venerdì 1 febbraio 2013

Incontro con i genitori dei ragazzi del catechismo - 2 febbraio 2013


 

La fede

Siamo in un anno che tutta la Chiesa ha dedicato al tema della fede, cioè ad approfondire il senso e il valore del nostro essere cristiani. È una domanda che dobbiamo porci per noi stessi, innanzitutto, ma che ci coinvolge anche come genitori ed educatori, perché la fede sia trasmessa ai nostri figli. È utile pertanto riflettere su questo tema a partire da noi stessi.

Che cosa significa avere fede?

Il primo elemento da sottolineare è che affrontare Il tema della fede non significa innanzitutto riaffermare o approfondire dei contenuti (articoli di fede, dogmi, affermazioni fondamentali, ecc…).

Avere fede non significa esattamente “credere”. Anche etimologicamente la parola “fede” ha un’altra radice semantica. Si può credere anche senza avere fede. Noi tutti crediamo fermamente nell’esistenza degli atomi, anche se nessuno li ha mai visti, la scienza ce ne dimostra l’esistenza e a nessuno di noi verrebbe in mente di negarne la realtà. Ma quante volte al giorno pensiamo agli atomi? Che rilevanza hanno nel determinare le nostre scelte? Ovviamente nessuna.

Credere in Dio spesso nella nostra vita ha la stessa rilevanza del credere nell’esistenza degli atomi: una verità tanto fondamentale, innegabile, certa, quanto inutile.

Allora cosa significa fede, avere fede?

Credo che questa sia un interrogativo centrale nel tempo di oggi, quando ormai nessuno nega l’esistenza di Dio, come forse avveniva decenni fa, tempo di ateismi e di regimi totalitari anti-cristiani (nazismo, comunismo). Oggi la vera negazione di Dio non è affermare la non-esistenza di Dio, ma la sua irrilevanza. “Che Dio esista pure”, si dice e si pensa, “non vale la pena faticare a dimostrare che non c’è, basta riconoscere che non mi serve a nulla.”

Il profeta Michea ci propone una bella sintesi, a mio giudizio, di come giungere alla fede. Non è una presentazione teorica né un teorema che dimostri l’esistenza di Dio. Michea non avverte l’esigenza di convincere qualcuno che Dio esiste, ma indica una pedagogia che ci porta ad incontrare Dio. Lì, in quell’incontro avviene poi la scelta della fede, cioè di fidarsi di lui o meno.

"Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo?

Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno?

Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi?

Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato?".

Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te:

 

praticare la giustizia,

amare la bontà,

camminare umilmente con il tuo Dio.” (Michea 6,6-8)

 

Il brano si apre con una domanda dell’uomo. Il primo passo è accettare che Dio mi ponga una domanda, sia una domanda per la mia esistenza. È questo il primo passo che conduce alla fede. Senza porsi una domanda non c’è fede.

È la domanda dell’uomo per il quale ha rilevanza una ricerca esistenziale del senso della vita, per il quale Dio ha lo spazio e la rilevanza di un interrogativo. Questo uomo si pone la domanda di come presentarsi a Dio.

La risposta immediata che gli viene è quella del culto tradizionale di Israele, che prevedeva una serie di offerte e azioni per riconoscere la propria sottomissione al Signore.

Potremmo dire che anche per noi la risposta più scontata è l’offerta del culto (vado a Messa), o dell’osservanza delle prescrizioni (osservo i comandamenti), dell’obbedienza ai precetti (non faccio niente di male). Cioè essere disposti a rinunciare a qualcosa che si ha per dimostrare quanto Dio per noi conta. Sacrificare il proprio tempo, la libertà di agire come si vuole, accettare limitazioni e rinunce.  

Il profeta controbatte a questa risposta richiamando ciò che Dio richiede all’uomo:

“praticare la giustizia,

amare la bontà,

camminare umilmente con il tuo Dio.”

Sono le priorità, cioè quello che sta particolarmente a cuore a Dio. Non basta dare “qualcosa”, dice Michea, non c’è un gesto da compiere o un obbligo da osservare, una rinuncia, ma un “come” essere: giusto, buono, umile.

La giustizia consiste nel porre il proprio interesse sullo stesso piano di quello degli altri nostri simili, e resistere alla tentazione così spontanea di far prevalere il proprio tornaconto su quello degli altri.

L’amore per il bene significa porre l’interesse degli altri nostri simili al di sopra del nostro, al di là del dovuto e dell’obbligo, come richiede, ad esempio, il rapporto fra parenti.

Infine camminare umilmente con Dio significa mettere l’interesse per Dio sopra quello nostro e degli altri.

C’è come una gradualità in salita: Dio ci richiama alla pedagogia con cui ci tratta e che non chiede più di quello che sa che siamo in grado di dare, ma  allo stesso tempo non si accontenta e non rinuncia a chiedere il massimo, accettando la gradualità e la fatica del rapporto con noi.

Questo riguarda anche i nostri ragazzi. Trasmettere la fede a chi è più piccolo infatti non significa “semplificare” qualcosa di complicato, ma utilizzare la stessa pedagogia che Dio ha usato con noi: chiedere molto, tutto, sapendo ciò che loro ci possono dare. Spesso però restiamo stupiti perché la generosità e la prontezza di risposta di un bambino supera le nostre aspettative e, magari, anche le nostre stesse misure.

L’ultimo passo proposto da Michea è “camminare con Dio umilmente”.

Dio sa che la fede può nascere solo dal camminare insieme. Cioè che si può imparare a fidarsi non di una idea o di una verità (i “contenuti” di cui parlavamo all’inizio) ma di una persona con la quale si cammina insieme.

