che ci fanno sentire estranei alla vita degli altri: non ci sono solo i nostri impegni, ma c’è un tempo di Dio che ci invita a seguire qualcun altro oltre noi stessi. 
In questa domenica conclusiva di un anno la liturgia ci propone l’immagine di Gesù come re della Storia e dell’Universo. Già altre volte abbiamo parlato di come il nostro mondo esalti l’autonomia dell’individuo, la sua capacità di governarsi e decidere da sé, di non dipendere da altri, fino al punto di preferire la morte pur di non dover dipendere per le proprie funzioni vitali, in casi di necessità grave. A questa mentalità Gesù si contrappone, e ancora una volta, si propone come un Signore buono che cerca di attrarci ad una obbedienza al suo volere di bene per tutti.
Nel vangelo di Giovanni che abbiamo appena ascoltato assistiamo al dialogo fra Gesù e Pilato proprio su questo tema dell’essere re. Il governatore romano pone alcune domande a Gesù. Sembra interessato a capire, non si accontenta dei giudizi interessati dei giudei che lo avevano consegnato alle autorità militari. Gli chiede se è vero che lui si è proclamato re, come lo accusava il sinedrio per metterlo in cattiva luce davanti al potere romano, e conclude il suo dialogo con la domanda: “Che cosa hai fatto?” Pilato cioè cerca di andare oltre le apparenze e si pone una domanda davanti al Signore per capire chi lui sia veramente proprio a partire dal suo agire. E’ questo l’atteggiamento più giusto da assumere davanti al Signore: l’impressione di sapere già e conoscere già ci rende infatti distanti da Gesù che diventa una sbiadita raffigurazione senza colore né vita. Bisogna interrogarlo, proprio a partre dal suo parlare e agire. Eppure, nonostante ciò, Pilato non capisce Gesù, anche se questi non si nasconde e gli risponde in modo esauriente. In fin dei conti egli si rende conto che Gesù è innocente, ma non capisce perché non vuole accettare un ruolo tradizionale, perché fa di tutto per mettersi contro quello che si è sempre fatto, non lo vuole condannare, ma non trova nemmeno motivo per lasciarlo libero, e infine, lo abbandona al suo destino lavandosene le mani. Perché succede questo?
Pilato molto probabilmente avrebbe accettato anche l’idea che Gesù si voleva fare spazio e diventare signore di un pezzo di mondo. Probabilmente avrebbero trovato un accordo, una convenienza reciproca e una spartizione dei vantaggi che si potevano ricavare dalla situazione: Gesù infatti dice chiaramente: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo” ma aggiunge che “Il mio regno non è di questo mondo; … il mio regno non è di quaggiù.
Queste parole sono spesso state lette come un invito a non valutare importante la dimensione terrena, come se Gesù ci suggerisce una sorta di disprezzo per la vita mondana, per dare invece valore solo alle realtà celesti e ultramondane. Ma perché Gesù avrebbe assunto la natura umana incarnandosi se questa dimensione fisica fosse solo qualcosa da fuggire? E perché Dio avrebbe creato il mondo intero e l’uomo, per disprezzare l’opera delle sue stesse mani così amorevolmente voluta? Non credo che sia questo il senso delle parole di Gesù. Il Signore infatti, non dobbiamo dimenticare, si rivolge a Pilato e quando dice che il suo regno “non è di questo mondo” si riferisce al mondo di Pilato, il mondo di un piccolo re attento solo alle faccende dei propri guadagni e ricavi, alle convenienze, agli equilibri della situazione politica e sociale per non perdere il suo potere e garantirsi un guadagno adeguato. Questo è il piccolo mondo di Pilato,  Ma Gesù sfugge da questo orizzonte. Il regno di cui Gesù vuole la signoria è largo e abbraccia tutta l’umanità, passata presente e futura. E’ un mondo dove c’è posto per tutti, in cui non vige la regola del guadagno e non ci si accorda per far fuori gli altri. È il regno di Dio in cui ognuno è amato e accolto. Per questo Pilato non capisce Gesù e, dopo aver cercato di trovare un accordo con una persona di cui avvertiva la straordinarietà, si arrende davanti all’evidenza del fatto che non ci poteva ricavare nulla, e se ne lava le mani.
Cari fratelli e care sorelle Gesù oggi anche a noi chiede di quale mondo vogliamo essere cittadini. Di quello di Pilato, circoscritto alle proprie convenienze, dominato da sé e dai propri interessi e dagli equilibri con gli altri piccoli regni individuali, oppure desideriamo essere cittadini del regno di Gesù che abbraccia tutta l’umanità e ci rende fratelli e sorelle anche di chi non conosciamo. A conclusione di un anno durante il quale il Signore ci ha accompagnato e sostenuto con la sua presenza affettuosa ci pone oggi la domanda definitiva: “ora, dopo tutto quello che ho detto e fatto, tu con chi stai, di quale regno sei cittadino?” E’ una domanda a cui non possiamo sfuggire, perché non rispondere è già una risposta, è un rifiuto. Impariamo invece con pazienza a cogliere i segni che ci possono rendere cittadini del regno di Dio, fin da ora, non solo domani, e potremo essere sicuri che lo resteremo per sempre, perché, il regno di Gesù non finisce con le cose di quaggiù.

Preghiere

O Signore Gesù che hai amato noi uomini fino a vivere in mezzo a noi come nostro servo, aiutaci a non resistere al tuo amore e a lasciarci attrarre dalla tua umanità mite e buona.
Noi ti preghiamo

Gesù, il tuo amore per tutti noi ti ha portato a non desiderare di salvare te stesso ma gli altri, a non cercare ciò che conveniva a te ma a chi avevi di fronte. Aiutaci a divenire anche noi cittadini del tuo regno in cui nessuno è disprezzato e allontanato, ma anzi ognuno è amato e accolto come un fratello.
Noi ti preghiamo

Padre misericordioso, ti chiediamo con insistenza di perdonare il nostro peccato. Fa’ che non spendiamo il dono prezioso della nostra vita a cercare il proprio vantaggio e guadagno, ma sappiamo condividere ciò di cui disponiamo con chi ne ha bisogno.
Noi ti preghiamo

Dio del cielo che hai creato l’uomo e tutte le cose perché fossimo felici e condividessimo i tuoi doni, fa’ che nessuno al mondo viva più nella miseria, ma che ciascuno abbia di che vivere dignitosamente.
Noi ti preghiamo

Padre buono, guarda con misericordia ai tuoi figli più deboli: i malati, i prigionieri, i peccatori, chi è senza casa e sostegno. Ascolta la loro invocazione e dona il tuo aiuto.
Noi ti preghiamo

Fa’ o Signore che la nostra città divenga un porto sicuro per tutti quelli che cercano accoglienza e sostegno. Fa’ che nessuno sia straniero ma tutti fratelli e sorelle.
Noi ti preghiamo.

Accogli o Dio tutti coloro che sono morti, in modo particolare quelli che nessuno ricorda o conosce. Fa’ che nel tuo Regno di pace e di giustizia anche chi non ti ha riconosciuto in vita, trovi il posto che tu gli hai preparato.
Noi ti preghiamo

Ti invochiamo o Signore della pace perché cessi ogni violenza e conflitto. Fa’ che dove ora domina il rumore sinistro delle armi possano al più presto risuonare canti di gioia.
Noi ti preghiamo

giovedì 29 novembre 2012

Progetto di sviluppo servizi ai senza dimora


Progetto di mantenimento e sviluppo dei
Servizi di Accoglienza e Lotta al Disagio Sociale
della Parrocchia di Santa Croce – Terni
 

Presentazione

La parrocchia di Santa Croce è una piccola e dinamica realtà posta al centro della città di Terni (via Cavour). La sua collocazione nel contesto cittadino ne fa un luogo di passaggio, facilmente accessibile dai quartieri storici, come dalla prima fascia periferica, zone entrambe caratterizzate, nel loro carattere composito, dalla presenza numerosa di persone svantaggiate. Si tratta principalmente di:

·     anziani (per lo più abitanti negli immobili nel centro storico non ancora ristrutturati, con pensioni minime o sociali, e pertanto in precarie condizioni economiche);

·     immigrati (assistenti degli anziani, o abitanti negli immobili degradati nella fascia immediatamente contigua al centro storico, precariamente occupati o in cerca di prima occupazione);

·     famiglie in difficoltà (abitanti specialmente nella cinta più periferica, spesso in alloggi inadatti, disoccupati o occupati in attività precarie o saltuarie);

·     nomadi (che gravitano nel centro storico durante il giorno);

·     senza fissa dimora (anch’essi per lo più trascorrono buona parte del giorno in zone centrali, riparandosi poi la notte nella Stazione ferroviaria o in altri ripari di fortuna).

