sabato 23 febbraio 2013

Incontro su Benedetto XVI in occasione delle sue dimissioni - 20 febbraio 2013


Benedetto XVI, un papa da amare, un uomo da comprendere

 Con questo titolo vorrei, un po’ provocatoriamente, rispondere a tante generalizzazioni a cui abbiamo assistito in questi giorni sui giornali. Nell’aprire questo nostro incontro infatti è utile premettere innanzitutto che Benedetto XVI è sì il papa della Chiesa cattolica, e in quanto tale riveste un ruolo istituzionale importante, ma anche un uomo con una sua storia e un suo profilo umano originale e ricco e una dimensione spirituale importante per quello che ha detto, fatto e compiuto nella sua lunga vita.

Insomma innanzitutto credo bisogna sgombrare la mente dalle facili generalizzazioni di tipo giornalistico che tendono ad appiattire la personalità di un uomo complesso come Benedetto nel suo ruolo o, all’opposto, ne mostrano il lato umano come fosse un manager qualunque di una multinazionale. C’è da fuggire le semplificazioni e i sensazionalismi, così come le battute da bar. La mia impressione è che in questi giorni spesso si presentasse più una caricatura che un profilo del papa. Ma questo non perché ci sia malanimo nei suoi confronti o intenzioni persecutorie per la Chiesa, non mi sembra che ci troviamo in tempo di persecuzioni in Italia, come tanti vogliono far credere, quanto piuttosto per una innata spinta alla semplificazione da parte dei media che giudicano e sono portati a definire sbrigativamente con uno slogan persone e temi così importanti e complessi.

Basti pensare ad un fatto secondo me sconcertante. Per anni alcuni opinionisti dei media (Ezio Mauro, Vito Mancuso, ec…) hanno presentato Benedetto XVI come papa oscurantista e tradizionalista, disegnandone una caricatura a tinte fosche e senza sfumature. Oggi quegli stessi sono lì a farne gli elogi come modernizzatore e progressista, colui che ha saputo dare una svolta di novità ad una Chiesa chiusa e conservatrice. Mi sembra che qualcosa non vada sia nel primo caso che nel secondo, ed evidenzi una superficialità di giudizio tutto ideologico e sbrigativo, senza spessore di comprensione storica e spirituale.

La parola d’ordine che vorrei assumere questo pomeriggio è proprio questa: complessità e non semplificazione.

Né d’altro canto mi sembra sufficiente dare sfogo istintivo ai sentimenti di amarezza, stupore, soddisfazione, smarrimento, ecc… Certo, è la nostra reazione istintiva, ma bisogna saper dare spessore al nostro pensare e sentire.

Vorremmo allora qui partire da un profilo storico di Benedetto XVI per capirne lo spessore umano.

L'infanzia e la gioventù

Il padre, Joseph Ratzinger, era un gendarme e proveniva da una modesta famiglia di agricoltori della Bassa Baviera; la madre, Maria Rieger, era figlia di artigiani e, prima di sposarsi, aveva lavorato come cuoca in diversi alberghi. Joseph Ratzinger è nato il 16 aprile 1927.

Dopo i primi studi in seminario, all'età di 16 anni il giovane Joseph venne assegnato al programma Luftwaffenhelfer ("personale di supporto alla Luftwaffe") a Monaco e fu assegnato in un reparto di artiglieria contraerea esterno alla Wehrmacht che difendeva gli stabilimenti della BMW. Come egli stesso ricorda, nell'aprile del 1944 durante una marcia disertò, e riuscì ad evitare la fucilazione, prevista per i disertori, grazie ad un sergente che lo fece scappare. Durante tutto questo periodo non ebbe mai necessità di sparare un colpo e infatti non si trovò mai a partecipare a scontri armati.

Gli studi filosofici e teologici

Ha compiuto inizialmente i suoi studi in filosofia all'università di Monaco di Baviera e successivamente alla scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga. Il 29 ottobre 1950 fu ordinato diacono e il 29 giugno 1951 all'età di 24 anni, assieme a suo fratello maggiore Georg, fu ordinato presbitero dal cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga.

