giovedì 28 febbraio 2013

III domenica di Quaresima - 3 marzo 2013


 

Dal libro dell'Esodo 3,1-8a.13-15

In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.  Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».  Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

 
Salmo 102 - Il Signore ha pietà del suo popolo.

Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.

Il Signore compie cose giuste,
difende i diritti di tutti gli oppressi.
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie,
le sue opere ai figli d’Israele.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 10,1-6.10-12

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
 

Lode a te, o Signore, re di eterna gloria
Convertitevi, dice il Signore,
il regno dei cieli è vicino.
Lode a te, o Signore, re di eterna gloria

Dal vangelo secondo Luca 13,1-9

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

 Commento

 Cari fratelli e care sorelle, abbiamo ascoltato nella prima lettura come Dio apparve a Mosè mentre egli era impegnato nel pascolo delle pecore. Nelle occupazioni quotidiane di quel giovane pastore irrompe il tempo della presenza di Dio. È l’esperienza che anche noi stiamo vivendo in questo tempo di Quaresima, tempo di vicinanza particolare del Signore che, a sua volta, ci chiede di stargli vicino in modo speciale.

Mosè è impegnato nelle sue occupazioni ma allo stesso tempo è attento ai segni che avvengono attorno a sé e si accorge di un roveto in cui una fiamma brucia, ma non consuma. Si avvicina a quel roveto attratto dalla sua straordinarietà che irrompe come una novità grande nell’ordinario del suo vivere. Si avvicina e una voce si rivolge a lui, chiedendogli, prima di tutto di togliersi le scarpe, perché quello è luogo della presenza di Dio.

Anche a noi dentro la quotidianità delle giornate ordinarie si presenta un tempo e un luogo in cui Dio si manifesta, e lo fa con una fiamma che brucia, ma non consuma, anzi illumina e scalda. È la liturgia domenicale che ci mette in comunicazione diretta con Dio, ci fa ascoltare la sua voce e, soprattutto, ci fa provare il suo amore bruciante che non viene per consumare, ma orienta la vita e scalda il cuore.

Eppure, spesso, la nostra attenzione è presa da altro. Chini sul nostro da fare e presi da noi stessi facciamo fatica a notare quella fiamma che qui arde con passione e fedeltà. Siamo abituati, siamo distratti, siamo presi da altro. Eppure in un tempo di gran confusione e turbamento, pensiamo alla situazione italiana, con il disorientamento e l’impasse della vita politica che è seguita a questa tornata elettorale, ma anche alla situazione della Chiesa stessa, turbata dal recente termine del pontificato di Benedetto XVI, così inconsueto nei modi in cui si è verificato, e dall’imminente conclave accompagnato da polemiche e querelles. Sì nonostante la nebbia caliginosa che sembra avvolgere il mondo, noi fatichiamo ad accorgerci della luce brillante che da qui si sparge tutto attorno e nel freddo di questa stagione dell’umanità rischiamo di non avvertire il calore che da qui promana. È paradossale, ma a volte, pur essendo presenti alla liturgia domenicale, col nostro stesso modo di stare dimostriamo tutta la nostra distanza dalla fiamma di quel roveto: in ritardo, distratti, con poche domande interiori e presi da altro, partecipiamo alla manifestazione di Dio in mezzo a noi che la domenica si realizza nella liturgia. È quel “togliersi le scarpe” che è chiesto a Mosè, cioè muoversi con un passo delicato, sensibile al terreno che si calpesta e pieno di attenzioni, a cui noi facciamo fatica a sottoporci, preferendo tenere la nostra tenuta di sempre.

Da quel roveto giunge a Mosè una voce forte ed autorevole che gli dice come Dio non è indifferente alla situazione del mondo: la schiavitù di molti, il dolore, la forza con cui il male opprime e fa soffrire, non gli sono estranei. Anzi prepara per noi un esodo per raggiungere un destino diverso: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele”

Noi però, istintivamente, facciamo fatica a identificarci con queste parole. Non ci sentiamo schiavi, né in una situazione così pesante. Si tratta di quella reticenza a riconoscere il deserto umano in cui ci troviamo di cui parlavamo due settimane fa, commentando le tentazioni di Gesù. La realtà del deserto è rivelata dallo Spirito santo. Sì lo Spirito che è amore smaschera la realtà di aridità e morte in cui ci troviamo a vivere, come in un deserto. Per questo facciamo anche fatica a sentire il bisogno di quell’esodo che Dio ci propone nel tempo di Quaresima per giungere ad una terra promessa fertile di buoni frutti e benedetta dalla pace e dall’amore vicendevole. Perché incamminarsi? Perché uscire da un oggi in cui in fondo ci sentiamo confortevolmente sistemati per affrontare l’incertezza di un viaggio lungo?

Sono le domande della Quaresima, che la liturgia ci pone in questo tempo benedetto. A quelle stesse domande Mosè risponde chiedendo a Dio il suo nome: “Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?»”

Per la sensibilità di Israele il nome conteneva la realtà profonda degli esseri e conoscerlo voleva dire entrare nell’intimità di qualcuno. Il profeta dunque chiede a Dio di avvicinarlo in un rapporto stretto e personale. Per questo Mosè, unico fra gli uomini, fi chiamato “amico di Dio”: Dio parlava con lui, ci dice la Scrittura, «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11). L’esperienza di quel giovane pastore, attratto dal calore di un fuoco che brucia ma non consuma, attento a non disprezzare con passo volgare la santità del luogo e dell’ora e pronto ad ascoltare la voce di Dio che gli si manifesta lo conduce a entrare in amicizia e a portare il suo nome a tutto il popolo.

Non potrebbe essere questo anche il nostro itinerario di Quaresima?

La domenica che di settimana in settimana ci invita ad avvicinarci al fuoco dell’amore di Dio per trarne luce e calore per tutti i giorni successivi non è anche per noi il luogo per stare faccia a faccia con Lui, ascoltarlo, farci prendere dalla sua vicinanza calda e partecipe fino a divenire suoi amici?

L’alternativa, fratelli e sorelle, è quella di restare nel deserto di umanità che ci rende come quell’albero sterile di cui parla il Vangelo. Se non ci accostiamo con fiducia al roveto ardente della liturgia, se non partecipiamo con cuore aperto e sincero al banchetto in cui Gesù dona tutto se stesso per volerci bene fino alla fine, resteremo incapaci di dare buoni frutti di conversione e di perdono, amicizia e solidarietà con gli altri. Riceviamo con gratitudine le cure del buon giardiniere che è Gesù, i colpi della sua zappa ci sveglia dal torpore egocentrico e ci indicano la necessità di riscuoterci dal sonno. Il concime sparso è la sua parola che ci raggiunge ed entra in circolo, se la accogliamo.

Solo così potremo portare frutti buoni ed incamminarci con il Signore verso Gerusalemme, luogo della sua passione e morte, ma anche luogo della resurrezione che ha vinto la morte e ci ha aperto definitivamente la strada verso la terra promessa da Dio agli uomini fin dall’antichità.