L’incontro con questa realtà ha fatto sì che la Parrocchia di Santa Croce divenisse, col passare del tempo, un punto di riferimento particolarmente utile per una sempre crescente fascia del disagio cittadino, anche se non mancano persone che si rivolgono ad essa pur essendo residenti in frazioni o altri Comuni limitrofi.

 

Descrizione dei servizi

Dal 2003 la Parrocchia di Santa Croce offre una serie di servizi con una rete capillare di interventi mirati. Essi si concentrano nei seguenti settori:

 

·   Centro di Accoglienza

Il Centro distribuisce settimanalmente generi di prima necessità (alimentari, vestiti, suppellettili e arredi, ecc…) e raggiunge 226 nuclei familiari, per un giro di oltre 630 persone. Offre anche consulenza legale, medica e psicologica gratuita, quando richiesta e stanzia piccole somme per il pagamento di affitti, medicine, fatture elettriche, gas, acqua, ecc… Il Centro si avvale della collaborazione di oltre 70 volontari specializzati e non, ed opera in stretta collaborazione con i Servizi sociali e sanitari competenti.

·   Centro Residenziale notturno

Si offre ospitalità notturna e diurna ad un numero variabile fra le 10 e le 15 persone in stato di emergenza alloggiativa. Il Centro offre i servizi essenziali (pernottamento, cucina, lavanderia, docce, ecc…) e si avvale di una rete di 15 volontari, professionali e non, per gli interventi necessari di consulenza, rieducazione e sostegno al reinserimento sociale.

·   Distribuzione di beni di prima necessità ai senza dimora

Settimanalmente si offre cibo e bevande calde, vestiti, coperte e altri generi di prima necessità ai senza fissa dimora con un servizio disseminato nei luoghi di incontro della città (stazione ferroviaria e altri luoghi di incontro). La regolarità del servizio 12 mesi all’anno garantisce il monitoraggio delle situazioni più problematiche e un intervento tempestivo in caso di necessità urgenti (emergenze sanitarie, alloggiative, mediazione culturale e linguistica, rapporti con le istituzioni, ecc…). Il servizio si avvale di uno staff di 12 volontari professionali e non. Il servizio raggiunge una media di 25 persone a settimana, per un giro di circa 190 persone all’anno.

·   Attività educative e di sensibilizzazione

Tutti i servizi descritti operano in modo tale da favorire e promuovere il coinvolgimento di più persone possibile, sia per il reperimento dei materiali e delle risorse finanziarie, sia per il supporto professionale necessario. Le attività di educazione e sensibilizzazione si svolgono all’interno della attività formative della Parrocchia (catechismo, incontri di animazione comunitaria, seminari, ecc…) sia nelle scuole di ogni ordine attraverso lezioni tenute da specialisti e testimoni del disagio sociale (immigrati, senza dimora, rom, ecc…). Si organizzano attività di incontro e festa fra cittadini italiani e immigrati per favorire i processi di integrazione e lotta al razzismo. Le attività educative e di sensibilizzazione raggiungono circa 800 persone all’anno.

·   La Festa di Natale

Tutte le attività esposte trovano una comune sintesi nella Festa di Natale che annualmente raccoglie le persone aiutate in un momento aggregativo con tombolata, musica dal vivo e cenone che raccoglie fra le 150 e le 200 persone di ogni età e nazionalità.

Caratteristiche di fondo comuni ai servizi

·          interventi mirati e non “a pioggia”;
·          interventi non episodici, ma continuativi anche per periodi lunghi;
·          formazione continua delle persone coinvolte con la consulenza di specialisti;
·          creazione di reti sociali di sostegno attraverso il coordinamento con volontari di altre Associazioni, operatori sanitari e sociali istituzionali, miranti a creare un reticolo umano stabile di solidarietà e sostegno.

Pur essendo esplicita la matrice religiosa di origine, i servizi sono rivolti a tutte le persone che ne hanno necessità, senza distinzioni di razza, religione o sesso, nel pieno rispetto della libertà di ciascuno, ed anzi favorendo la possibilità di esprimere ciascuno la propria cultura in un contesto accogliente, tollerante e solidale.

Il successo dei nostri interventi è testimoniato anche dal fatto che una parte dei volontari coinvolti nei servizi sono ex utenti dei medesimi che oggi, in una situazione di maggior stabilità, offrono gli stessi servizi dei quali, nell’emergenza, hanno usufruito.

 

Prospetto economico

Per le caratteristiche descritte dei nostri interventi i servizi elencati hanno un costo relativamente basso. Considerata la loro efficacia e capillarità il rapporto costi/benefici risulta particolarmente vantaggioso.

 

Bilancio 2011/’12

 

Affitto locali e costi strutture
0,00
Alimentari distribuiti
3.260,00
Vestiti (nuovi)
457,00
Forniture elettriche, gas e acqua dei centri
1.743,00
Materiale sanitario e medicine
786,00
Materiali per l’igiene degli ambienti
125,00
Spese legali offerte
380,00
Cancelleria e altri materiali di consumo
187,00
Assicurazioni
90,00
Materiale mono uso per alimenti (posate, bicchieri, contenitori,…)
425,00
Carburanti e spese di trasporto
515,00
Personale e consulenze
0,00
Interventi di formazione permanente del personale
0,00
Stampa e fotocopie
219,00
Varie altre (spese postali, regali per il Natale, attrezzature, ecc…)
264,00
Contributi erogati per affitti, bollette e spese di viaggio
2.784,00
Piccola manutenzione degli ambienti e attrezzature
270,00
TOTALE
11.505,00


Per info: r.cherubini@urbaniana.edu

Versamenti: Parrocchia di Santa Croce – IBAN:   IT 89 Y 01030 14400 00000 23426 00

mercoledì 28 novembre 2012

Preghiera del 28 novembre 2012



Dalla Prima lettera dell'Apostolo Paolo a Timoteo 4, 7-16

Allènati nella vera fede, perché l'esercizio fisico è utile a poco, mentre la vera fede è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente e di quella futura. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti. Per questo infatti noi ci affatichiamo e combattiamo, perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono. E tu prescrivi queste cose e insegnale. Nessuno disprezzi la tua giovane età, ma sii di esempio ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza. In attesa del mio arrivo, dedicati alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento

Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l'imposizione delle mani da parte dei presbiteri. Abbi cura di queste cose, dedicati ad esse interamente, perché tutti vedano il tuo progresso. Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano.

 Commento

Cari fratelli e care sorelle, l'Apostolo Paolo parla della fede come qualcosa che richiede “allenamento”. A questo proposito fa’ un parallelo con l’esercizio fisico. Eppure spesso si ha l’idea che la fede sia un’ispirazione, qualcosa di indipendente dalla volontà, oppure un “dono” a cui affidarsi, e per questo o c’è o non c’è. In realtà Paolo suggerisce che sì, la fede è dono, è ispirazione e grazia, ma allo stesso tempo va esercitata come si fa con il corpo. Anch’esso ci è donato, ma sta a noi tenerlo in buona forma e salute. Anche il corpo non ce lo diamo da soli, ma trascurarlo vuol dire provocarne la morte. Così è la fede.

Che vuol dire “esercitare la fede”?

L'Apostolo continua, insistendo sul concetto: “Per questo infatti noi ci affatichiamo e combattiamo”. Ribadisce la dimensione di sforzo, lotta, esercizio e fatica che sono ìnsiti nella fede, ma aggiunge: “perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono.” Fede è mettere la speranza in Dio, nel Dio non falso degli idoli, ma di quello che vive, cioè ci parla, ci incontra, interviene nella storia umana. Egli salva tutti, ma soprattutto quelli che credono. È molto bella questa prospettiva larga dell’amore di Dio che salva: esso non è proprietà di nessuno, non è diritto di nessuno, non lo meritiamo né ce lo conquistiamo. Non è per questo che dobbiamo esercitarci e faticare, per accampare un diritto alla salvezza. Piuttosto per esserne coscienti e non rifiutarla. Questo è il “di più” che abbiamo noi cristiani. Il fatto di sapere che la salvezza sta nel riporre fiducia e speranza in Dio ci carica di una responsabilità ancora più grande, e in ogni momento e situazione dobbiamo ricordarcelo, per non cadere nell’idolatria delle sicurezze mondane a cui affidiamo così naturalmente e volentieri la nostra salvezza, ma che tradiscono e fanno morire.

Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito” continua . La fede donata e fatta crescere con l’esercizio è una responsabilità e un debito verso gli altri. Trascurarlo, cioè non allenarsi e non fare esercizio di fede, vivendo la fiducia e testimoniandola con sincera franchezza, vuol dire venire meno al dovere di restituire almeno un po’ di quanto ricevuto.

Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano.” La salvezza non è fatto privato. Salvarsi trascina gli altri, perdersi li affossa e conferma la forza del male.