Nel 1953 discusse a Frisinga la tesi di teologia su sant'Agostino. Nel 1955 presentò la tesi di abilitazione all'insegnamento su san Bonaventura per la cattedra di teologia dogmatica e fondamentale a Frisinga.

La carriera accademica

Ratzinger divenne professore all'Università di Bonn nel 1959 e nel 1963 si trasferì all'Università di Münster.

Per il giovane professore fu un'esperienza fondamentale la partecipazione, dal 1962, al concilio Vaticano II dove acquisì notorietà internazionale. Inizialmente partecipò come consulente teologico dell'arcivescovo di Colonia cardinale Josef Frings, e poi come perito del Concilio fin dalla fine della prima sessione. Fu un periodo in cui arricchì molto le proprie conoscenze teologiche, avendo infatti avuto modo di incontrare molti teologi come Henri De Lubac, Jean Daniélou, Yves Congar, oltre a cardinali e vescovi di tutto il mondo. Durante il tempo del Concilio, per la collaborazione con teologi come Hans Küng e Edward Schillebeeckx, Ratzinger fu visto come un riformatore.

Nel 1966 fu nominato alla cattedra di teologia dogmatica presso l'Università di Tubinga.

Nel 1969 tornò in Baviera, chiamato all'Università di Ratisbona. Nel 1972 fondò la rivista teologica Communio insieme con Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac, Walter Kasper e altri. Communio, ora pubblicata in diciassette lingue, divenne un giornale di spicco del pensiero teologico cattolico nell'orizzonte contemporaneo. Fino alla sua elezione a papa rimase uno dei più prolifici collaboratori della rivista.

Arcivescovo di Monaco e Frisinga, Cardinale di Santa Romana Chiesa e Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

Il 24 marzo 1977 venne nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da papa Paolo VI ed il 28 maggio dello stesso anno ricevette la consacrazione episcopale.

Pochi mesi dopo la nomina ad arcivescovo, il 27 giugno 1977 lo stesso papa Paolo VI lo creò cardinale.

L'anno successivo prese parte al conclave dell'agosto 1978 e dell'ottobre 1978 che elessero al soglio pontificio rispettivamente Albino Luciani e Karol Józef Wojtyła. Il 25 novembre 1981 papa Giovanni Paolo II lo nominò prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale. Dal 1986 al 1992 fu inoltre chiamato a presiedere la Commissione per la preparazione del Catechismo per la Chiesa universale.

Decano del Collegio Cardinalizio

Il 27 novembre 2002 venne eletto decano del Collegio cardinalizio. Nonostante avesse avanzato più volte le richieste di congedo, mantenne il suo incarico in curia e divenne uno dei più stretti collaboratori del pontefice, soprattutto con l'aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Come decano del Sacro Collegio, venerdì 8 aprile 2005, presiedette la cerimonia funebre per Giovanni Paolo II; durante la Messa, pronunciò un'omelia in cui denunciò il pericolo di una «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e lascia come ultima misura solo il proprio io e le proprie voglie», opponendo ad essa «un'altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo», «misura del vero umanesimo», «criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità»; disse quindi che: «questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo» anche se «avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo».

L’elezione a Pontefice

Ratzinger fu eletto 265° papa durante il secondo giorno del conclave del 2005, al quarto scrutinio, nel pomeriggio del 19 aprile 2005. Nel suo primo discorso da papa, seguito dalla benedizione Urbi et Orbi, riservò un ricordo al suo amico e predecessore Giovanni Paolo II:

« Cari fratelli e sorelle, dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice ed umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere. Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua Santissima Madre, starà dalla nostra parte. Grazie. »

Domenica 24 aprile 2005 si tenne in piazza San Pietro la messa per l'inizio del ministero petrino di Benedetto XVI, il quale pronunciò un'omelia:

« Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano»

Il 7 maggio 2005 nella basilica di San Giovanni in Laterano si tenne la messa di insediamento sulla cattedra romana del vescovo di Roma. Durante l'omelia il Papa riprese il concetto di "debole servitore di Dio": «Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole - come sono fragili e deboli le sue proprie forze - costantemente bisognoso di purificazione e di conversione».

