giovedì 16 marzo 2017

“La Chiesa di papa Francesco” - III incontro “Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio”




“La Chiesa di papa Francesco”
Itinerario di riflessioni, esperienze, preghiera
per una Quaresima nella gioia del Vangelo

III incontro
"Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio"
  

Compiamo oggi il terzo “passo” del nostro cammino di Quaresima, dopo il primo incontro il mercoledì delle ceneri in cui abbiamo riflettuto sulla “Chiesa in uscita” di papa Francesco e il secondo, sabato scorso, in cui abbiamo incontrato i poveri alla stazione di Terni.
Oggi ci vogliamo soffermare su quello che abbiamo vissuto sabato scorso, riflettendo sul nostro rapporto con i poveri.
Papa Francesco con quella sua famosa espressione pronunciata in uno dei suoi primissimi interventi pubblici, tre giorni dopo la sua elezione, che si può definire come programmatica del suo papato: “Come mi piacerebbe una Chiesa povera e per i poveri![1] ha voluto esprimere la necessità di ristabilire quella centralità dei poveri e della povertà che il Concilio aveva con forza evidenziato.

Bisogno di chi?
Il 18 maggio 2013 papa Francesco così diceva durante la veglia di Pentecoste in piazza San Pietro: “Quando io andavo a confessare nella diocesi precedente, venivano alcuni e sempre facevo questa domanda: «Ma, lei dà l’elemosina?» «Sì, padre!». «Ah, bene, bene». E gliene facevo due in più: «Mi dica, quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui dà l’elemosina?» «Ah, non so, non me ne sono accorto». Seconda domanda: «E quando lei dà l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?». Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri.”[2]
Con questa semplice affermazione, che sembra solo un raccontino da parroco di campagna, Francesco metteva in evidenza alcune cose significative sul tema su cui oggi ci soffermiamo.
1.     Il papa opera una inversione di prospettiva. Quando si parla di poveri nella Chiesa si pensa ad essi come ad un problema sociale di cui essa si prende cura. Il volontariato cioè darebbe una risposta alle emergenze sociali e in qualche modo supplisce alle carenze dell’assistenza pubblica italiana. Senza entrare nelle polemiche se questo sia giusto, opportuno o meno, insomma si evidenzia come il volontariato cristiano è il modo con cui alcuni volenterosi cercano di rispondere ai grandi bisogni dei poveri.
Francesco capovolge la prospettiva: il rapporto con i poveri nasce da un bisogno dei cristiani. È innanzitutto la risposta al loro bisogno di entrare in un rapporto stretto, “carnale” con Cristo. Siamo noi ad avere bisogno di un rapporto con essi per non essere estranei a Cristo.
È un po’ come se dicessimo che fare la comunione è necessario perché sennò che facciamo di tutte quelle ostie consacrate? Qualcuno dovrà pure mangiarle! In realtà sappiamo bene che siamo noi ad aver bisogno di nutrirci del corpo e del sangue di Cristo, e la nostra vita spirituale deperisce se non lo facciamo. È essenzialmente il nostro bisogno a motivare la celebrazione del sacramento dell’Eucarestia, e non il bisogno del corpo di Cristo di essere mangiato!

2.     Il nostro rapporto con i poveri è qualificante del giudizio di Dio sulla nostra vita. Non è un caso che il racconto del papa si colloca all’interno della confessione, cioè del momento delicato in cui sciogliamo il nostro peccato davanti a Dio perché lo perdoni. Francesco evidenzia che comunemente il modo con cui noi ci rapportiamo con i poveri non viene tenuto in considerazione nel fare il “bilancio” della propria vita davanti a Dio. Il papa non fa che attualizzare il testo di Mt 25: “ero affamato e non mi hai dato da mangiare, nudo e non mi hai vestito…” aggiungendo “ho un corpo, e tu non te ne sei nemmeno accorto…