Fratelli e sorelle, Paolo si rivolge a noi con parole semplici e accorate. Chiediamoci con sincerità in cosa confidiamo, a chi affidiamo la nostra sicurezza e salvezza. Ce ne verrà chiesto conto, come ci verrà chiesto conto non solo del male fatto, ma anche del bene che ci siamo rifiutati di compiere. Per questo ci vuole esercizio e allenamento: perché il nostro spirito sappia cogliere ogni opportunità, senza trascurarne nessuna, sappia cogliere il momento opportuno e quello inopportuno per vivere con franchezza e apertamente la fiducia in lui. Facciamolo subito, prima che i muscoli del cuore siano rattrappiti e sclerotici, prima che i giudizi e le abitudini si induriscano nella forma che il mondo vuole. Ma conserviamoceli elastici e scattanti, perché al momento opportuno sappiamo correre incontro al Signore che ci visita.

martedì 20 novembre 2012

III incontro sul Concilio - La Chiesa - 21 novembre 2012


 


“Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri”
La Chiesa popolo di Dio e famiglia dei discepoli.
La costituzione Lumen gentium

 

La storia della Lumen gentium

Affrontiamo oggi un altro tema centrale nella riflessione del Concilio, quello sulla Chiesa. Esso fu oggetto di un lungo dibattito che cominciò il 2 dicembre 1962. Dall’apertura del Concilio fino a quella data si era svolto il lavoro che abbiamo già citato per l’elezione dei membri delle Commissioni conciliari. Esso aveva portato a una larga consultazione dei vescovi che avevano lavorato all’interno delle Conferenze episcopali e in riunioni informali, inaugurando quel nuovo spirito e stile di lavoro che dava grande importanza alla discussione collegiale, alla corresponsabilità, al protagonismo dei singoli e dei gruppi. Ne abbiamo già fatto cenno nei nostri incontri precedenti. Anche questi elementi furono alla base del rifiuto espresso a larga maggioranza per lo schema De Ecclesia. Si pose anche in questo caso la necessità di elaborare un nuovo testo come base per la discussione conciliare. Questo venne redatto e inviato ai vescovi nell’estate 1963, durante la pausa fra la prima e la seconda sessione del Concilio, e preso in esame all’aprirsi di quest’ultima, dal 4 al 16 ottobre 1963.

Al centro del dibattito vi era soprattutto il tema della collegialità, cioè del ruolo del collegio dei vescovi, della sua natura ed autorità, soprattutto in relazione a quella del papa. Infatti una parte dei vescovi proponeva di attribuire al collegio episcopale (Sinodo, Concilio) un’autorità pari a quella del papa. Una controversia difficile e intricata che portò a grandi spaccature e appassionate discussioni, che si risolse in un compromesso, voluto e operato da Paolo VI, per trovare una formula che salvaguardasse le sue istanze. Ma accanto a tale argomento, che a dire il vero oggi ha perso molto della sua centralità nella sensibilità e nel dibattito attuale, i lavori conciliari produssero un documento ricco e complesso, la Lumen gentium, che ha di fatto ridisegnato il volto della Chiesa.

La collocazione della Lumen gentium all’interno del disegno del Concilio

Vorrei a questo punto fare una considerazione generale che mi sembra importante: ogni testo del Concilio va letto alla luce della totalità dei documenti, che costituiscono una sinfonia e vanno colti nella loro complementarità. Il lavoro conciliare infatti ha portato ad una maturazione della riflessione che si è fatta via via più complessa e ricca e ha ripreso temi già accennati, cercando di dare al tutto una visione organica che rendesse conto della estrema complessità di sensibilità e posizioni. Ogni semplificazione schematica, anche se a volte è necessaria per motivi di chiarezza, è pertanto da operare con molta cautela, senza assolutizzare un aspetto piuttosto che un altro.

Il Card. Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI, suggeriva che il Concilio si prefiggesse di rispondere a due domande: “Chiesa chi sei? Chiesa cosa vuoi essere per il mondo?”, nella convinzione che la Chiesa quando riflette su se stessa, pensa al mondo. Questa impostazione metodologica concentra l’attenzione sui due grandi documenti Lumen gentium (auto comprensione della Chiesa al suo interno) e Gaudium et spes (auto presentazione della Chiesa nel suo rapporto col mondo esterno), cui fanno corona gli altri documenti che sviluppavano gli aspetti presenti in quelle costituzioni (la liturgia, il compito dei Vescovi, dei presbiteri, dei laici, l’attività missionaria, ecc…).

Ma esiste un altro criterio interpretativo che forse è più corretto ed organico, e cioè passare da una impostazione che affermava centralità della Chiesa, alla centralità della Parola di Dio. La Chiesa nasce dalla Parola di Dio (Dei Verbum), si forma come una comunione di fede che ha la sua fonte e il suo culmine nella liturgia (Sacrosanctum concilium), è essenzialmente comunione, sacramento della presenza di Dio nella storia, popolo di Dio, corpo di Cristo (Lumen gentium), il suo scopo è nel servizio al mondo (Gaudium et spes), è inviata in missione per la salvezza degli uomini (Ad gentes), opera  per l’unità dei cristiani (Unitatis Redintegratio); la sua vita si esprime attraverso i ministeri (Christus Dominus, Praesbyterorum ordinis, Apostolicam Actuositatem, Perfectae Caritatis), sviluppando soprattutto alcune attività (Inter Mirifica, Gravissimum Aeducations) e con uno stile di dialogo e attenzione alle altre realtà (Oecumenicorum Ecclesiae, Nostra Aetate), nel rispetto della comune dignità umana (Dignitatis Humanae).

Questo mi sembra l’itinerario concettuale con il quale è utile considerare la LG all’interno del panorama ampio del Concilio e dei suoi documenti. Infatti questo tipo di lettura privilegia la priorità della Parola di Dio e favorisce il primato e la centralità di Cristo e del mistero dell’incarnazione. Al centro non vi è più la Chiesa come istituzione, come era inteso prima, ma Cristo, la sua Parola salvifica, il mistero celebrato.

Il testo della LG

La Costituzione dogmatica sulla Chiesa è strutturata in otto capitoli, secondo il seguente schema:

cap. 1: Il mistero della Chiesa (paragrafi 1-8)
cap. 2: Il popolo di Dio (par. 9-17)
cap. 3: La costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare l’episcopato (par. 18-29)
cap. 4: I laici (par. 30-38)
cap. 5: La vocazione universale alla santità nella Chiesa (par. 39-42)
cap. 6: I religiosi (par. 43-47)
cap. 7: L’indole escatologica della Chiesa pellegrina (par. 48-51)
cap. 8: La Beata vergine Maria Madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa (par. 52-69)

Gli otto capitoli potrebbero essere raggruppati in quattro coppie, che descrivono i diversi aspetti della realtà della Chiesa. La prima coppia (1 e 2) sottolinea la dimensione soprannaturale comunionale, di mistero della Chiesa; la seconda (3 e 4) descrive la struttura della Chiesa visibile; la terza coppia (5 e 6) è centrata sulla santità alla quale sono chiamati tutti i credenti; la quarta ed ultima coppia (7 e 8), infine, afferma la comunione che esiste tra i credenti sulla terra e coloro che sono già in Dio, tra i quali Maria è la primizia.

La ricchezza del testo è evidente, ma per non disperdersi in mille rivoli ci concentreremo su alcuni elementi particolarmente significativi e che hanno avuto un maggiore influsso sulla vita delle comunità cristiane.

Essi sono:      la natura della Chiesa e il rapporto fra dimensione spirituale e istituzionale;

la sua natura comunionale come “popolo di Dio”;

il nuovo protagonismo dei laici e il loro ruolo nella Chiesa;

il rapporto con i cristiani non cattolici e i credenti non cristiani.

La riflessione ecclesiologica prima del Concilio Vaticano II

La riflessione teologica sulla Chiesa, o ecclesiologia, nacque e si sviluppò lungo i secoli soprattutto per l’esigenza di difendersi dagli attacchi che nelle varie epoche venivano portati ad essa, e di conseguenza aveva i tratti della controversia difensiva e riaffermativa di alcuni suoi aspetti, piuttosto che quelli di una definizione organica ispirata alla Scrittura e al pensiero teologico dei padri. Per citarne solo alcuni, i seguenti sono esempi di questi binomi attacchi-reazioni che si susseguirono, dal medioevo in poi:

- durante le dispute regaliste[1] si dovette difendere la libertà della Chiesa dal potere secolare e questo portò a esaltare la potestà del Papa e dei vescovi;

- nei confronti delle teorie del conciliarismo[2], l’ecclesiologia concentrò la sua attenzione sul primato e l’autorità assoluta interna del Papa su tutta la Chiesa;

- nei confronti delle tendenze spiritualiste, come i movimenti medievali di Wycliff e  Giovanni Hus, si sottolineò l’aspetto visibile e sociale della Chiesa;

- nei confronti della Riforma, che accolse le tendenze spiritualiste arrivando a negare l’aspetto istituzionale, sacramentale e gerarchico della Chiesa, l’ecclesiologia cattolica fu indotta a sottolineare l’istituzionalità della Chiesa e il valore della gerarchia;

- nei confronti del gallicanesimo[3] e delle varie espressioni dell’episcopalismo[4], si tornò ad insistere sul potere del Papa all’interno della Chiesa;

- nei confronti dell’assolutismo e del laicismo degli Stati, la Chiesa rivendica di essere una “societas perfecta”, degna di stare alla pari con tutte le altre società con un suo statuto giuridico e statuale;

- infine, nei confronti del razionalismo e del modernismo, si fissa l’attenzione sull’autorità indiscutibile del magistero ecclesiastico.