I principali temi di riflessione

La dittatura del relativismo

« Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. »

Papa Benedetto XVI ha spesso definito il relativismo l'odierno problema centrale della fede; il 6 giugno 2005, in un discorso alla Diocesi di Roma presso la Basilica di San Giovanni in Laterano, ha osservato:

« Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all'opera educativa è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l'apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione, perché separa l'uno dall'altro, riducendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il proprio "io". »

(Papa Benedetto XVI, Messaggio per la celebrazione della XLV Giornata Mondiale della Pace)

Fede e ragione

Il 26 settembre 2005 in un colloquio concesso ad Hans Küng, il Papa teologo ha «apprezzato» lo «sforzo» di Küng di «contribuire ad un rinnovato riconoscimento degli essenziali valori morali dell'umanità attraverso il dialogo delle religioni e nell'incontro con la ragione secolare», ha sottolineato che «l'impegno per una rinnovata consapevolezza dei valori che sostengono la vita umana è un obiettivo importante del suo Pontificato» e ha anche affermato di condividere il tentativo di Küng di «ravvivare il dialogo tra fede e scienze naturali e di far valere, nei confronti del pensiero scientifico, la ragionevolezza e la necessità della Gottesfrage».

 

Da questo rapido excursus biografico emerge innanzitutto il profilo di un uomo di grande cultura e di fine spiritualità. La realtà contemporanea è da lui analizzata nelle sue strutture di pensiero profonde, evidenziandone i punti più problematici e indicando le risposte della fede a livello delle radici del pensiero e delle mentalità. Questa attitudine ne ha prodotto spesso un’immagine fredda e distaccata, schiva e quasi timida nell’incontro umano, più portata alla speculazione che all’azione.

Anche se in parte c’è del vero in questo profilo della personalità di papa Ratzinger, probabilmente quello che più ha determinato questa impressione è stato il confronto con Giovanni Paolo II. Un confronto che viene spontaneo. Un pontificato così prolungato (25 anni) e così carismatico ha impresso un’impronta molto profonda sull’idea di papa nella generazione di chi l’ha avuto difronte per un tempo così lungo.

Questo è naturale e inevitabile, ma credo che dobbiamo con onestà assumerci la responsabilità di un giudizio meno emotivo. Non si possono paragonare le persone come fossero cose. Ciascuno ha la sua storia, umanità e indole. Woytila non è Ratzinger: mi sembra una banalità. Ognuno è se stesso, e anche il tempo, il mondo, le sfide di Woytila non sono quelle che ha dovuto affrontare Ratzinger, è naturale.

Giovanni Paolo II è stato eletto nel 1978 all’età di 58 anni ed ha fin da subito incarnato un’immagine di forte vitalità ed energia. Certo erano una vitalità ed un’energia che avevano il loro  fondamento non solo nella fisicità ma soprattutto in una spiritualità e fede profonda, tuttavia esse hanno segnato il suo passaggio fra gli uomini. Un gusto innato per l’incontro, un prorompente ottimismo (pensiamo alla Polonia del ’78 e al suo lavoro per l’Est Europa), l’estroversione, il valore dato al gesto e alla presenza, oltre che alle parole. Questo non vuol dire che Woytila non fosse un intellettuale colto e raffinato. Le biografie ci presentano un curriculum di studio e un impegno di riflessione filosofica e teologica non indifferente. Ma la storia e il contesto umano e sociale di provenienza lo hanno spinto in questa direzione. Non è un caso però che Woytila abbia voluto accanto a sé come valido aiuto e fidato collaboratore in un posto chiave della Chiesa proprio Joseph Ratzinger, nominato alla Congregazione per la Dottrina della fede tre nani dopo la sua elezione al soglio pontificio (nel 1981), mantenendolo in quel suo ruolo ben oltre l’età della pensione, fino alla sua morte. Woytila non era uno sciocco e la presenza di Ratzinger gli offriva il sostegno intellettuale e la garanzia di un’attenzione alle correnti del pensiero contemporaneo di cui sentiva il bisogno. Sono ridicole infatti le caricature che venivano diffuse allora delineando un papa progressista e sbilanciato verso il mondo e un Prefetto del Sant’Uffizio retrivo e conservatore. I due si capivano e agivano in piena sintonia.