 
 

Preghiere


Ti ringraziamo o Signore perché sei vicino al tuo popolo e ascolti il lamento di chi è nel dolore. Donaci la liberazione dal male che opprime e dal peccato che lo favorisce. Perdonaci sempre o Signore,

Noi ti preghiamo

Guidaci o Padre misericordioso nel cammino della Quaresima, perché docili al tuo insegnamento e attenti alla tua Parola sappiamo compiere l’esodo da noi stessi per giungere a te,

Noi ti preghiamo

Solleva, o Dio del cielo, l’indigente dalla polvere e il povero dall’immondizia, consola il misero e guarisci ogni piaga, perché il tempo che viene sia benedetto dal tuo amore,

Noi ti preghiamo

Guida i nostri passi, o Dio, perché illuminati e scaldati dal tuo amore che brucia ma non consuma sappiamo uscire dalla vita di sempre per scoprire la bellezza di stare alla tua presenza,

Noi ti preghiamo


Ti ringraziamo o Dio del dono della santa liturgia, vero angolo di paradiso che ci mostra la gloria della tua presenza. Rendici un popolo attento e una famiglia fedele che si raduna con amore reciproco attorno alla mensa dell’eucarestia,

Noi ti preghiamo

 
Accetta con benevolenza o Dio l’offerta del nostro pentimento, perché giungiamo con animo puro e perdonàti al termine del cammino di Quaresima e sappiamo restarti vicini nel tempo della passione,

Noi ti preghiamo.

 

Ti preghiamo o Dio per Benedetto che è stato per otto anni nostro papa e pastore. Guida i suoi passi in questo tempo e accompagnalo con la pace del cuore e la salute del corpo,

Noi ti preghiamo

Illumina la tua Chiesa, o Spirito di Dio, nel momento delicato dell’elezione del nuovo pontefice. Fa’ che si apra presto per tutto il popolo di Dio un tempo nuovo di frutti abbondanti di conversione e pace,

Noi ti preghiamo

 

 

mercoledì 27 febbraio 2013

Preghiera del 27 febbraio 2013, II di Quaresima


Lc 13,22-35

Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?". Disse loro: "Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: "Signore, aprici!". Ma egli vi risponderà: "Non so di dove siete". Allora comincerete a dire: "Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze". Ma egli vi dichiarerà: "Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!". Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi".

In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: "Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere".

Egli rispose loro: "Andate a dire a quella volpe: "Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme".

Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!".

Commento

Gesù è in cammino verso Gerusalemme. Continua il suo esodo che lo porta ad uscire dal mondo di sempre, con le sue contraddizioni e brutture, per giungere alla gloria della resurrezione. Come dicevamo nelle scorse domeniche, è un cammino lungo e difficoltoso, ma anche l’unica strada che ci dona salvezza e gioia.

Quel cammino ci dice l’evangelista Luca è segnato dall’incontro con tanti. Il cammino di Gesù non è di un uomo isolato, di un eroe, ma quello di un popolo che Gesù vuole come trascinarsi dietro, coinvolgendo tutti quelli che incontra nel suo stesso esodo.

Qualcuno gli pone la domanda sulla salvezza: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?". A volte anche noi ci poniamo questa domanda. La salvezza è roba da eroi, da gente dalla fede granitica, perfetti nei loro comportamenti?  

Gesù però sposta il tiro della domanda: non è questione di sapere quanto è difficile salvarsi, ma quanto io lo desidero. Questa è la vera discriminante. Chi si ferma prima a fare i calcoli se gli conviene provarci e su quante possibilità ha di riuscirci, come se valutasse se gli conviene fare la fatica di tentare, è già fuori.

Spesso quanto anche noi ci facciamo i nostri calcoli su quanto siamo disposti a concedere, fin dove arrivare, quali compromessi fare, ecc…

Gesù però pone in modo diverso i termini della questione della salvezza. Innanzitutto la porta della salvezza è stretta, cioè si entra in tanti sì, ma uno per uno, perché la soglia da varcare è il rapporto personale con Dio. Sì, come farà Dio a riconoscerci nel momento dell’incontro con lui faccia a faccia se non ci siamo mai fermati con lui, a lungo e con calma a parlare, a stare assieme, a compatirlo sofferente, a gioire con le sue gioie? Dirà: “Non ti conosco” perché non sa chi siamo.

Questa è la porta stretta, dalla quale si passa uno per uno: il rapporto con Lui. È questo l’accesso alla salvezza, e non deriva da un calcolo di convenienza, ma dalla fiducia che lui sì, ci vuol bene per primo e ci attira a sé con la sua bontà, pazienza e fedeltà.

La logica di questo rapporto personale inverte le logiche dei ruoli: chi si ritiene a posto, tanto da poter andare incontro al Signore orgogliosamente a testa alta, si rivela invece l’ultimo nel conoscerlo a amarlo. Ma chi non cerca il primo posto, ma piuttosto a testa china riconosce la propria umile piccolezza e modestia umana, si trova prediletto da Dio e amato da lui con un amore su cui non mancherà di fare affidamento, come all’unica risorsa su cui può contare. Da questo affidamento fiducioso viene la salvezza e il passaggio da quella porta stretta.

Fratelli e sorelle, la Quaresima è questa porta stretta, dalla quale siamo chiamati a passare con un incontro personale con Dio. Come suoi figli umili e pentiti avviamoci con lui nell’esodo verso Gerusalemme, lasciandoci dietro in questi giorni tanto di noi stessi che ci sembra irrinunciabile e costitutivo, am che invece è la zavorra che ci impedisce di andare avanti e ci costringe a rallentare e fermarci, stremati dalla fatica.

Gesù si commuove davanti a quella folla che gli passa accanto, magari indifferente o orgogliosamente sprezzante di quello straccione di periferia che attraversa la città santa, capitale dello stato. Non si accorgono di lui, lo disprezzano, come hanno fatto con tutti quelli che parlano di lui e a suo nome. Non si accorgeranno della sua presenza finché non scopriranno che di lui hanno bisogno e benediranno la sua presenza dicendo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”

Sia questa la nostra invocazione, e ancor prima sia questa la nostra coscienza quaresimale: benedetto non io, non il mio orgoglioso e autosufficiente pensarmi da solo, ma benedetto colui che ci ama nonostante tutto e nonostante noi, e ci chiede di venirgli incontro presentandoci a lui così come siamo, piccoli, umili, fatti male  e desiderosi di ricevere da lui la guarigione e la salvezza che, allora sì, egli ci donerà.

sabato 23 febbraio 2013

II domenica di Quaresima - 24 febbraio 2013


Dal libro della Gènesi 15,5-12.17-18

In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».

 

Salmo 26 - Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?

Ascolta, Signore, la mia voce. +
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il mio cuore ripete il tuo invito:
«Cercate il mio volto!».
Il tuo volto, Signore, io cerco.

Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.

Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 3,17-4,1

Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

 

Lode a te, o Signore, re di eterna gloria
Dalla nube luminosa, si udì la voce del Padre:
«Questi è il mio Figlio l'amato: ascoltatelo».
Lode a te, o Signore, re di eterna gloria

 

Dal vangelo secondo Luca 9, 28b-36

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

Commento

Domenica scorsa dicevamo come il tempo della Quaresima ci si propone come occasione per muoverci e  intraprendere un cammino che ci porti fuori dalla vita di sempre per andare incontro al Signore risorto. È un cammino che definivamo, sempre domenica scorsa, un’ “esodo”, cioè un’“uscita” riferendoci a Gesù che esce dal deserto della vita arida e senza umanità per realizzare con l’annuncio del Vangelo un luogo rigoglioso e accogliente, in cui è bello vivere.

Anche oggi abbiamo ascoltato il Vangelo di Luca che ci parla di un esodo: “Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.” Sì, tutta la vita di Gesù è stata un continuo pellegrinare, di villaggio in villaggio, di regione in regione, ma quel giorno, sul monte, Mosè ed Elia parlano con lui di un esodo che deve avvenire a Gerusalemme. È la passione, morte e resurrezione del Signore, vero esodo da un modo di vivere per sé stessi per giungere alla gloria della vita che non finisce più. È un cammino difficile da compiere, in mezzo ai pericoli e alla durezza della vita. Gesù lo sa bene, e nel momento più difficile, nell’orto degli ulivi, proverà paura e angoscia, ma non tornerà indietro e nemmeno si fermerà, proseguendo fino in fondo, accompagnato dall’amore del Padre.

Mentre parla dell’esodo da compiere il Signore si trasfigura apparendo ai tre apostoli nella gloria che sarà poi pienamente realizzata con la sua resurrezione. Sì perché l’esodo realizza la trasformazione della vita già mentre lo si sta compiendo. Il cammino che la Quaresima ci propone ci trasfigura mentre lo compiamo; la preghiera, il digiuno e la carità che si offrono di farsi nostre compagne in questo tempo, plasmano infatti il nostro modo di vivere, rendendolo sempre più simile a Gesù, una vera e propria trasfigurazione che ci rende uomini e donne nuovi, molto diversi da come eravamo prima di partire.

Gesù, sottolinea l’evangelista Luca, era salito su quel monte per pregare e mentre è in dialogo col Padre avviene la sua trasfigurazione. Pietro Giacomo e Giovanni invece sono “oppressi dal sonno” e si addormentano. Per loro quel luogo è uguale a qualunque altro e quell’ora è uguale a tutte le altre. Seguono il ritmo del loro corpo, con le sue esigenze naturali e le assecondano, e non si accorgono che c’è un tempo di Dio che segue ritmi diversi. Così è per la Quaresima, tempo benedetto in cui vivere un esodo da sé, ma noi preferiamo seguire i ritmi del nostro tempo, sempre uguale e regolato dai propri stati d’animo e umori, esigenze e necessità. Per questo anche per noi è così facile addormentarci, vivere cioè senza accorgerci di chi ci sta accanto e, soprattutto, senza sentire più la presenza del Signore Gesù.

Ad un certo momento però, Pietro e gli altri si svegliano, all’improvviso, scossi dal sonno da chissà cosa. Anche a noi avviene in certe situazioni che ci svegliamo dal torpore egocentrico e sentiamo la presenza di Gesù, vicina, forte e piena di gloria. Sono i momenti di lucidità legati magari alle situazioni in cui ci riscopriamo deboli e bisognosi del suo aiuto, nel dolore, nella necessità. Pietro è tutto contento, quella visione della presenza gloriosa di Dio accanto a sé lo esalta, e propone a Gesù di piantare tre tende. Ma come, Elia e Mosé stavano parlando di un esodo da compiere, di un cammino da fare e Pietro propone di fermarsi lì? Il sonno del discepolo lo rende estraneo a Gesù, completamente stonato rispetto a quello che il Signore si accinge a fare. Questo avviene anche a noi: un momento di esaltazione, l’entusiasmo di una situazione speciale ci rende felici, ma non basta per essere in sintonia con Gesù. L’evangelista Luca commenta infatti: “Egli non sapeva quello che diceva.”

Il Signore nemmeno risponde a Pietro che gli propone di fermarsi. Gesù ha una missione, ha fretta di raggiungere Gerusalemme, sa che lo attendono giorni difficili ma cruciali per la testimonianza del suo amore più forte della morte, deve arrivare alla croce per poter vincere la morte e risorgere.

Fratelli e sorelle, quanta distanza c’è fra Pietro e Gesù! Il povero pescatore si esalta per la bellezza della vita trasfigurata dall’amore di Dio, ma non capisce che essa è il risultato di un esodo da compiere, giorno per giorno, passo dopo passo, senza stancarsi né rallentare. Anche per noi è così: non basta sentirci qualche volta contenti, appagati per una cosa capita o un sentimento provato. Sì, certo, sono esperienze importanti e felici, ma devono essere solo tappe di un esodo da sé che continua, sennò il Signore andrà da un’altra parte e noi ci troveremo addormentati e sperduti, avvolti nella nebbia di una vita che non capiamo più.

Lì, in quella nebbia che avvolge i tre discepoli spauriti la voce del Padre indica ancora una volta la strada: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!” Ancora una volta Dio rivela, con paziente insistenza, come si può restare accanto al Signore Gesù e compiere con lui l’esodo, senza cadere nel sonno, e cioè ascoltandolo. Nell’ascolto del Vangelo e nel tenerselo dentro come un tesoro prezioso da ricordare e vivere quotidianamente, poco a poco, anche noi compiamo quell’esodo che ci permette di trasfigurarci e di giungere alla stessa gloria del Signore risorto. Non per un momento di esaltazione, ma per un lento e paziente esodo da sé stessi.

È l’indicazione che oggi ci proviene da questa liturgia su come vivere il tempo della Quaresima. Facciamo spazio dentro di noi alla Parola di Dio, ricordiamocela, impegniamoci a viverla. Mentre lo facciamo scopriremo che quello che ci sembrava impossibile e troppo pesante non solo si può fare, ma è il modo più felice di vivere. È quella trasfigurazione progressiva che man mano che ascoltiamo ci cambia dentro, ma anche nel nostro modo di mostrarci e di essere con gli altri.

Lasciamoci allora guidare con fiducia da quella parola che ci accompagna fedele e compiremo il nostro esodo, seguiamo Gesù che si avvia verso Gerusalemme, facciamoci compagni della sua preghiera e del suo amore generoso e non fuggiremo davanti alla paura della passione, non lo abbandoneremo e non lo rinnegheremo, ma restando con lui, fino ai piedi della croce, parteciperemo anche della sua resurrezione.