Da quanto breve excursus risulta evidente come l’ecclesiologia si sviluppa, dal Concilio di Trento (1545-63) al Concilio Vaticano I (1868-70), sotto il segno di una forte sottolineatura della sua struttura gerarchica verticale di tipo clericale (vescovi, preti) e dell’autorità assoluta del papa sulla vita della Chiesa. Tale orientamento affidava agli aspetti giuridici e istituzionali la preminenza su ogni altro elemento di tipo spirituale o esistenzialmente rilevante per la vita dei cristiani. I laici hanno uno statuto di “sudditi” sottoposti alla guida e al potere assoluto della struttura piramidale di cui costituiscono la base, e ne è un segno il fatto che la loro definizione avviene, fino alla LG, in forma negativa: i laici sono essenzialmente i “non chierici”.

Nel Vaticano I (1860-70) si affrontò il tema dell’ecclesiologia. Si riaffermò la nozione di Chiesa come “società perfetta” gerarchicamente costituita; l’autorità della Chiesa fu fatta coincidere con un modello sostanzialmente monarchico assolutista avente al vertice il successore di Pietro, con una struttura fortemente gerarchica e clericale.

Verso gli anni ’20 del XX secolo si assistette ad un risveglio del pensiero cristiano, sia nel campo teologico, che in quello liturgico-sacramentale e pastorale. Già abbiamo visto la volta scorsa il processo di ricomprensione della celebrazione liturgica che dava più importanza alla dimensione comunitaria e partecipativa del popolo rispetto alla passività e al formalismo imperante. Analogamente il rafforzarsi degli studi biblici e patristici facevano riscoprire una dimensione ecclesiale diversa da quella rigidamente istituzionale-gerarchico-giuridica a quel tempo in vigore.

Questo risveglio rivelò l’insufficienza di una dottrina sulla Chiesa statica e ferma a categorie istituzionali, sociologiche e giuridiche che venivano proposte come eterne e intoccabili. Le nuove esperienze e la riscoperta delle fonti fecero sentire il bisogno di  elaborare nuove sintesi e intraprendere nuove strade. Due sono i concetti-chiave che in questo periodo fanno da perno in questo ripensamento dell’ecclesiologia.

Il primo è l’idea di Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, che sostituisce il paradigma di Chiesa come “società perfetta”. Questo concetto presterà il fianco ad interpretazioni spiritualistiche e misticheggianti, a danno degli aspetti concreti e comunitari della Chiesa, ma ebbe comunque il risultato di riportare l’attenzione sulla sua dimensione cristologica e pneumatologica

L’altro concetto-chiave è quello di comunità, come abbiamo già visto per la liturgia. Esso è logica conseguenza dell’idea precedente. Se la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, esso implica la realtà della comunità come espressione visibile dei legami fra le membra che lo costituiscono, secondo la classica teologia paolina.

Questi due concetti-chiave facevano emergere due problemi: quello dell’unità della Chiesa e quello riguardante il rapporto tra Chiesa cattolica e salvezza. Al primo, è evidente che una concezione di Chiesa come società visibile istituzionale rispondeva con le categorie giuridiche, perché l’unità della Chiesa, i criteri di appartenenza ad essa, erano risolti in termini di appartenenza sociologica e non di adesione spirituale e morale. Con la caduta della definizione di Chiesa come società giuridicamente ordinata, e la nascita di una concezione misterica della Chiesa, il problema dell’unità della Chiesa e delle frontiere stesse della Chiesa si pone in maniera nuova. Il secondo problema concerneva il fatto che se la Chiesa è una realtà di origine divina l’uomo giunge alla salvezza solo nella e mediante la Chiesa, come affermava l’antico assioma “extra Ecclesiam nulla salus”. La risposta tradizionale dell’appartenenza alla Chiesa “effettiva” e “di desiderio” (in re e in voto), se risolveva il problema della possibilità anche per un non cristiano di salvarsi, non dava risposta all’interrogativo circa la natura del rapporto fra salvezza e Chiesa.

L’enciclica Mystici Corporis di Pio XII (1943) segnò il superamento definitivo di una pura e semplice assimilazione della Chiesa ad una società umana. L’identificazione fra il Corpo mistico di Cristo e la Chiesa cattolica romana portò a risolvere la dottrina dell’appartenenza a questo corpo: solo i cristiani cattolici sono, di per sé, membri del corpo della Chiesa e pertanto hanno accesso alla salvezza.

La natura della Chiesa nella LG, fra dimensione spirituale e istituzionale

Il primo capitolo della LG affronta esplicitamente il tema della natura della Chiesa, e lo fa superando sia la concezione istituzionale di società perfetta che quella spiritualista di corpo mistico per affermare invece una dimensione misterica: si accetta, ovviamente, che la Chiesa abbia la forma di un’assemblea di persone, socialmente organizzata e strutturata, ma essa è innanzitutto un sacramento, cioè una realtà soprannaturale. Essa, dunque, non può essere considerata innanzitutto un’aggregazione umana, poiché la sua natura non deriva da ideali o scopi umani, ma da Dio stesso.

 “La Chiesa è sacramento in Cristo. Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale.” (LG 1)

Il termine latino sacramentum (che traduce il termine greco misterion da cui la definizione “dimensione misterica” della Chiesa, che non ha nulla a che vedere con il significato “misterioso” che ha in italiano) nel linguaggio biblico esprime un evento di salvezza, presente nel progetto di Dio sin dall’eternità e rivelato all’uomo nella storia. Più particolarmente, nella tradizione ecclesiale, è stato inteso come “sacramento” ogni segno visibile che manifesta la salvezza operata da Dio, la sua “grazia”: Dio è invisibile ma quando si fa conoscere e si comunica all’uomo utilizza lo stesso linguaggio umano, abbassandosi al livello delle creature, manifestandosi attraverso realtà concrete e tangibili che l’uomo può conoscere e comprendere. Ogni sacramento è pertanto lo strumento di cui Dio si serve per operare nel mondo. La storia della salvezza è un susseguirsi di modi con i quali Dio si rivela in maniera “sacramentale”.

Gesù di Nazaret è stato il “segno” e lo “strumento” della presenza di Dio in mezzo agli uomini. Dopo la sua morte e la sua risurrezione non è più visibilmente presente fra noi. Il Padre ha inviato sulla Chiesa lo Spirito che agiva in Gesù, perché oggi essa è chiamata a rendere presente ed efficace l’azione di salvezza che Dio continua a compiere attraverso il Signore risorto, nella potenza dello Spirito di Gesù, per mezzo dei cristiani, chiamati ad essere membra del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. In questo modo essa può a diritto essere definita un ”sacramento” che, per opera dello Spirito, rende operante la salvezza di Dio nella storia.

Per una non debole analogia la Chiesa è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo” (LG 8).

LG afferma che la Chiesa, come Cristo, è coinvolta nella duplice dimensione dell’incarnazione: una invisibile, spirituale, poiché essa è un modo con il quale lo Spirito di Dio agisce; l’altra visibile, terrena, poiché la sua azione avviene nella storia. Queste due dimensioni, come nella persona di Cristo, non possono essere separate, per cui non esiste una Chiesa spirituale diversa o divisa da una Chiesa istituzionale, e la dimensione visibile ha solo una funzione di strumento a servizio di quella invisibile, ed ha motivo di esistere solo se si basa su di quest’ultima.

La categoria di “sacramento” utilizzata in LG si rivela feconda. La Chiesa come “evento misterico” non si identifica colo con le sue strutture visibili, ma nello stesso tempo la sua dimensione storica di vita sociale e comunitaria è il segno indispensabile perché si realizzi nell’oggi la salvezza che Cristo continua ad operare. “L’ecclesiologia sacramentaria supera così decisamente ogni tentazione di giuridismo e di sociologismo e allo stesso tempo non permette fuggitive divagazioni nel mistero dell’invisibile che svuoterebbe di senso la comunità storica e tutte le sue componenti strutturali[5].