L’elezione di Ratzinger al soglio pontificio ha dimostrato casomai esattamente il contrario: papa Benedetto ha sempre ritenuto di dover continuare l’impostazione del pontificato di Giovanni Paolo II, specialmente per quanto riguarda l’attuazione del Concilio, ma certo non ha mai avuto intenzione di scimmiottare un papa così diverso da sé.

Una scelta coraggiosa

La scelta di dimettersi è stata senza dubbio una scelta coraggiosa. In questo papa Benedetto ha confermato un atteggiamento che è stato costantemente suo: il coraggio di dire sempre apertamente e senza aggiustamenti ciò che riteneva giusto e vero. Le sue prese di posizione contro il relativismo o verso atteggiamento di cedimento al secolarismo sono sempre state nette e decise, senza mediazioni e compromessi. In questo senso la scelta fatta è perfettamente in linea col suo atteggiamento di ricerca intellettuale rigorosa della verità e, una volta maturato un pensiero convinto, sua affermazione senza incertezze. Questo ha scontentato molti, che avrebbero preferito uno spirito definito più “pastorale”, nel senso di disposto a tenere in contro la situazione difficile della vita di molti per guidarli con gradualità pedagogica verso la verità, ma il papa sentiva evidentemente una responsabilità grande derivante dal suo ruolo, lasciando ad altre istanze con compiti più specificamente pastorali trovare le mediazioni e le forme di attuazione dei principi da lui proclamati.

In questo ambito va collocata anche la scelta delle dimissioni: scelta meditata (per un anno circa), ponderata (come ha detto lui stesso nel famoso discorso al Concistoro dell’11 febbraio 2013), non emotiva né d’impulso, presa prima che potesse divenire impossibile maturarla e spiegarla con il necessario rigore intellettuale, come sarebbe avvenuto in caso di aggravamento dello stato di salute. Infatti il papa ha parlato sempre e solo di debolezza fisica, non di malattia, né di scoraggiamento morale.

 

Il precedente: Celestino V

Si è parlato in questi giorni del famoso precedente, le dimissioni del papa Celestino V, anche perché Ratzinger mostro, durante la visita all’Aquila del 12 febbraio 2012, una particolare venerazione per quel  papa Santo per la Chiesa.

Mi sembra utile accennare brevemente a qual papa, anche perché con il gesto di offrire il suo pallio alla tomba del santo, Benedetto ha mostrato di sentire particolarmente vicina a sé quella figura di papa.

Celestino V nacque fra il 1209 ed il 1215, fu il 192° Papa della Chiesa cattolica dal 29 agosto al 13 dicembre 1294.

Eletto il 5 luglio 1294, fu incoronato all’Aquila il 29 agosto nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove è sepolto. Celestino V fu il primo Papa che volle esercitare il proprio ministero al di fuori dei confini dello Stato Pontificio e il sesto, dopo San Clemente I, Papa Ponziano, Papa Silverio, Benedetto IX e Gregorio VI ad abdicare.

Di origini contadine, penultimo di dodici figli, da giovane, per un breve periodo, soggiornò presso il monastero benedettino di Santa Maria in Faifoli, ritirandosi nel 1239 in una caverna isolata sul Monte Morrone, sopra Sulmona. Qualche anno dopo si trasferì a Roma, presumibilmente presso il Laterano, ove studiò fino a prendere i voti sacerdotali.

Lasciata Roma, nel 1241 ritornò sul monte Morrone , in un'altra grotta, presso la piccola chiesa di Santa Maria di Segezzano. Cinque anni dopo abbandonò anche questa grotta per rifugiarsi in un luogo ancora più inaccessibile sui monti della Maiella, negli Abruzzi, dove visse nella maniera più semplice che gli fosse possibile.