 

Preghiere
 

O Signore, ti ringraziamo perché ci inviti a salire con te sul monte della preghiera e a compiere l’esodo della Quaresima. Fa’ che sappiamo restare vigili e attenti per ascoltare la tua Parola e contemplare la bellezza della tua compagnia,

Noi ti preghiamo

 
O Padre del cielo che ci inviti ad ascoltare ogni parola del tuo Figlio, aiutaci a mettere in pratica il Vangelo che ci è annunciato e a lasciarci docilmente trasfigurare man mano che ti seguiamo,

Noi ti preghiamo

O Padre del cielo, sostienici in questo tempo di quaresima perché sappiamo digiunare da ogni spirito di contesa e insensibilità per divenire sempre più discepoli attenti alla tua parola e vigili nell’amore,

Noi ti preghiamo

 
Fa’ o Signore che nel tempo che ci separa dalla settimana di Passione ci prepariamo a non fuggire davanti alla sofferenza, ma intenerendo il nostro cuore, sappiamo restare come amici fedeli vicino alla tua croce e ad ogni uomo che soffre,

Noi ti preghiamo


Padre del cielo, ti preghiamo per tutti coloro che non ti conoscono o sfuggono dall’incontrarti. Fa’ che la nostra vita sia per loro un esempio di come, seguendoti, si possa acquistare un cuore umano,

Noi ti preghiamo


Sostieni o Signore tutti coloro che sono nel dolore. Guarisci i malati, consola i sofferenti, proteggi chi è solo e senza aiuto. Fa’ che con la nostra generosità sappiamo alleviare la fatica di vivere dei poveri che incontriamo,

Noi ti preghiamo.


Ti preghiamo o Signore per il papa Benedetto, accompagnalo nel difficile momento che attraversa e donagli serena fiducia in te, perché affronti il tempo che viene con la pace nel cuore,

Noi ti preghiamo

Guida e sostieni o Dio la tua Chiesa nel momento di grave passaggio che sta attraversando. Consola e rassicura lo smarrimento di tanti, dona a noi tutti piena fiducia nella forza dello Spirito di Cristo, unico capo del corpo della Chiesa, ora e sempre,

Noi ti preghiamo.

 

 

 

 

Incontro su Benedetto XVI in occasione delle sue dimissioni - 20 febbraio 2013


Benedetto XVI, un papa da amare, un uomo da comprendere

 Con questo titolo vorrei, un po’ provocatoriamente, rispondere a tante generalizzazioni a cui abbiamo assistito in questi giorni sui giornali. Nell’aprire questo nostro incontro infatti è utile premettere innanzitutto che Benedetto XVI è sì il papa della Chiesa cattolica, e in quanto tale riveste un ruolo istituzionale importante, ma anche un uomo con una sua storia e un suo profilo umano originale e ricco e una dimensione spirituale importante per quello che ha detto, fatto e compiuto nella sua lunga vita.

Insomma innanzitutto credo bisogna sgombrare la mente dalle facili generalizzazioni di tipo giornalistico che tendono ad appiattire la personalità di un uomo complesso come Benedetto nel suo ruolo o, all’opposto, ne mostrano il lato umano come fosse un manager qualunque di una multinazionale. C’è da fuggire le semplificazioni e i sensazionalismi, così come le battute da bar. La mia impressione è che in questi giorni spesso si presentasse più una caricatura che un profilo del papa. Ma questo non perché ci sia malanimo nei suoi confronti o intenzioni persecutorie per la Chiesa, non mi sembra che ci troviamo in tempo di persecuzioni in Italia, come tanti vogliono far credere, quanto piuttosto per una innata spinta alla semplificazione da parte dei media che giudicano e sono portati a definire sbrigativamente con uno slogan persone e temi così importanti e complessi.

Basti pensare ad un fatto secondo me sconcertante. Per anni alcuni opinionisti dei media (Ezio Mauro, Vito Mancuso, ec…) hanno presentato Benedetto XVI come papa oscurantista e tradizionalista, disegnandone una caricatura a tinte fosche e senza sfumature. Oggi quegli stessi sono lì a farne gli elogi come modernizzatore e progressista, colui che ha saputo dare una svolta di novità ad una Chiesa chiusa e conservatrice. Mi sembra che qualcosa non vada sia nel primo caso che nel secondo, ed evidenzi una superficialità di giudizio tutto ideologico e sbrigativo, senza spessore di comprensione storica e spirituale.

La parola d’ordine che vorrei assumere questo pomeriggio è proprio questa: complessità e non semplificazione.

Né d’altro canto mi sembra sufficiente dare sfogo istintivo ai sentimenti di amarezza, stupore, soddisfazione, smarrimento, ecc… Certo, è la nostra reazione istintiva, ma bisogna saper dare spessore al nostro pensare e sentire.

Vorremmo allora qui partire da un profilo storico di Benedetto XVI per capirne lo spessore umano.

L'infanzia e la gioventù

Il padre, Joseph Ratzinger, era un gendarme e proveniva da una modesta famiglia di agricoltori della Bassa Baviera; la madre, Maria Rieger, era figlia di artigiani e, prima di sposarsi, aveva lavorato come cuoca in diversi alberghi. Joseph Ratzinger è nato il 16 aprile 1927.

Dopo i primi studi in seminario, all'età di 16 anni il giovane Joseph venne assegnato al programma Luftwaffenhelfer ("personale di supporto alla Luftwaffe") a Monaco e fu assegnato in un reparto di artiglieria contraerea esterno alla Wehrmacht che difendeva gli stabilimenti della BMW. Come egli stesso ricorda, nell'aprile del 1944 durante una marcia disertò, e riuscì ad evitare la fucilazione, prevista per i disertori, grazie ad un sergente che lo fece scappare. Durante tutto questo periodo non ebbe mai necessità di sparare un colpo e infatti non si trovò mai a partecipare a scontri armati.

Gli studi filosofici e teologici

Ha compiuto inizialmente i suoi studi in filosofia all'università di Monaco di Baviera e successivamente alla scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga. Il 29 ottobre 1950 fu ordinato diacono e il 29 giugno 1951 all'età di 24 anni, assieme a suo fratello maggiore Georg, fu ordinato presbitero dal cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga.

Nel 1953 discusse a Frisinga la tesi di teologia su sant'Agostino. Nel 1955 presentò la tesi di abilitazione all'insegnamento su san Bonaventura per la cattedra di teologia dogmatica e fondamentale a Frisinga.

La carriera accademica

Ratzinger divenne professore all'Università di Bonn nel 1959 e nel 1963 si trasferì all'Università di Münster.

Per il giovane professore fu un'esperienza fondamentale la partecipazione, dal 1962, al concilio Vaticano II dove acquisì notorietà internazionale. Inizialmente partecipò come consulente teologico dell'arcivescovo di Colonia cardinale Josef Frings, e poi come perito del Concilio fin dalla fine della prima sessione. Fu un periodo in cui arricchì molto le proprie conoscenze teologiche, avendo infatti avuto modo di incontrare molti teologi come Henri De Lubac, Jean Daniélou, Yves Congar, oltre a cardinali e vescovi di tutto il mondo. Durante il tempo del Concilio, per la collaborazione con teologi come Hans Küng e Edward Schillebeeckx, Ratzinger fu visto come un riformatore.