In tal modo alla Chiesa è stata restituita la collocazione che le è propria:

l’ecclesiologia precedente aveva favorito una specie di idolatria della Chiesa, la quale appariva come il termine finale del disegno salvifico di Dio, giungendo quasi ad una identificazione della Chiesa con il regno di Dio. Il Vaticano II ha respinto questa identificazione, recuperando una distinzione fra Chiesa e regno di Dio. Essa ne è l’inizio, il germe storico che prepara la sua venuta finale, (il “già e non ancora” in tensione escatologica);

l’ecclesiologia precedente aveva identificato Chiesa visibile e corpo di Cristo, con la conseguenza di leggere la Chiesa come il Cristo stesso che prolunga la sua incarnazione nella storia. Il Vaticano II, anche qui senza arrivare ad una opposizione, sfuma questa identificazione: la Chiesa è concepita come strumento al servizio di Cristo e della sua opera salvifica.

La Chiesa visibile, in conclusione, non è più il centro e il fine del disegno salvifico di Dio, ma è sacramento, cioè strumento, al servizio di esso, che è più grande e va oltre la Chiesa visibile, ma che non può giungere al suo compimento senza di essa. 

Essa vive tra il già della Pasqua di Cristo e il non-ancora della sua Parusia. In un certo senso la Chiesa è l’escatologia già presente e realizzata, ma nel mistero: la realtà del Regno è già presente nella Chiesa, ancora in modo imperfetto, ma realmente. Tale dimensione escatologica conferisce un grande dinamismo alla Chiesa e all’insieme delle sue strutture, nessuna delle quali può pretendere la definitività e immutabilità: “Ecclesia semper reformanda”.

La natura comunionale della Chiesa “popolo di Dio”

LG cita una lunga serie di immagini scritturistiche che si riferiscono alla Chiesa:

“Come già nell'Antico Testamento la rivelazione del regno viene spesso proposta in figure, così anche ora l'intima natura della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri dei profeti. …ovile … gregge … podere o campo di Dio … tralci … edificio di Dio … dimora di Dio nello Spirito … tempio santo … Gerusalemme celeste … madre nostra … sposa dell'Agnello … corpo di Cristo…” (LG 6)

Ma quella che in LG ha la preminenza è l’immagine della Chiesa come “popolo di Dio”, anch’essa di origine biblica, tanto da divenirne il titolo del cap. II. LG afferma come nell’Antico Testamento Israele ha il ruolo di “popolo” che Dio si è scelto e col quale ha realizzato l’alleanza nella Legge, in opposizione alle “nazioni”, che adorano gli idoli. La Chiesa, sin dalle origini, si è riconosciuta erede delle promesse che Dio aveva fatto al popolo d’Israele e ha compreso se stessa come il “nuovo popolo di Dio” (cfr. Gal 6,16), nato dal sacrificio del Cristo, che ha compiuto la nuova ed eterna alleanza. Affermare che la Chiesa è “popolo di Dio” significa, in primo luogo, ricollegarsi alle radici ebraiche del Cristianesimo nella storia della salvezza vissuta dal popolo d’Israele (cfr. Rm 9-11).

In secondo luogo, l’idea che la Chiesa sia un “popolo” rivela che essa si definisce a partire dalla comunione: i cristiani non sono individui isolati, che si chiudono nella loro personale esperienza di fede, per quanto profonda possa essere, né rappresentano una massa indistinta di persone, in cui la dignità di ciascuno si perde nell’anonimato: essi sono un popolo, in cui lo Spirito agisce attraverso ogni persona, per il bene di tutti:  

“Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità. Scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un'alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua storia se stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi in Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo.”  (LG 9)

Questo popolo, inoltre, è diverso dai popoli che compongono il mondo: esso non è costituito in virtù di legami politici o sociali, di razza o di cultura tra coloro che ne fanno parte. E’, invece, il popolo “di Dio“, stabilito dal Padre, che chiama tutti gli uomini alla salvezza operata dal Figlio e che, nello Spirito, raduna tutti coloro che tale salvezza hanno accolto, al punto che, nella Chiesa, come afferma S. Paolo, “non c’è più ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché tutti voi siete una cosa sola in Cristo Gesù” (Gal 4,28). LG 9 elenca le principali caratteristiche del popolo di Dio:

Questo popolo messianico ha per capo Cristo «dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, … Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l'universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l'umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.” (LG9)

Pertanto esso:

·      ha un capo, che è il Cristo, il quale, con la sua morte e risurrezione, ha fondato la Chiesa;

·      su di essa Egli regna mediante il suo Spirito, ora che “siede alla destra del Padre”; Sottolineando che il capo della Chiesa è Cristo si toglie alla vita ecclesiale ogni strutturazione di tipo puramente mondano. Tutte le obbedienze all’interno della Chiesa sono da collocare all’interno dell’obbedienza a Cristo, che è il vero capo della Chiesa. La stessa autorità nella Chiesa non è concepibile né descrivibile mediante il ricorso a modelli umani di qualunque natura essi siano (monarchici, parlamentari, democratici,..);

·      ha una condizione, che è la condizione dei figli di Dio, i quali non sono servi, ma eredi (cfr. Rm 8,14-17);

·      ha una legge, che è scritta nel cuore dei credenti, e li spinge ad amare con l’amore del Cristo. Sottolineando che la legge di questo popolo è il precetto di amare come Cristo ci ha amato, il Concilio suggerisce che i rapporti tra i membri della Chiesa devono ispirarsi non a modelli sociali mondani, sia pure elevati, ma sono da viversi in termini di risposta all’amore di Cristo verso la Chiesa. La Chiesa non è una società, ma una comunione.

·      Il popolo di Dio, inoltre, non vive separato dal mondo, ma, anzi, ha un significativo ruolo nella storia; lungi dal sentirsi estraneo alle vicende terrene, esso è chiamato ad essere presente nel mondo per servirlo e per testimoniare l’amore di Dio per gli uomini;

·      L’azione del popolo di Dio per il mondo, infine, non si esaurisce nella promozione del progresso morale e civile degli uomini: essa tende ad instaurare il Regno di Dio tra gli uomini, verso il quale la Chiesa cammina, come l’antico Israele dell’esodo avanzava verso la terra promessa.

Da questa sommaria descrizione della Chiesa come popolo di Dio derivano alcune conseguenze teologiche particolarmente significative.

La prima conseguenza è l’esclusione di ogni forma di clericalizzazione della Chiesa. La Riforma protestante del sec. XVI aveva insistito sulla Chiesa come comunità radunata dalla Parola, fino a negare il ministero ordinato. L’ecclesiologia cattolica vi aveva contrapposto un’immagine di Chiesa dove l’elemento clericale gerarchico era visto come il principale. E così si operò una specie di spaccatura nella Chiesa fra una gerarchia, erede del ruolo di Cristo, e la comunità che le stava di fronte in modo subordinato. Se la Chiesa è popolo di Dio, essa non è solamente un determinato gruppo o autorità, ma è sempre l’intero popolo di Dio, composto da membri fondamentalmente uguali tra loro, come afferma LG 32:

“Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché «non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11)”.

Questa fondamentale uguaglianza non significa appiattimento delle diversità né egualitarismo paritario, ma evidenzia il battesimo, comune a tutti, come l’elemento più significativo e fondamentale di tutte le diversificazioni gerarchizzanti. La distinzione istituzionale tra gerarchia e laicato non è il primo aspetto da tener presente circa l’essenza della Chiesa, ma il comune carattere di battezzati.

La seconda conseguenza da sottolineare è che questo popolo è di Dio, e di nessun altro. La Chiesa non nasce dalla volontà dell’uomo, non è riunita dalla volontà dei suoi membri di mettersi insieme, non è riunita sulla base di affinità psicologiche o culturali, o di condivisione di programmi politico-sociali o di manifesti ideologici. Il popolo di Dio è riunito da Dio; nasce e cresce per sua volontà, è convocato dalla sua Parola, non dalle nostre parole; segue le sua decisione, non le nostre decisioni; è convocato per dare lode a Dio, non a sé; per essere testimone del suo messaggio, non dei nostri; vive per servire gli interessi di Dio, non i propri; per tenere alto nella storia umana il “peso” di Dio, non per servire la propria o altrui potenza.

Una terza conseguenza da mettere in rilievo è l’idea di storicità. L’espressione “popolo di Dio” rimanda alla peregrinazione del popolo eletto attraverso il deserto. La LG sottolinea che questo peregrinare caratterizza costantemente il popolo di Dio anche nel tempo attuale:

“Come già l'Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il nuovo Israele dell'era presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente (cfr. Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18)” (LG 9).