Si allontanò temporaneamente dal suo eremitaggio del Morrone nel 1244 per costituire una Congregazione ecclesiastica riconosciuta da papa Gregorio X come ramo dei benedettini, denominata "dei frati di Pietro da Morrone", che ebbe la sua povera culla nell'Eremo di Sant'Onofrio al Morrone, il rifugio preferito di Pietro, e che soltanto in seguito avrebbe preso il nome di Celestini. I successivi vent'anni videro la radicalizzazione della sua vocazione ascetica e il suo distaccarsi sempre più da tutti i contatti con il mondo esterno, fino a quando non fu convinto che stesse sul punto di lasciare la vita terrena per ritornare a Dio.

Papa Niccolò IV morì il 4 aprile 1292; nello stesso mese si riunì il conclave, che in quel momento era composto da soli dodici porporati. Numerose furono le riunioni dei cardinali ma non riuscivano a far convergere i voti necessari su nessun candidato. Sopravvenne un'epidemia di peste che indusse allo scioglimento del Conclave. Passò più di un anno prima che il Conclave potesse nuovamente riunirsi, nella città di Perugia il 18 ottobre 1293.

I porporati però, nonostante le laboriose trattative, non riuscivano ad eleggere il nuovo Papa, soprattutto per la frattura che si era creata tra i sostenitori dei Colonna e gli altri cardinali. I mesi si susseguivano inutilmente e il permanere della sede vacante aumentava il malcontento popolare che si manifestava attraverso disordini e proteste, anche negli stessi ambienti ecclesiastici.

Nel frattempo, Pietro del Morrone aveva predetto "gravi castighi" alla Chiesa se questa non avesse provveduto a scegliere subito il proprio pastore. La profezia fu inviata al Cardinale Decano, Latino Malabranca, il quale la presentò all'attenzione degli altri cardinali, proponendo il monaco eremita come Pontefice; la sua figura ascetica, mistica e religiosissima, era assai nota e tutti ne parlavano con venerazione. Alla fine, dopo ben 27 mesi di sede vacante, emerse dal Conclave, all'unanimità, il nome di Pietro Angelerio del Morrone; era il 5 luglio 1294.

L'elezione unanime da parte del Sacro Collegio di un semplice monaco eremita, completamente privo di esperienza di governo e totalmente estraneo alle problematiche della Santa Sede, può forse essere spiegato dal proposito attendista di tacitare l'opinione pubblica e le monarchie più potenti d'Europa, vista l'impossibilità di eleggere un porporato su cui tutti fossero d'accordo.

Dietro consiglio di Carlo d'Angiò, trasferì la sede della Curia da L'Aquila a Napoli. Di fatto il Papa era così protetto da Carlo, ma anche suo ostaggio, in quanto molte delle decisioni pontificie erano direttamente influenzate dal re angioino.

Dopo pochi mesi giunse, poco a poco, alla decisione di abbandonare il suo incarico. In ciò sostenuto forse anche dal parere del cardinal Caetani, esperto di diritto canonico, il quale riteneva pienamente legittima una rinuncia al pontificato.

Circa quattro mesi dopo la sua incoronazione, il 13 dicembre 1294 Celestino V, nel corso di un concistoro, diede lettura di una bolla nella quale si contemplava la possibilità di una rinuncia all'ufficio di romano pontefice per gravi motivi. L'esistenza di questo documento, il cui originale ad oggi non ci è pervenuto, è ancora controversa nella storiografia.

« Ego Caelestinus Papa Quintus motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis, et melioris vitae, et coscientiae illesae, debilitate corporis, defectu scientiae, et malignitate Plebis, infirmitate personae, et ut praeteritae consolationis possim reparare quietem; sponte, ac libere cedo Papatui, et expresse renuncio loco, et Dignitati, oneri, et honori, et do plenam, et liberam ex nunc sacro caetui Cardinalium facultatem eligendi, et providendi duntaxat Canonice universali Ecclesiae de Pastore. »
« Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe [di questa plebe], al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale. »

Undici giorni dopo le sue dimissioni il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo papa nella persona del cardinal Benedetto Caetani, famiglia di Anagni rivale dei Colonna. Aveva 64 anni ed assunse il nome di Bonifacio VIII.