Nel 1966 fu nominato alla cattedra di teologia dogmatica presso l'Università di Tubinga.

Nel 1969 tornò in Baviera, chiamato all'Università di Ratisbona. Nel 1972 fondò la rivista teologica Communio insieme con Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac, Walter Kasper e altri. Communio, ora pubblicata in diciassette lingue, divenne un giornale di spicco del pensiero teologico cattolico nell'orizzonte contemporaneo. Fino alla sua elezione a papa rimase uno dei più prolifici collaboratori della rivista.

Arcivescovo di Monaco e Frisinga, Cardinale di Santa Romana Chiesa e Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

Il 24 marzo 1977 venne nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da papa Paolo VI ed il 28 maggio dello stesso anno ricevette la consacrazione episcopale.

Pochi mesi dopo la nomina ad arcivescovo, il 27 giugno 1977 lo stesso papa Paolo VI lo creò cardinale.

L'anno successivo prese parte al conclave dell'agosto 1978 e dell'ottobre 1978 che elessero al soglio pontificio rispettivamente Albino Luciani e Karol Józef Wojtyła. Il 25 novembre 1981 papa Giovanni Paolo II lo nominò prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale. Dal 1986 al 1992 fu inoltre chiamato a presiedere la Commissione per la preparazione del Catechismo per la Chiesa universale.

Decano del Collegio Cardinalizio

Il 27 novembre 2002 venne eletto decano del Collegio cardinalizio. Nonostante avesse avanzato più volte le richieste di congedo, mantenne il suo incarico in curia e divenne uno dei più stretti collaboratori del pontefice, soprattutto con l'aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Come decano del Sacro Collegio, venerdì 8 aprile 2005, presiedette la cerimonia funebre per Giovanni Paolo II; durante la Messa, pronunciò un'omelia in cui denunciò il pericolo di una «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e lascia come ultima misura solo il proprio io e le proprie voglie», opponendo ad essa «un'altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo», «misura del vero umanesimo», «criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità»; disse quindi che: «questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo» anche se «avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo».

L’elezione a Pontefice

Ratzinger fu eletto 265° papa durante il secondo giorno del conclave del 2005, al quarto scrutinio, nel pomeriggio del 19 aprile 2005. Nel suo primo discorso da papa, seguito dalla benedizione Urbi et Orbi, riservò un ricordo al suo amico e predecessore Giovanni Paolo II:

« Cari fratelli e sorelle, dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice ed umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere. Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua Santissima Madre, starà dalla nostra parte. Grazie. »

Domenica 24 aprile 2005 si tenne in piazza San Pietro la messa per l'inizio del ministero petrino di Benedetto XVI, il quale pronunciò un'omelia:

« Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano»

Il 7 maggio 2005 nella basilica di San Giovanni in Laterano si tenne la messa di insediamento sulla cattedra romana del vescovo di Roma. Durante l'omelia il Papa riprese il concetto di "debole servitore di Dio": «Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole - come sono fragili e deboli le sue proprie forze - costantemente bisognoso di purificazione e di conversione».

I principali temi di riflessione

La dittatura del relativismo

« Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. »

Papa Benedetto XVI ha spesso definito il relativismo l'odierno problema centrale della fede; il 6 giugno 2005, in un discorso alla Diocesi di Roma presso la Basilica di San Giovanni in Laterano, ha osservato:

« Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all'opera educativa è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l'apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione, perché separa l'uno dall'altro, riducendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il proprio "io". »

(Papa Benedetto XVI, Messaggio per la celebrazione della XLV Giornata Mondiale della Pace)

Fede e ragione

Il 26 settembre 2005 in un colloquio concesso ad Hans Küng, il Papa teologo ha «apprezzato» lo «sforzo» di Küng di «contribuire ad un rinnovato riconoscimento degli essenziali valori morali dell'umanità attraverso il dialogo delle religioni e nell'incontro con la ragione secolare», ha sottolineato che «l'impegno per una rinnovata consapevolezza dei valori che sostengono la vita umana è un obiettivo importante del suo Pontificato» e ha anche affermato di condividere il tentativo di Küng di «ravvivare il dialogo tra fede e scienze naturali e di far valere, nei confronti del pensiero scientifico, la ragionevolezza e la necessità della Gottesfrage».

 

Da questo rapido excursus biografico emerge innanzitutto il profilo di un uomo di grande cultura e di fine spiritualità. La realtà contemporanea è da lui analizzata nelle sue strutture di pensiero profonde, evidenziandone i punti più problematici e indicando le risposte della fede a livello delle radici del pensiero e delle mentalità. Questa attitudine ne ha prodotto spesso un’immagine fredda e distaccata, schiva e quasi timida nell’incontro umano, più portata alla speculazione che all’azione.

Anche se in parte c’è del vero in questo profilo della personalità di papa Ratzinger, probabilmente quello che più ha determinato questa impressione è stato il confronto con Giovanni Paolo II. Un confronto che viene spontaneo. Un pontificato così prolungato (25 anni) e così carismatico ha impresso un’impronta molto profonda sull’idea di papa nella generazione di chi l’ha avuto difronte per un tempo così lungo.

Questo è naturale e inevitabile, ma credo che dobbiamo con onestà assumerci la responsabilità di un giudizio meno emotivo. Non si possono paragonare le persone come fossero cose. Ciascuno ha la sua storia, umanità e indole. Woytila non è Ratzinger: mi sembra una banalità. Ognuno è se stesso, e anche il tempo, il mondo, le sfide di Woytila non sono quelle che ha dovuto affrontare Ratzinger, è naturale.

Giovanni Paolo II è stato eletto nel 1978 all’età di 58 anni ed ha fin da subito incarnato un’immagine di forte vitalità ed energia. Certo erano una vitalità ed un’energia che avevano il loro  fondamento non solo nella fisicità ma soprattutto in una spiritualità e fede profonda, tuttavia esse hanno segnato il suo passaggio fra gli uomini. Un gusto innato per l’incontro, un prorompente ottimismo (pensiamo alla Polonia del ’78 e al suo lavoro per l’Est Europa), l’estroversione, il valore dato al gesto e alla presenza, oltre che alle parole. Questo non vuol dire che Woytila non fosse un intellettuale colto e raffinato. Le biografie ci presentano un curriculum di studio e un impegno di riflessione filosofica e teologica non indifferente. Ma la storia e il contesto umano e sociale di provenienza lo hanno spinto in questa direzione. Non è un caso però che Woytila abbia voluto accanto a sé come valido aiuto e fidato collaboratore in un posto chiave della Chiesa proprio Joseph Ratzinger, nominato alla Congregazione per la Dottrina della fede tre nani dopo la sua elezione al soglio pontificio (nel 1981), mantenendolo in quel suo ruolo ben oltre l’età della pensione, fino alla sua morte. Woytila non era uno sciocco e la presenza di Ratzinger gli offriva il sostegno intellettuale e la garanzia di un’attenzione alle correnti del pensiero contemporaneo di cui sentiva il bisogno. Sono ridicole infatti le caricature che venivano diffuse allora delineando un papa progressista e sbilanciato verso il mondo e un Prefetto del Sant’Uffizio retrivo e conservatore. I due si capivano e agivano in piena sintonia.