Questa nozione di storicità comprende l’idea di mutabilità, di verifica costante, di permanente riforma. E’ importante, per l’esatta comprensione del mistero della Chiesa, osservare che essa, fondata da Cristo in maniera definitiva in quanto alla sua costituzione fondamentale, è anche immessa nella storia ed è in continua tensione escatologica verso il Regno. Ciò significa che essa non può evitare di fare i conti con le dimensioni temporali e geografiche della vita dell’uomo. Il popolo mette in atto i doni di Dio, ne è sacramento, non malgrado la storia, bensì proprio grazie alla storia. L’elemento storico non costituisce qualcosa di estrinseco, né di ostile, né uno scenario esteriore nel quale si svolgerebbe un’azione celeste. Se Cristo si è incarnato, significa che l’intera opera di Dio deve prendere forma dentro la storia e mediante la storia.

Un quarto elemento è il fatto che essere “popolo di Dio” significa anche essere “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose” (1 Pt 2,9; cfr. Es 19,5-6; Is 43,20-21). I cristiani quindi partecipano delle tre funzioni regale, profetica e sacerdotale. Cosa significa questo? Gesù di Nazaret è stato riconosciuto come il Messia promesso dalle Scritture (Mc 8,29-30): cioè, in Lui si sono realizzate le promesse di Dio sull’invio di un personaggio consacrato dallo Spirito perché fosse re, profeta e sacerdote.

Tali qualità sono state vissute da Gesù in una maniera nuova rispetto a come Israele se lo aspettava. Egli si è manifestato come un re, certamente (Mc 15,2 e paralleli), ma ha affermato: “Il mio Regno non è di questo mondo” (Gv 18,36); ha inoltre dichiarato che “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mc 10,45 e paralleli), interpretando la sua regalità come servizio. Gesù è stato un profeta (Mc 8,28 e paralleli; Mt 21,11.46; ecc.), ma egli era non solo un portavoce di Dio, ma la stessa Parola di Dio che si è fatta uomo, il Verbo incarnato (Gv 1,14). Gesù, infine, pur non appartenendo alla classe sacerdotale giudaica, ha vissuto la sua condizione sacerdotale compiendo l’unico sacrificio efficace per la salvezza del mondo, offrendo se stesso come l’“Agnello di Dio” (Gv 1,29.36; Ap 5,6, ecc.) e divenendo così il sommo ed unico Sacerdote e Mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. la lettera agli Ebrei). Lo Spirito di Cristo, effuso sulla Chiesa, la consacra come un popolo regale, profetico e sacerdotale.

Ogni cristiano, che nel battesimo viene segnato con l’unzione crismale, sigillata con la cresima, diventa membro del corpo di Cristo, che è la Chiesa, e partecipa alla triplice unzione regale, profetica e sacerdotale di Cristo. Per questo egli è chiamato a mettersi al servizio del mondo perché sia costruito e accolto il Regno di Dio nella storia (funzione regale); a testimoniare con la parola e con la vita l’evangelo di Gesù (funzione profetica); ad offrire se stesso in comunione con il sacrificio del Signore per glorificare Dio e per la santificazione, cioè trasformazione, del mondo (funzione sacerdotale).

Il nuovo protagonismo dei laici e il loro ruolo nella Chiesa

Il Concilio Vaticano II è stato il primo Concilio che nella storia della Chiesa ha dedicato una specifica attenzione ai laici. Se ne è occupato espressamente nel cap. IV della LG, e in un apposito decreto sull’apostolato dei laici, l’Apostolicam actuositatem.

Innanzitutto vanno fatte alcune importanti premesse terminologiche. Nel parlare dei ministeri ordinati il termine “gerarchia” viene declinato tramite l’universo linguistico della “pastoralità”, spostando il discorso dal piano giuridico a quello sacramentale e ministeriale, e, parimenti, nel descrivere la relazione fra ministri ordinati e laici invece di potestas si parla di “diaconia”, cioè servizio fra diversi ministeri e carismi.

Il termine “laico” deriva dal greco laós, che significa “popolo”, indica, dunque, colui che appartiene al popolo. Questo termine non compare mai nel Nuovo Testamento; solo a partire dai primi secoli del Cristianesimo, e soprattutto durante l’età medievale, esso viene utilizzato dagli autori cristiani per distinguere nella Chiesa quei membri del popolo di Dio non ordinati né consacrati.

Il vecchio Codice di diritto canonico del 1917, descriveva semplicemente come “non chierici”, senza definire gli elementi caratterizzanti la loro funzione. Con il Concilio Vaticano II è esplicitata la nota positiva che li individua: secondo la LG, i laici si distinguono non tanto, in negativo, per la mancanza del sacramento dell’Ordine, ma, in positivo, perché essi sono caratterizzati dal cosiddetto “carattere secolare” (LG 31), ossia dalla condizione di vivere immersi nelle realtà del mondo (saeculum, in latino, vuol dire anche “mondo”):

“i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano. Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici.” (LG 31)

La vocazione e la missione di tutto il popolo di Dio è dunque per tutti quella di trasformare il mondo cercando il Regno di Dio. Per i laici questo compito si svolge in modo particolare dall’interno stesso delle realtà umane. Essi realizzano l’unica missione della Chiesa, la salvezza del mondo, in modo diverso dai membri ordinati e consacrati:

“Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i singoli doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Lì sono chiamati da Dio a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo” (LG 31).

Dal di dentro delle diverse dimensioni della vita, quella sociale, politica, familiare, culturale, economica, ecc..., i laici sono chiamati a realizzare il Regno di Dio come il sale che si perde nel cibo per dargli sapore, come il lievito che si confonde nella pasta per farla crescere (cfr. Mt 5,13-14; 13,33), lavorando perché le realtà umane siano orientate dallo Spirito Santo verso il Regno.

Dopo aver definito le caratteristiche che contraddistinguono i laici nella Chiesa, il cap. IV della LG descrive la triplice funzione sacerdotale, profetica e regale che essi sono chiamati ad esercitare per la salvezza del mondo. Si è già detto che le tre funzioni derivano dallo stesso ministero di Gesù e che sono radicate nel sacramento del battesimo; esse riguardano, pertanto, tutti i membri del popolo di Dio, che le attuano in maniera diversa: gli ordinati e i consacrati in un modo, i laici in un altro.

a) La funzione sacerdotale

I laici dunque partecipano del sommo ed unico sacerdozio di Cristo, il solo mediatore tra Dio e l’uomo (1Tm 2,5-6). Ma mentre i ministri ordinati lo esercitano soprattutto nell’offerta a Dio del Corpo di Cristo e nel presiedere il culto della comunità, i laici presentano a Dio un culto spirituale, che è rappresentato dall’offerta della loro vita:

“Tutte le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano sacrifici spirituali graditi a Dio per Gesù Cristo; e queste cose nella celebrazione dell’eucaristia sono piissimamente offerte al Padre insieme all’offerta del corpo del Signore” (LG 34).

L’eucaristia, il centro del culto e della vita cristiana, vede dunque i laici come soggetti attivi, che insieme al sacerdote, offrono a Dio sé stessi e il mondo nel quale vivono, perché esso sia trasformato e santificato dallo Spirito insieme al pane ed al vino. In questo modo anche i laici contribuiscono a “consacrare il mondo”, come dice LG, orientandolo verso il Regno.

Alcuni ministeri di fatto concretizzano questa funzione sacerdotale dei laici: la partecipazione e l’animazione della preghiera, l’animazione liturgica, ecc…

b) La funzione profetica

Allo stesso modo essi esercitano la funzione profetica che è propria di tutto il popolo di Dio. Attraverso i laici, infatti, l’annuncio della fede si diffonde in tutti gli ambiti della vita degli uomini “perché la forza del vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale” (LG 35). Questo annuncio deve essere realizzato nell’annuncio della Parola e nella sua pratica nella vita: la proclamazione del Vangelo, confermata dalle opere, è profezia efficace rivolta a tutti.

Alla funzione profetica possono essere correlati alcuni ministeri di fatto: il ministero della catechesi, l’evangelizzazione missionaria, la proclamazione liturgica della parola di Dio, le varie attività pastorali e di annuncio,  ecc…

c) La funzione regale

La funzione regale corrisponde all’esigenza di porsi al servizio del mondo lavorando in ogni campo nel quale sono inseriti per ricondurre le realtà umane al disegno originario di Dio. Con varie espressioni il Concilio descrive lo scopo della funzione regale dei laici:

portino efficacemente l’opera loro perché i beni creati, secondo l’ordine del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura ..., e siano tra loro più giustamente distribuiti ...; risanino le istituzioni e le condizioni di vita del mondo .... Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e i lavori dell’uomo” (LG 36).

Anche la funzione regale dei laici nella Chiesa può essere svolta in maniera diversificata: ad esempio, attraverso le attività nel sociale, o l’impegno politico e a servizio degli altri, ecc…

Il rapporto con gli altri cristiani e i non cristiani

Una delle intuizioni fondamentali della Chiesa del Concilio è stata la consapevolezza di essere essa stessa inserita in un mistero, come dicevamo, che la comprende ma allo stesso tempo supera i suoi limitati confini visibili. Da un lato, infatti, si è riconosciuto il valore della presenza della Spirito anche al di fuori della Chiesa cattolica; dall’altro è stato ribadito con forza il carattere escatologico della Chiesa, che la proietta in una dimensione futura.