Celestino V fu in seguito rinchiuso da Bonifacio nella rocca di Fumone, in Ciociaria, castello nei territori dei Caetani; qui Pietro morì il 19 maggio 1296. Il 5 maggio 1313, fu canonizzato da papa Clemente V, non quale martire, come avrebbe voluto Filippo il Bello, ma come confessore.

La vicenda di Pietro da Morrone – Celestino V si inserisce però in un clima culturale e spirituale dell’Italia del 1200 in cui alcune dottrine pauperistiche e mistiche (es. Gioacchino da Fiore) proclamavano con fervore profetico l’attesa di una “renovatio temporis”, auspicio (che fu anche di Francesco di Assisi) di una riforma della Chiesa nel senso di un ritorno alla purezza e alla povertà dei tempi apostolici. Negli ultimi decenni del secolo XIII, cioè proprio quelli di Celestino, vivacissima era l’attesa di un “pastor angelicus” ceh avrebbe dovuto rinnovare profondamente la vita della Chiesa, colpita da una profonda decadenza morale e spirituale, di cui le vicende del conclave di Celestino sono un chiaro esempio. A questa attesa fa riferimento anche Dante nell’inferno che nell’allegoria del Veltro ripropone proprio quest’ansia mistica e attesa profetica del pastor angelicus che sarà un riformatore religioso e non politico.[1]

Celestino probabilmente accettando la nomina papale aveva questo intento e molti videro in lui il pastor angelicus tanto desiderato.  Ma l’impossibilità di realizzare il progetto spinse Celestino a rinunciare.

Benedetto in qualche modo si è proposto al nostro mondo, in modo analogo, come guida spirituale in un tempo di forte materialismo e secolarizzazione, cercando di essere il pastor angelicus del XXI secolo. Da ciò il forte accento sul carisma spirituale e veritativo che Benedetto ha voluto incarnare in contrapposizione netta con un tempo avvertito come foriero di pericolose deviazioni. A questo fanno riferimento i frequenti cenni a tinte fosche ad un mondo in decadenza e pericolosamente allontanatosi da Dio e a una Chiesa stessa definita senza mezze misure come traditrice dell’ideale evangelico, fin dai noti cenni alla barca di Pietro nella via crucis del 25 marzo 2005, quando, ancora cardinale disse:

Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa!”,

o quando poco prima di essere eletto papa a Subiaco nell’ambito di una conferenza dal titolo «L'Europa nella crisi delle culture», tracciò uno scenario della Chiesa in Europa e criticò fortemente «la forma attuale della cultura illuminista» che costituisce «la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell'intera umanità»,

fino ai più recenti interventi come in occasione del 50 anniversario dell’apertura del Concilio:

“In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato»”.

Sono toni fortemente allarmati che danno idea dell’inquietudine del papa per la situazione della realtà ecclesiale e sociale nel mondo di oggi.

Quanto detto finora può aiutarci a comprendere meglio il travaglio interiore e il contesto spirituale nel quale è stata maturata la scelta di Benedetto XVI.

Strane idee sui media

Come accennavo all’inizio i media hanno fatto eco a questo avvenimento moltiplicando commenti e giudizi molteplici e non sempre sufficientemente approfonditi. Fra di essi vorrei affrontarne alcuni:

“Una scelta che fa entrare la modernità nella Chiesa” così titolava il 12 febbraio La Repubblica. Ezio Mauro esaltava il gesto del papa come segno di un riconoscimento che finalmente il papa avrebbe fatto dell’inevitabile necessità per la Chiesa di conformarsi alle realtà secolari, rappresentate in questo caso dal naturale ciclo lavorativo  che vede il susseguirsi delle generazioni con il pensionamento degli anziani.

In realtà non è stata questa l’intenzione di Benedetto, il quale non si è sognato di introdurre una modifica dell’ordinamento canonico stabilendo il pensionamento dei papi. E poi per il cristianesimo la vera modernità della fede non si manifesta nel quanto è all’avanguardia secondo i parametri dell’organizzazione delle società, della loro mentalità, morale, ecc… , piuttosto quanto si identifica con i modelli mondani, presi come parametro e modello di modernità, ma nell’attualità sempre vera del Vangelo come specchio più autentico della vera umanità. La Chiesa è al massimo della modernità quando è autenticamente evangelica, e non quando è pienamente mondana.