L’elezione di Ratzinger al soglio pontificio ha dimostrato casomai esattamente il contrario: papa Benedetto ha sempre ritenuto di dover continuare l’impostazione del pontificato di Giovanni Paolo II, specialmente per quanto riguarda l’attuazione del Concilio, ma certo non ha mai avuto intenzione di scimmiottare un papa così diverso da sé.

Una scelta coraggiosa

La scelta di dimettersi è stata senza dubbio una scelta coraggiosa. In questo papa Benedetto ha confermato un atteggiamento che è stato costantemente suo: il coraggio di dire sempre apertamente e senza aggiustamenti ciò che riteneva giusto e vero. Le sue prese di posizione contro il relativismo o verso atteggiamento di cedimento al secolarismo sono sempre state nette e decise, senza mediazioni e compromessi. In questo senso la scelta fatta è perfettamente in linea col suo atteggiamento di ricerca intellettuale rigorosa della verità e, una volta maturato un pensiero convinto, sua affermazione senza incertezze. Questo ha scontentato molti, che avrebbero preferito uno spirito definito più “pastorale”, nel senso di disposto a tenere in contro la situazione difficile della vita di molti per guidarli con gradualità pedagogica verso la verità, ma il papa sentiva evidentemente una responsabilità grande derivante dal suo ruolo, lasciando ad altre istanze con compiti più specificamente pastorali trovare le mediazioni e le forme di attuazione dei principi da lui proclamati.

In questo ambito va collocata anche la scelta delle dimissioni: scelta meditata (per un anno circa), ponderata (come ha detto lui stesso nel famoso discorso al Concistoro dell’11 febbraio 2013), non emotiva né d’impulso, presa prima che potesse divenire impossibile maturarla e spiegarla con il necessario rigore intellettuale, come sarebbe avvenuto in caso di aggravamento dello stato di salute. Infatti il papa ha parlato sempre e solo di debolezza fisica, non di malattia, né di scoraggiamento morale.

 

Il precedente: Celestino V

Si è parlato in questi giorni del famoso precedente, le dimissioni del papa Celestino V, anche perché Ratzinger mostro, durante la visita all’Aquila del 12 febbraio 2012, una particolare venerazione per quel  papa Santo per la Chiesa.

Mi sembra utile accennare brevemente a qual papa, anche perché con il gesto di offrire il suo pallio alla tomba del santo, Benedetto ha mostrato di sentire particolarmente vicina a sé quella figura di papa.

Celestino V nacque fra il 1209 ed il 1215, fu il 192° Papa della Chiesa cattolica dal 29 agosto al 13 dicembre 1294.

Eletto il 5 luglio 1294, fu incoronato all’Aquila il 29 agosto nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove è sepolto. Celestino V fu il primo Papa che volle esercitare il proprio ministero al di fuori dei confini dello Stato Pontificio e il sesto, dopo San Clemente I, Papa Ponziano, Papa Silverio, Benedetto IX e Gregorio VI ad abdicare.

Di origini contadine, penultimo di dodici figli, da giovane, per un breve periodo, soggiornò presso il monastero benedettino di Santa Maria in Faifoli, ritirandosi nel 1239 in una caverna isolata sul Monte Morrone, sopra Sulmona. Qualche anno dopo si trasferì a Roma, presumibilmente presso il Laterano, ove studiò fino a prendere i voti sacerdotali.

Lasciata Roma, nel 1241 ritornò sul monte Morrone , in un'altra grotta, presso la piccola chiesa di Santa Maria di Segezzano. Cinque anni dopo abbandonò anche questa grotta per rifugiarsi in un luogo ancora più inaccessibile sui monti della Maiella, negli Abruzzi, dove visse nella maniera più semplice che gli fosse possibile.

Si allontanò temporaneamente dal suo eremitaggio del Morrone nel 1244 per costituire una Congregazione ecclesiastica riconosciuta da papa Gregorio X come ramo dei benedettini, denominata "dei frati di Pietro da Morrone", che ebbe la sua povera culla nell'Eremo di Sant'Onofrio al Morrone, il rifugio preferito di Pietro, e che soltanto in seguito avrebbe preso il nome di Celestini. I successivi vent'anni videro la radicalizzazione della sua vocazione ascetica e il suo distaccarsi sempre più da tutti i contatti con il mondo esterno, fino a quando non fu convinto che stesse sul punto di lasciare la vita terrena per ritornare a Dio.

Papa Niccolò IV morì il 4 aprile 1292; nello stesso mese si riunì il conclave, che in quel momento era composto da soli dodici porporati. Numerose furono le riunioni dei cardinali ma non riuscivano a far convergere i voti necessari su nessun candidato. Sopravvenne un'epidemia di peste che indusse allo scioglimento del Conclave. Passò più di un anno prima che il Conclave potesse nuovamente riunirsi, nella città di Perugia il 18 ottobre 1293.

I porporati però, nonostante le laboriose trattative, non riuscivano ad eleggere il nuovo Papa, soprattutto per la frattura che si era creata tra i sostenitori dei Colonna e gli altri cardinali. I mesi si susseguivano inutilmente e il permanere della sede vacante aumentava il malcontento popolare che si manifestava attraverso disordini e proteste, anche negli stessi ambienti ecclesiastici.

Nel frattempo, Pietro del Morrone aveva predetto "gravi castighi" alla Chiesa se questa non avesse provveduto a scegliere subito il proprio pastore. La profezia fu inviata al Cardinale Decano, Latino Malabranca, il quale la presentò all'attenzione degli altri cardinali, proponendo il monaco eremita come Pontefice; la sua figura ascetica, mistica e religiosissima, era assai nota e tutti ne parlavano con venerazione. Alla fine, dopo ben 27 mesi di sede vacante, emerse dal Conclave, all'unanimità, il nome di Pietro Angelerio del Morrone; era il 5 luglio 1294.

L'elezione unanime da parte del Sacro Collegio di un semplice monaco eremita, completamente privo di esperienza di governo e totalmente estraneo alle problematiche della Santa Sede, può forse essere spiegato dal proposito attendista di tacitare l'opinione pubblica e le monarchie più potenti d'Europa, vista l'impossibilità di eleggere un porporato su cui tutti fossero d'accordo.

Dietro consiglio di Carlo d'Angiò, trasferì la sede della Curia da L'Aquila a Napoli. Di fatto il Papa era così protetto da Carlo, ma anche suo ostaggio, in quanto molte delle decisioni pontificie erano direttamente influenzate dal re angioino.