Prima del Concilio i rapporti con le altre Chiese e comunità cristiane e con i fedeli di altre religioni erano visti con grande sospetto, sconsigliati e, spesso, vietati. Un pesante rifiuto colpiva i non cattolici, pur con sfumature diverse, condannando come “irenismo” e debolezza di fede l’apprezzamento per i cristiani non cattolici, vista come accettazione dell’errore. La dottrina affermava che «la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica», in tal modo non vi era alcuna possibilità di dialogo con i non cattolici, se non l’invito a ritornare nella Chiesa cattolica da cui si erano separati a causa degli errori dottrinali.

A partire dal secolo XIX, e poi nel XX si è notevolmente sviluppato il movimento ecumenico, che esprimeva tra i cristiani, specialmente i protestanti, l’esigenza di ristabilire l’unità della Chiesa primitiva che nel corso della storia si era persa. Il termine ecumenismo, dalla parola greca oikoumène, cioè mondo intero, è stato adottato dalle Chiese con valenza di universalità.

All'interno della Chiesa cattolica, almeno fino al Concilio Vaticano II, si può notare una forte resistenza all’accettazione di questo atteggiamento; nel 1950 L' Enciclopedia Cattolica alla voce “ecumenismo” riportava: “è la teoria più recente escogitata dai... protestanti... per raggiungere l'unione delle chiese cristiane... Per i cattolici sono precluse le vie dell'ecumenismo nel senso originario del termine.”

LG è il primo segnale di un mutato atteggiamento della Chiesa cattolica, che troverà conferma più estesa nel decreto conciliare espressamente dedicato all’ecumenismo, l’Unitatis redintegratio (1964). Il Concilio ha anche, per la prima volta, affermato l’impegno della Chiesa nel dialogo inter-religioso con gli Ebrei, i Musulmani e con le altre religioni mondiali, nella dichiarazione Nostra aetate (1965).

Nella LG si afferma come il Nuovo Testamento riconosca che la Chiesa è l’unico strumento attraverso il quale Gesù Cristo continua a salvare gli uomini: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,16; cfr. Gv 3,15). I Padri della Chiesa ripetevano che “fuori della Chiesa non c’è salvezza (Extra ecclesiam nulla salus)”. Anche il Concilio conferma che la comunione con la Chiesa è necessaria per ottenere la salvezza:

“Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica (subsistit in), governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui [13], ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica.” (LG 8)

LG usa una formula che ha una certa ambivalenza: “subsistit in”. Essa è interpretabile in modo opposto: o che la Chiesa di Cristo è presente nella Chiesa cattolica, ma, di conseguenza, non si esaurisce in essa; oppure che la Chiesa consiste nella Chiesa cattolica, quindi esclude ogni altra realtà ecclesiale dall’appartenenza al corpo di Cristo. La discussione e la disputa è accesa, e ha fautori dell’una come dell’altro partito, di certo il seguito del testo sembra propendere verso la prima interpretazione,  riconoscendo che anche fuori della Chiesa cattolica si trovino “parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” (LG 8). In ogni caso si tratta di un enorme discostamento dalla condanna senza appello della dottrina precedente.

Più oltre specifica che tutti gli uomini sono chiamati alla comunione con la Chiesa, anche se sono concretamente uniti ad essa secondo vari gradi, in maniera più o meno consapevole (LG 13). I cattolici che accettano la sua organizzazione gerarchica e vivono l’esperienza dei sacramenti, sono pienamente incorporati alla Chiesa (LG 14). Ad un secondo grado appartengono i cristiani non cattolici: essi sono uniti alla Chiesa per molteplici ragioni. Tutti, infatti, condividono le verità fondamentali del messaggio cristiano, come la comunione trinitaria, l’incarnazione del Figlio di Dio, l’ascolto delle Scritture, alcuni sacramenti, come il battesimo e, in molti casi, l’eucaristia e alcuni altri, vivono una vita nello Spirito, che agisce in loro e attraverso di loro (LG 15).

Anche coloro che professano una religione non cristiana, come gli Ebrei e i Musulmani, che credono in un solo Dio e si riconoscono, come i cristiani, figli di Abramo, o come i fedeli di tutte le religioni mondiali, che riconoscono una vita soprannaturale, tendono verso la comunione con la Chiesa (o, come si esprime LG 16, “sono ordinati al popolo di Dio”). E anche gli atei senza colpa, coloro, cioè, che, per non averlo conosciuto, negano l’esistenza di Dio, ma che pure agiscono seguendo anche inconsapevolmente la voce di Dio che parla nella coscienza, non sono esclusi dal disegno di salvezza che Dio realizza attraverso la Chiesa (LG 16).

Le novità sono insomma straordinarie. Per ricapitolare: la “Chiesa di Cristo” non è semplicemente la “Chiesa cattolica”, come affermato in precedenza, ma «sussiste in» essa. È la base teologica per un ecumenismo che ap­prezzi gli elementi ecclesiali pre­senti anche nelle altre comunità cri­stiane. L'adozione dell'espressione “subsistit in”, anziché del precedente “est”», consente di superare quella stretta identificazione fra Corpo mistico e Chiesa cattolica che si trovava ancora nella Mystici Corporis di Pio XII. L'espressione “subsistit in” fu intenzionalmente sostituita a “est”», proprio per permettere il riconoscimento delle caratteristiche ecclesiali di altre comunità cristiane, salva restando la persistenza indefettibile dell'unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cat­tolica (cfr. UR 4). Allo stesso scopo tende, in maniera più esplicita, l'ulteriore precisazione che parec­chi elementi di santificazione e di verità, pur trovandosi fuori della Chiesa cattolica visibile, sono do­ni propri della Chiesa di Cristo, e quindi spingono verso l'unità cat­tolica.

Un'altra importante e famosis­sima affermazione ecumenica si trova in LG 14: “Sono pienamen­te (plene) incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo spiri­to di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essi istituiti.” L'attuale plene (pienamente) sostituisce il reapse (veramente) della Mystici Corporis, aprendo quindi lo spazio a forme di appartenenza reali ma incomplete, quali quella dei fratel­li di altre confessioni cristiane. Questi principi verranno ripresi e applicati in LG 15 e in UR.

Si supera lo schema precedente del “ritorno a Roma” unico possibile itinerario ecumenico precedentemente ammesso daella Chiesa cattolica, per immaginare un cammino di unione che passi attraverso un processo di progressivo riavvicinamento nell’amore:

“A questo si aggiunge la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali; anzi, una certa vera unione nello Spirito Santo, poiché anche in loro egli opera con la sua virtù santificante per mezzo di doni e grazie e ha dato ad alcuni la forza di giungere fino allo spargimento del sangue. Così lo Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo desiderio e attività, affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito, pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo Pastore. E per ottenere questo la madre Chiesa non cessa di pregare, sperare e operare, esortando i figli a purificarsi e rinnovarsi perché l'immagine di Cristo risplenda più chiara sul volto della Chiesa.” (LG 15)

L’eredità della LG

Come già negli altri incontri, evidenziamo ora l’eredità che dalla LG giunge fino a noi interpellandoci come figli della Chiesa, membri del popolo di Dio, ecc…

Il primo elemento è la natura non istituzionale della chiesa. Spesso nella percezione comune essa è identificata nelle strutture o nei ruoli istituzionali, e la vita cristiana si riduce a un’appartenenza formale e burocratica. Cosa vuol dire invece partire da un senso di appartenenza che si fondi sulla Scrittura e a partire da essa trovi la via di una conversione personale che ci fa vivere come parte di un “corpo” visibile che agisce nella storia? L’istituzione protegge, dà un’identità forte, deresponsabilizza, suggerisce un senso di diritto o quantomeno un conto del dare-avere, suscita logiche carrieristiche o di ruoli sociali, ecc…

Altrettanto, un’immagine solo spiritualistica della Chiesa la spoglia della sua dimensione storica e vitale, rinchiudendola nel mondo dell’intimismo romantico o psicologico, delle scelte ineffabili che non hanno bisogno di un riscontro nella storia, dell’esaltazione del “sentire” sul “vivere”, ecc…

Infine esistono forme di clericalismo anche nei laici, oltre che naturalmente nei preti, che tendono a professionalizzare la fede come un fatto per specialisti addetti ad essa, lasciando ai “profani” un ruolo passivo e privo di iniziativa e responsabilità.