Ma come si fa a camminare con Dio?

Dio, nessuno lo ha mai visto” ci dice l’evangelista Giovanni (Gv 1, 18), come si fa a camminare con qualcuno che non si vede e non si trova? L’apostolo continua: “il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

Noi oggi allora possiamo camminare con Dio seguendo le orme di Gesù, facendoci suoi contemporanei. Identifichiamoci in uno dei discepoli, chiamati mentre stavano a pesca sul mare di Galilea. Era gente comune: paurosi, litigiosi, testardi, orgogliosi, fragili, proprio come ciascuno di noi. L’unica cosa che li accomuna fra loro e con Dio è che accettano di camminare con lui, umilmente, cioè come discepoli, gente che sta lì per imparare.

I discepoli non capiscono tutto prima. Gesù non spiega loro per filo e per segno il suo piano. Li invita solo a fidarsi di camminare con lui: “Passando lungo il mare di Galilea, Gesù vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: "Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini". E subito lasciarono le reti e lo seguirono.” (Mc 1,15)

In questo i più piccoli ci sono di esempio. Quante volte essi infatti ci seguono e ci imitano (e lo fanno molto) non perché gli abbiamo spiegato tutto o perché sono persuasi dai nostri discorsi, ma semplicemente perché sanno che noi gli vogliamo bene, e per questo si fidano di noi. Gesù ai dodici chiede più o meno lo stesso: “seguitemi, perché io vi voglio bene!”

Fidarsi di Dio

Noi conosciamo molto di Gesù, sicuramente più dei pescatori raggiunti dalla sua predicazione in riva la lago di Galilea e più dei nostri ragazzi. Abbiamo ascoltato tante sue parole, abbiamo riflettuto sui suoi gesti, fino a quello estremo del dono della vita sulla croce e alla sua resurrezione. Abbiamo ricevuto tante volte quello stesso invito: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. Ma abbiamo eretto come un muro nel nostro cuore che ci impedisce di credere che è ora di chiudere un tempo passato, di aprirne un altro, di cambiare radicalmente e sovvertire i nostri modi di pensare e vivere, di credere che il modo di vivere di Gesù è anche per noi la buona notizia, Vangelo, che la nostra vita non è condannata a perdersi nel nulla, ma si può salvare.

Abbattere questo muro e cominciare a fidarci di lui è la fede. È un dono perché è Dio che fa il primo passo verso di noi e  ci invita a seguirlo, ma è nostra la scelta di fidarci e  seguirlo.

Dicevo come i discepoli iniziano a seguire Gesù senza capire e senza sapere, ma solo perché si sono fidati di lui.

Dove li avrebbe portati?

Cosa avrebbe chiesto loro?

A quali rischi li avrebbe esposti?

A quali gloriose conquiste li avrebbe guidati?

Se ne sarebbero pentiti in seguito?

Non lo sanno.

La fiducia non nasce mai da una certezza o da un calcolo preventivo. La fede non è un contratto con chiare clausole o una partita doppia di dare e avere. L’unico modo per sapere come andrà a finire per i discepoli, e per ciascun discepolo, anche noi, è seguirlo e farsi trascinare da lui dove non vogliamo. Non a caso la richiesta triplice di amore di Gesù a Pietro è legata alla profezia che sarà portato dove lui non sa e dove non avrebbe mai pensato e voluto andare: “Gesù disse a Simon Pietro: "Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pasci i miei agnelli". Gli disse di nuovo, per la seconda volta: "Simone, figlio di Giovanni, mi ami?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pascola le mie pecore". Gli disse per la terza volta: "Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?". Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: "Mi vuoi bene?", e gli disse: "Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene". Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi".” (Gv 21,15-19)

Fede e martirio

Per concludere vorrei proporre un’ultima riflessione sulla fede. Sono convinto che tutte le cose vere e profonde della vita rivelano il loro vero volto se riflesse nello specchio di essa che è la morte. Anche nel caso della fede. Non esiste infatti vera fede senza il dono della propria vita. Non sempre questo dono ci è chiesto nell’esito tragico della morte, come nel caso dei martiri che fin dai primissimi secoli hanno come costellato il cielo dell’esistenza della Chiesa, ma nel martirio (che significa testimonianza, non dimentichiamolo) quotidiano di un amore che è dono di sé, cioè identificarsi con la vita di Gesù.

A questo infatti ci porta “camminare con lui”, a divenire, piano piano, come lui, “martiri”, cioè testimoni, del suo amore.  Ci porta ad assumerne l’andatura, i tratti somatici, le espressioni, il tono della voce, le parole, la compassione, la mitezza, lo sguardo penetrante e buono, la ribellione al male, ecc…

È questa forse la scommessa più audace della fede: proviamo a fidarci del poco, del semplice, dell’umile che ci propone il Vangelo e ci troveremo signori sopra i poteri del mondo che tengono in scacco e prigionieri gli uomini del nostro tempo: “Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città” dice Gesù (Lc 19,17).

Fidarsi di Dio è il più grande atto di amore, e il più grande atto di libertà, per questo ci rende veramente umani e veri, perché chi non ama ed è schiavo è un uomo umiliato e diminuito. Lasciamo brillare la pienezza del nostro essere uomini accettando di camminare con Dio e di farci da lui trasformare poco a poco, nella fiducia.

Questo spiega anche quanto possiamo aiutare i nostri ragazzi solo con il nostro esempio. A volte credo che sottovalutiamo il peso che hanno le nostre scelte su di loro, anche se non sono spiegate. Se noi ci fidiamo di Dio e lo seguiamo, anche loro si fideranno di noi e ci seguiranno.

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