Dopo pochi mesi giunse, poco a poco, alla decisione di abbandonare il suo incarico. In ciò sostenuto forse anche dal parere del cardinal Caetani, esperto di diritto canonico, il quale riteneva pienamente legittima una rinuncia al pontificato.

Circa quattro mesi dopo la sua incoronazione, il 13 dicembre 1294 Celestino V, nel corso di un concistoro, diede lettura di una bolla nella quale si contemplava la possibilità di una rinuncia all'ufficio di romano pontefice per gravi motivi. L'esistenza di questo documento, il cui originale ad oggi non ci è pervenuto, è ancora controversa nella storiografia.

« Ego Caelestinus Papa Quintus motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis, et melioris vitae, et coscientiae illesae, debilitate corporis, defectu scientiae, et malignitate Plebis, infirmitate personae, et ut praeteritae consolationis possim reparare quietem; sponte, ac libere cedo Papatui, et expresse renuncio loco, et Dignitati, oneri, et honori, et do plenam, et liberam ex nunc sacro caetui Cardinalium facultatem eligendi, et providendi duntaxat Canonice universali Ecclesiae de Pastore. »
« Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe [di questa plebe], al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale. »

Undici giorni dopo le sue dimissioni il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo papa nella persona del cardinal Benedetto Caetani, famiglia di Anagni rivale dei Colonna. Aveva 64 anni ed assunse il nome di Bonifacio VIII.

Celestino V fu in seguito rinchiuso da Bonifacio nella rocca di Fumone, in Ciociaria, castello nei territori dei Caetani; qui Pietro morì il 19 maggio 1296. Il 5 maggio 1313, fu canonizzato da papa Clemente V, non quale martire, come avrebbe voluto Filippo il Bello, ma come confessore.

La vicenda di Pietro da Morrone – Celestino V si inserisce però in un clima culturale e spirituale dell’Italia del 1200 in cui alcune dottrine pauperistiche e mistiche (es. Gioacchino da Fiore) proclamavano con fervore profetico l’attesa di una “renovatio temporis”, auspicio (che fu anche di Francesco di Assisi) di una riforma della Chiesa nel senso di un ritorno alla purezza e alla povertà dei tempi apostolici. Negli ultimi decenni del secolo XIII, cioè proprio quelli di Celestino, vivacissima era l’attesa di un “pastor angelicus” ceh avrebbe dovuto rinnovare profondamente la vita della Chiesa, colpita da una profonda decadenza morale e spirituale, di cui le vicende del conclave di Celestino sono un chiaro esempio. A questa attesa fa riferimento anche Dante nell’inferno che nell’allegoria del Veltro ripropone proprio quest’ansia mistica e attesa profetica del pastor angelicus che sarà un riformatore religioso e non politico.[1]

Celestino probabilmente accettando la nomina papale aveva questo intento e molti videro in lui il pastor angelicus tanto desiderato.  Ma l’impossibilità di realizzare il progetto spinse Celestino a rinunciare.

Benedetto in qualche modo si è proposto al nostro mondo, in modo analogo, come guida spirituale in un tempo di forte materialismo e secolarizzazione, cercando di essere il pastor angelicus del XXI secolo. Da ciò il forte accento sul carisma spirituale e veritativo che Benedetto ha voluto incarnare in contrapposizione netta con un tempo avvertito come foriero di pericolose deviazioni. A questo fanno riferimento i frequenti cenni a tinte fosche ad un mondo in decadenza e pericolosamente allontanatosi da Dio e a una Chiesa stessa definita senza mezze misure come traditrice dell’ideale evangelico, fin dai noti cenni alla barca di Pietro nella via crucis del 25 marzo 2005, quando, ancora cardinale disse:

Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa!”,

o quando poco prima di essere eletto papa a Subiaco nell’ambito di una conferenza dal titolo «L'Europa nella crisi delle culture», tracciò uno scenario della Chiesa in Europa e criticò fortemente «la forma attuale della cultura illuminista» che costituisce «la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell'intera umanità»,

fino ai più recenti interventi come in occasione del 50 anniversario dell’apertura del Concilio:

“In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato»”.

Sono toni fortemente allarmati che danno idea dell’inquietudine del papa per la situazione della realtà ecclesiale e sociale nel mondo di oggi.

Quanto detto finora può aiutarci a comprendere meglio il travaglio interiore e il contesto spirituale nel quale è stata maturata la scelta di Benedetto XVI.

Strane idee sui media

Come accennavo all’inizio i media hanno fatto eco a questo avvenimento moltiplicando commenti e giudizi molteplici e non sempre sufficientemente approfonditi. Fra di essi vorrei affrontarne alcuni:

“Una scelta che fa entrare la modernità nella Chiesa” così titolava il 12 febbraio La Repubblica. Ezio Mauro esaltava il gesto del papa come segno di un riconoscimento che finalmente il papa avrebbe fatto dell’inevitabile necessità per la Chiesa di conformarsi alle realtà secolari, rappresentate in questo caso dal naturale ciclo lavorativo  che vede il susseguirsi delle generazioni con il pensionamento degli anziani.

In realtà non è stata questa l’intenzione di Benedetto, il quale non si è sognato di introdurre una modifica dell’ordinamento canonico stabilendo il pensionamento dei papi. E poi per il cristianesimo la vera modernità della fede non si manifesta nel quanto è all’avanguardia secondo i parametri dell’organizzazione delle società, della loro mentalità, morale, ecc… , piuttosto quanto si identifica con i modelli mondani, presi come parametro e modello di modernità, ma nell’attualità sempre vera del Vangelo come specchio più autentico della vera umanità. La Chiesa è al massimo della modernità quando è autenticamente evangelica, e non quando è pienamente mondana.

“Una scelta di libertà” Analogamente al caso precedente la decisione del papa è stata descritta come espressione esemplare di libertà. Come dicevo, certamente la decisione è stata coraggiosa, ma la vera libertà cristiana non emerge tanto dal fatto dal fare qualcosa di anticonformista o controcorrente rispetto a una tradizione (così mi sembra era inteso dai giornali il concetto di “libertà”). Anche in questo caso piuttosto la vera libertà consiste nel vivere pienamente l’amore del Signore con scelte sì anticonformiste e controcorrente, ma rispetto al male e alle sue espressioni che a volte assumono sembianze molto ragionevoli e normali. Non si è liberi perché si è senza vincoli, ma anzi, perché ci si lega alla responsabilità di voler bene a qualcuno, rinunciando al proprio interesse (compresa la libertà) per il bene altrui. L’esempio di Gesù è chiaro: la prova più grande del suo amore, la sua crocefissione, nasce dalla rinuncia a liberarsi di una condanna immeritata per non abbandonare i suoi e poterli accompagnare fino alla loro trasfigurazione con la sua resurrezione.