Il secondo elemento è la dimensione di popolo di Dio. Questo elemento mi sembra particolarmente importante in questo nostro tempo dominato da una concezione individualista dell’uomo che atomizza l’esperienza umana in un itinerario che non incrocia mai l’altro. Ne abbiamo parlato spesso: tutta l’esperienza cristiana non è nemmeno concepibile al di fuori della comunità del fratelli e sorelle e nel rapporto stretto con l’Altro che è Dio. La liturgia, la missione, la testimonianza, l’impegno, la carità, non è immaginabile in un itinerario individuale. Questa è forse la sfida più grande che ci troviamo ad affrontare all’interno della Chiesa, che è pervasa dallo spirito individuale, e nel confronto con il mondo. La Chiesa è innanzitutto dimensione collettiva, afferma la rilevanza dell’altro, si esprime nella fraternità, nell’assemblearietà (dalla parola greca ekklesìa assemblea). Non si capisce, dicevano i Padri, il rapporto con Dio senza fare esperienza di un rapporto stabile e profondo con i fratelli: “Non ha Dio per Padre chi non ha la Chiesa come madre”.[6]

Il terzo elemento è il posto dei laici nella Chiesa. Anche in questo caso, come accennato precedentemente, una mentalità clericale e antiquata della Chiesa ci spinge a considerarli sempre in seconda linea, deresponsabilizzati e depotenziati. LG pone di nuovo i “semplici” fedeli nel loro ruolo di protagonisti della vita di fede non solo personale (intimismo), non solo responsabili della propri salvezza personale (spiritualismo), non obbedienti esecutori. Ai laici, o meglio, a tutti i membri del popolo di Dio, che è per stragrande maggioranza costituito dai laici, è affidata in toto la realizzazione del Regno, attraverso quella santificazione, cioè quella conformazione della propria vita e di quella delle realtà in cui vivono alla vita di Cristo e al Vangelo. Porsi fuori da questa logica ci fa porre fuori della Chiesa i cui confini non sono quelli dell’istituzione ma innanzitutto della sua realtà spirituale di sacramento. Se il cristiano non è segno dell’operare di Dio nella storia vuol dire che rifiuta la sua vocazione e la salvezza di cui la Chiesa è luogo unico: “Extra Ecclesiam nulla salus” va pertanto inteso anche, o forse soprattutto, in questo senso. Non per definire chi non vi è mai entrato, piuttosto chi, pur conoscendone la porta e avendone sperimentato la realtà, preferisce starsene fuori tranquillo e disimpegnato.

Il quarto elemento riguarda il nostro rapporto con gli altri cristiani e credenti. Sembra un  campo per specialisti e addetti ai lavori, ma la realtà globalizzata del nostro contesto sociale ci spinge sempre più ad assumere una responsabilità anche in questo terreno. Un cristiano in Italia non può più permettersi di ignorare chi è il fratello ortodosso, o protestante o musulmano o ebreo, o sikh, o induista, ecc… Questa infatti è una forma di disprezzo che rivela uno scarso senso ecclesiale, nel senso che non ci interessa essere testimoni credibili della nostra fede, e che la fede degli altri non ci interroga. Cosa potranno pensare del cristianesimo i musulmani vedendo come si vive nelle città occidentali? Il modo con cui accogliamo o rifiutiamo gli stranieri, o li sfruttiamo sul lavoro negandogli spesso i diritti basilari, parla anche del nostro modo di essere cristiani. Come essere sacramento di Dio anche per essi? Come far sentire il desiderio di Gesù che “tutti siano una sola cosa” (cfr. Gv 17,21-22).

Queste e tante altre sfide mi sembra restino ancora aperte, e forse lo saranno sempre, e lo Spirito del Concilio le fa giungere fino a noi perché animino le ossa aride e ridiano vita alla comunità convocata dalla Parola (cfr. Ez 37) perché incarni in modo autentico la Chiesa corpo di Cristo, sacramento di salvezza nel mondo.



[1] Con il termine regalismo si indica in ambito storiografico una o un insieme di dottrine che sostengono il diritto di un monarca o di una corte ad esercitare autorità giuridica e teologica sul clero nazionale. Tale sistema di dottrine si contestualizza in Europa generalmente nelle lotte contro l'autorità papale della Chiesa romana e i privilegi fiscali delle diocesi.
 
[2] Il conciliarismo è una dottrina che si consolidò nei sec. XIV e XV, ed ebbe ampia diffusione ma anche importanti effetti nei tempi successivi, secondo la quale il Concilio ecumenico ha autorità superiore al Papa (Concilio di Costanza, 1415, quando fu arso al rogo Hus, e che vide l’assenza del Papa, fuggito per il pericolo di essere catturato). Il decreto Haec Sancta uscito da Costanza sancisce che nella Chiesa il potere deriva direttamente da Cristo e che la Chiesa è “l’insieme dei credenti”, contro il concetto che si era imposto secondo cui la Chiesa si identificava col Papa. Secondo i conciliaristi la convocazione del Concilio non è esclusiva del pontefice e può legittimamente deliberare in fatto di dottrina, teologia e materie politico-sociali, in autorità sopraordinata a quella rivendicata dal Papa e può persino, all’occorrenza, sottoporre il Pontefice a giudizio, anche di eresia (come fu chiesto per Bonifacio VIII). Il Dictatus papae di Gregorio VII del 1075 (la cui lettura mi ha sconvolto, mi si consenta … ), il consolidamento del potere del Principato pontificio e dei suoi effetti nel periodo avignonese ed oltre, la centralizzazione e l’esclusiva delle nomine di posti e ruoli sia ecclesiali che politici nelle mani del Pontefice e con effetti capillari in Europa, avevano creato un disequilibrio nel quale nessuna delle Istituzioni esistenti era in grado di fungere da contrappeso.
Si rendeva pertanto necessario, almeno attraverso l’unico strumento che sembrava legittimato a farlo, il Concilio, riequilibrare e frenare questa arbitrarietà assoluta e incontrollabile. Tuttavia, nei fatti, a seguito del Grande Scisma, dell’insofferenza diffusa da parte di Stati, principati e Signorie, della fiscalità da rapina imposta dalla Chiesa, il Papato si trovò nella necessità di rispondere in maniera adeguata al Conciliarismo che avrebbe creato pericolosi precedenti e avrebbe minato un potere così faticosamente acquisito e rivendicato, per quanto già terribilmente diminuito. Il Papato rispose a questi attacchi attraverso una capillare e strategica opera diplomatica, fatta di accordi e compromessi da un lato, e con la convocazione di Concili che all’apparenza erano “riformatori” e di blande concessioni (Concilio Lateranense 1512) ma che in sostanza ribadivano che spetta solo al Papa convocare, trasferire e sciogliere il Concilio. Dopo lunghe vicende storiche la “chiusa” si ebbe soltanto nel Concilio Vaticano I (1870) in cui si sancì il dogma dell’infallibilità del Papa.
 
[3] Il gallicanesimo è una dottrina politico religiosa che ha per oggetto l'organizzazione della Chiesa cattolica in Francia (la Chiesa gallicana) largamente autonoma dal papa. Pur riconoscendo al papa un primato d'onore e di giurisdizione, ne contesta il potere assoluto, in favore dei consigli generali della Chiesa e dei sovrani nei loro Stati. Il suo opposto è l'ultramontanismo.
In pratica ciò si traduce soprattutto nel controllo stretto dei sovrani francesi sulle nomine e sulle decisioni dei vescovi. Quantunque rispettosa del papato, questa dottrina dispone alcuni limiti al suo potere; in particolare insegna che l'autorità dei vescovi riuniti in concilio è superiore a quella del papa.
Il maggior rappresentante di questa corrente fu Jacques Bénigne Bossuet, vescovo di Meaux (XVII secolo), che si occupò della redazione dei quattro articoli gallicani del 1682 sottoscritti dai vescovi di Francia. Bossuet riprese le decisioni del Concilio di Costanza (1414 - 1418), in cui si affermava che il concilio ecumenico è l'organo supremo in materia di autorità e insegnamento in seno alla Chiesa.
 
[4] L’episcopalismo è una teoria sorta nel Medioevo sulla costituzione della Chiesa fondata sull’ufficio del vescovo. Si è manifestato o come teoria conciliare, vale a dire come rivendicazione del diritto di primato che spetta ai vescovi radunati in concilio, superiori al pontefice, o come rivendicazione di determinati diritti originari e ordinari che spettano ai vescovi come tali e che, non essendo concessi dal papa, non possono essere da lui limitati o abrogati.
[5] S. Dianich, “Ecclesiologia”, in Dizionario di Teologia Interdisciplinare, vol. 2, p. 23. La prospettiva sacramentale è quella prevalentemente adottata dagli ecclesiologi odierni, ed è quella presente, sia pure in modo molto variegato, nelle opere di teologi come Semmelroth, Rahner, Schillebeeckx, Ratzinger, Balthasar, Congar, De Lubac.
[6] Cipriano, L'unità della chiesa cattolica, III-VI-VII