“Una scelta di libertà” Analogamente al caso precedente la decisione del papa è stata descritta come espressione esemplare di libertà. Come dicevo, certamente la decisione è stata coraggiosa, ma la vera libertà cristiana non emerge tanto dal fatto dal fare qualcosa di anticonformista o controcorrente rispetto a una tradizione (così mi sembra era inteso dai giornali il concetto di “libertà”). Anche in questo caso piuttosto la vera libertà consiste nel vivere pienamente l’amore del Signore con scelte sì anticonformiste e controcorrente, ma rispetto al male e alle sue espressioni che a volte assumono sembianze molto ragionevoli e normali. Non si è liberi perché si è senza vincoli, ma anzi, perché ci si lega alla responsabilità di voler bene a qualcuno, rinunciando al proprio interesse (compresa la libertà) per il bene altrui. L’esempio di Gesù è chiaro: la prova più grande del suo amore, la sua crocefissione, nasce dalla rinuncia a liberarsi di una condanna immeritata per non abbandonare i suoi e poterli accompagnare fino alla loro trasfigurazione con la sua resurrezione.

“Una scelta imposta da poteri occulti” (teoria del complotto) Anche questa immagine ha avuto molto spazio. Il papa sarebbe stato costretto a dimettersi sotto ricatto di chissà quali rivelazioni da parte di poteri occulti. Non serve confutare questa teoria, lo ha fatto il papa stesso con le sue parole: “Scelgo liberamente”. D’altronde se uno vuole pensare a tutti i costi male senza avere nessuna prova…

“Una scelta di rinuncia ad affrontare problemi interni alla Chiesa, essendosi accorto di non essere in grado di risolverli” Analoga alla motivazione precedente, anche se più attenuata, mi sembra che Benedetto abbia affrontato le battaglie più dure senza timore: vedi il caso della pedofilia. Egli stesso ha dichiarato di aver scelto un momento di relativa calma per la Chiesa, per non lasciarla nel momento della difficoltà. Che poi vi siano ancora problemi aperti, questo è vero, ma fa parte delle dinamiche purtroppo inevitabili di una istituzione così grande.

“Le dimissioni come simbolo millenarista dell’imminenza della fine del mondo” (vedi profezie e predizioni varie) Mi sembra una ipotesi del tutto superstiziosa che ha la stessa fondatezza della famosa predizione dei Maya sulla fine del mondo, e si è visto come è andata a finire.

“La Chiesa e il papato ne escono rafforzati / indeboliti” Io non credo che questa scelta abbia una influenza al di là del caso singolo della decisione di papa Benedetto. Come accennavo non è stata introdotta una riforma né ipotecata la libertà dei prossimi papi di fare scelte diverse, come è avvenuto sempre fino ad oggi. La scelta di Benedetto costituisce una eccezione, non una nuova norma, e come tale non influisce sulla qualità del papato e sulla vita della Chiesa, che dipende invece sull’autenticità della fede dei cristiani, elemento molto più decisivo in questo terreno.

Non siamo autorizzati

Riportare questa vicenda al suo giusto alveo, che è quello di una vicenda molto personale, frutto di un itinerario e una storia individuali che non hanno la pretesa di dettare delle linee-guida universalmente valide, ci aiuta ad affermare con forza che nessuno è autorizzato a ricavarne messaggi impliciti non voluti nemmeno da Benedetto. Non si tratta di stabilire se il papato debba essere a tempo oppure no, questo è già regolato dal diritto canonico che ammette le dimissioni del papa (Can. 332 §2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.)