“Una scelta imposta da poteri occulti” (teoria del complotto) Anche questa immagine ha avuto molto spazio. Il papa sarebbe stato costretto a dimettersi sotto ricatto di chissà quali rivelazioni da parte di poteri occulti. Non serve confutare questa teoria, lo ha fatto il papa stesso con le sue parole: “Scelgo liberamente”. D’altronde se uno vuole pensare a tutti i costi male senza avere nessuna prova…

“Una scelta di rinuncia ad affrontare problemi interni alla Chiesa, essendosi accorto di non essere in grado di risolverli” Analoga alla motivazione precedente, anche se più attenuata, mi sembra che Benedetto abbia affrontato le battaglie più dure senza timore: vedi il caso della pedofilia. Egli stesso ha dichiarato di aver scelto un momento di relativa calma per la Chiesa, per non lasciarla nel momento della difficoltà. Che poi vi siano ancora problemi aperti, questo è vero, ma fa parte delle dinamiche purtroppo inevitabili di una istituzione così grande.

“Le dimissioni come simbolo millenarista dell’imminenza della fine del mondo” (vedi profezie e predizioni varie) Mi sembra una ipotesi del tutto superstiziosa che ha la stessa fondatezza della famosa predizione dei Maya sulla fine del mondo, e si è visto come è andata a finire.

“La Chiesa e il papato ne escono rafforzati / indeboliti” Io non credo che questa scelta abbia una influenza al di là del caso singolo della decisione di papa Benedetto. Come accennavo non è stata introdotta una riforma né ipotecata la libertà dei prossimi papi di fare scelte diverse, come è avvenuto sempre fino ad oggi. La scelta di Benedetto costituisce una eccezione, non una nuova norma, e come tale non influisce sulla qualità del papato e sulla vita della Chiesa, che dipende invece sull’autenticità della fede dei cristiani, elemento molto più decisivo in questo terreno.

Non siamo autorizzati

Riportare questa vicenda al suo giusto alveo, che è quello di una vicenda molto personale, frutto di un itinerario e una storia individuali che non hanno la pretesa di dettare delle linee-guida universalmente valide, ci aiuta ad affermare con forza che nessuno è autorizzato a ricavarne messaggi impliciti non voluti nemmeno da Benedetto. Non si tratta di stabilire se il papato debba essere a tempo oppure no, questo è già regolato dal diritto canonico che ammette le dimissioni del papa (Can. 332 §2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.)

Il rischio vero infatti è che questo fatto divenga un messaggio implicito, di validità universale, quale non vuole essere. È allora lasciato alla nostra responsabilità non avallare questo tipo di ragionamento, in chiave rinunciatario di cedimento davanti a logiche mondane. Facevo gli esempi delle reazioni dei giornali, ma quanti hanno creduto di pensare che le dimissioni del papa fossero un incentivo ad ammettere il diritto a farsi da parte nei momenti di difficoltà, o a pensare l’impegno cristiano come qualcosa di temporaneo, o legato solo a situazioni particolari da cui ci si può volontariamente esimere. Oppure quanti pensano che sia un segno positivo la funzionalizzazione del ministero di papa o vescovo (ma in fondo anche di cristiano) rendendolo legato solo ad alcune incombenze, terminate la quali o non potendo espletare le quali è naturale  cessare di essere tali. Per non dire poi l’idea che la carica di pontefice si limita ad essere una realtà umana, politica e sociale, perdendo la forza spirituale di una carica voluta e sorretta costantemente dallo spirito, invocato da tutta la Chiesa perché assista e sostenga il papa. Ma poi non siamo nemmeno autorizzati a dare diritto di cittadinanza a una idea vitalistica e attivistica dell’uomo che, una volta invecchiato, non è più buono a niente. C’è poi l’idea che essere moderni o non fuori dal mondo voglia dire essere uguali al mondo. C’è una tensione costante fra la vita della fede e il mondo, come due realtà inconciliabili e in eterna dialettica, se non lotta, fino allo stabilimento del Regno nel quale la prima avrà definitivamente fagocitato il secondo, cioè il Regno di Dio.

Una ultima considerazione vorrei farla. Mi riferisco al senso di smarrimento e di “orfananza” che ha colpito tanta gente, magari anche persone tiepide nel loro credere e senza particolari legami con la Chiesa. Anche chi spesso polemizza e ci tiene a distinguersi, davanti a questa notizia ha sentito un po’ di vuoto. Questo fatto mi fa pensare che al di là di tutto, critiche, prese di distanze, condanne, ecc…, nel sentire comune la Chiesa è una riserva di umanità e di speranza senza la quale si avverte con più forza il freddo del mondo. Le dimissioni del papa hanno come fatto emergere questa coscienza profonda, anche, come dicevo in chi apertamente dice di non credere, è come se ci fossimo sentiti tutti cedere un po’ il terreno da sotto i piedi e venire a mancare un punto di riferimento certo e solido a cui ricorrere con fiducia. Come dicevo questo sentimento è fuori luogo, perché le dimissioni di Benedetto XVI non mettono in discussione la solidità del fondamento evangelico su cui poggia e opera la Chiesa, eppure rivela molto chiaramente un bisogno molto più largo di quanto all’apparenza si manifesti di un punto di riferimento umano e spirituale certo. Questo ci interroga in questo tempo di Quaresima: tutti noi dobbiamo ancor di più manifestare e incarnare questo punto di riferimento di umanità e speranza che altrove, nel mondo, non si trova. È la domanda di Gesù ai dodici “Volete andarvene anche voi?” alla quale Pietro risponde a nome di tutti, senza alcuna incertezza: “Signore, da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Tante volte noi cristiani siamo come presi dalla sindrome adolescenziale con cui i quindicenni smaniano di manifestare la loro autonomia e indipendenza, come se avere un Padre buono e una casa accogliente e umana desse loro fastidio. Preferiamo coltivare un senso di noi stessi ribelle e anticonformista, ma poi quando la casa sembra vacillare e il padre venire meno sentiamo il vuoto. Meglio allora crescere un po’ e, più maturamente, riconoscere il bisogno che abbiamo di paternità e sentirci figli di questa casa in cui siamo cresciuti e voluti bene, e come figli adulti prendiamoci anche il carico delle nostre responsabilità e diamoci da fare per tirare avanti la baracca..

Ecco allora che la conclusione che mi sembra di dover trarre da questo avvenimento è che la decisione del papa va rispettata e lui continuato ad essere amato per il tanto che ha fatto e che, ne siamo certi, continuerà a fare per il bene del mondo, con la preghiera. Allo stesso tempo il papa ha detto che ci vogliono forze nuove per combattere la lotta a cui nessuno può sentirsi escluso. È la nostra responsabilità di spendere anche le nostre di forze e di non rinunciare al cambiamento del mondo, dinamica che fonda la fede e gli dà forza e autenticità, come e dove possiamo e dobbiamo farlo.



[1] Cfr. A. Marchese, Letture critiche, inferno, Torino 1979.