Il rischio vero infatti è che questo fatto divenga un messaggio implicito, di validità universale, quale non vuole essere. È allora lasciato alla nostra responsabilità non avallare questo tipo di ragionamento, in chiave rinunciatario di cedimento davanti a logiche mondane. Facevo gli esempi delle reazioni dei giornali, ma quanti hanno creduto di pensare che le dimissioni del papa fossero un incentivo ad ammettere il diritto a farsi da parte nei momenti di difficoltà, o a pensare l’impegno cristiano come qualcosa di temporaneo, o legato solo a situazioni particolari da cui ci si può volontariamente esimere. Oppure quanti pensano che sia un segno positivo la funzionalizzazione del ministero di papa o vescovo (ma in fondo anche di cristiano) rendendolo legato solo ad alcune incombenze, terminate la quali o non potendo espletare le quali è naturale  cessare di essere tali. Per non dire poi l’idea che la carica di pontefice si limita ad essere una realtà umana, politica e sociale, perdendo la forza spirituale di una carica voluta e sorretta costantemente dallo spirito, invocato da tutta la Chiesa perché assista e sostenga il papa. Ma poi non siamo nemmeno autorizzati a dare diritto di cittadinanza a una idea vitalistica e attivistica dell’uomo che, una volta invecchiato, non è più buono a niente. C’è poi l’idea che essere moderni o non fuori dal mondo voglia dire essere uguali al mondo. C’è una tensione costante fra la vita della fede e il mondo, come due realtà inconciliabili e in eterna dialettica, se non lotta, fino allo stabilimento del Regno nel quale la prima avrà definitivamente fagocitato il secondo, cioè il Regno di Dio.

Una ultima considerazione vorrei farla. Mi riferisco al senso di smarrimento e di “orfananza” che ha colpito tanta gente, magari anche persone tiepide nel loro credere e senza particolari legami con la Chiesa. Anche chi spesso polemizza e ci tiene a distinguersi, davanti a questa notizia ha sentito un po’ di vuoto. Questo fatto mi fa pensare che al di là di tutto, critiche, prese di distanze, condanne, ecc…, nel sentire comune la Chiesa è una riserva di umanità e di speranza senza la quale si avverte con più forza il freddo del mondo. Le dimissioni del papa hanno come fatto emergere questa coscienza profonda, anche, come dicevo in chi apertamente dice di non credere, è come se ci fossimo sentiti tutti cedere un po’ il terreno da sotto i piedi e venire a mancare un punto di riferimento certo e solido a cui ricorrere con fiducia. Come dicevo questo sentimento è fuori luogo, perché le dimissioni di Benedetto XVI non mettono in discussione la solidità del fondamento evangelico su cui poggia e opera la Chiesa, eppure rivela molto chiaramente un bisogno molto più largo di quanto all’apparenza si manifesti di un punto di riferimento umano e spirituale certo. Questo ci interroga in questo tempo di Quaresima: tutti noi dobbiamo ancor di più manifestare e incarnare questo punto di riferimento di umanità e speranza che altrove, nel mondo, non si trova. È la domanda di Gesù ai dodici “Volete andarvene anche voi?” alla quale Pietro risponde a nome di tutti, senza alcuna incertezza: “Signore, da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Tante volte noi cristiani siamo come presi dalla sindrome adolescenziale con cui i quindicenni smaniano di manifestare la loro autonomia e indipendenza, come se avere un Padre buono e una casa accogliente e umana desse loro fastidio. Preferiamo coltivare un senso di noi stessi ribelle e anticonformista, ma poi quando la casa sembra vacillare e il padre venire meno sentiamo il vuoto. Meglio allora crescere un po’ e, più maturamente, riconoscere il bisogno che abbiamo di paternità e sentirci figli di questa casa in cui siamo cresciuti e voluti bene, e come figli adulti prendiamoci anche il carico delle nostre responsabilità e diamoci da fare per tirare avanti la baracca..

Ecco allora che la conclusione che mi sembra di dover trarre da questo avvenimento è che la decisione del papa va rispettata e lui continuato ad essere amato per il tanto che ha fatto e che, ne siamo certi, continuerà a fare per il bene del mondo, con la preghiera. Allo stesso tempo il papa ha detto che ci vogliono forze nuove per combattere la lotta a cui nessuno può sentirsi escluso. È la nostra responsabilità di spendere anche le nostre di forze e di non rinunciare al cambiamento del mondo, dinamica che fonda la fede e gli dà forza e autenticità, come e dove possiamo e dobbiamo farlo.



[1] Cfr. A. Marchese, Letture critiche, inferno, Torino 1979.

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