3.     Il vero incontro con i poveri non può che essere un rapporto personale; graduale, come tutti i rapporti personali, che ha bisogno di essere iniziato, costruito, coltivato, goduto. Questo esprime la gradualità dei termini del racconto: prima dare una elemosina, poi guardare negli occhi, e infine toccare la carne. È il cammino del cristiano che entra in intimità con Cristo, cioè l’incontro con i poveri è una porta che dà accesso a Cristo, non l’unica, ma nemmeno una secondaria, se consideriamo che su questo saremo giudicati. Si veda Evangelii Gaudium: “Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, … ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro”.[3]

4.     Infine il papa dice: “Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri.” Cioè “toccare” il corpo dei poveri, ovvero non fermarsi ad un rapporto superficiale e sbrigativo ma personale e profondo restituisce ai poveri, e ce la fa scoprire, tutta la dimensione umana dei poveri, che è fisica (toccare la carne) e spirituale (il dolore dei poveri). In qualche modo voler bene alle loro necessità fisiche è la chiave d’accesso all’universo umano e spirituale dell’uomo. In un mondo in cui o si enfatizza la dimensione materiale, per cui vale solo ciò che ha valore, si compra, è quotato in borsa, ecc.. , o si vede solo la dimensione spirituale, per cui tutto è psicologia, sentirsela, sentimento, passione, ecc… i poveri ci introducono a maturare una dimensione equilibrata e vera dell’uomo: corpo e spirito, bisogni fisici e necessità spirituali.

Il posto dei poveri nella Chiesa
Ma poi papa Francesco mette in luce anche un altro aspetto del rapporto dei cristiani con i poveri. Quanto detto infatti prima a livello personale, vale altrettanto se lo proiettiamo a livello comunitario-ecclesiale. Cioè non solo la Chiesa fa un servizio per i poveri, ma riceve da loro molto di più. In che senso?
Un altro famoso Papa santo, Giovanni XXIII, in un suo discorso a un mese dall’apertura del Concilio disse: “La Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri.”[4] Che la Chiesa sia “di tutti”, se vogliamo, è già contenuto nel termine cattolica, cioè universale, ma proprio per questo Giovanni sente il bisogno di sottolineare che la Chiesa senza i poveri non è completa. Essi occupano un posto al suo interno indispensabile e insostituibile. La Chiesa senza i poveri è menomata, parziale, come una chiesa senza bambini, o senza anziani, o senza uomini, solo per le donne.
Francesco ha chiaro che bisogna restituire ai poveri il posto che disattenzione e dimenticanza gli hanno sottratto, relegandoli al posto di clienti, fruitori di servizi, invece che fratelli a pieno titolo, anzi privilegiati.
Per essere di tutti, la Chiesa deve comprendere i poveri, anzi essi sono la garanzia che essa non è settaria, parziale, elitaria. Se in essa i poveri si trovano a loro agio, se essi hanno un posto privilegiato, ebbene vuol dire che veramente la Chiesa è universale, sennò è un club di amici, destinata a scomparire, come dice Francesco:  “Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti.[5]
Anzi per Francesco il posto dei poveri nella Chiesa ha un fondamento cristologico: “Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso «si fece povero (2 Cor 8,9).”[6] Escluderli dal suo interno significa fare fuori Gesù, come dei figli che si vergognano delle umili origini del proprio padre.

Il fatto che i poveri abbiano un posto al centro e non a fianco della Chiesa significa che essi devono essere inclusi nelle dinamiche e attività ecclesiali. Anche essi cioè vanno coinvolti, evangelizzati, resi partecipi della celebrazione liturgica, catechizzati, responsabilizzati dell’annuncio, ecc…: “Desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.”[7] Possiamo in sintesi dire, sempre usando un’espressione cara a papa Francesco, che le periferie devono trovare un posto al centro.

Ma non è solo questo. La centralità dei poveri nella vita della Chiesa significa anche un’altra cosa, e cioè che il servizio di aiuto ai poveri non è qualcosa di meramente sociale o burocratico, ma ha un forte valore sacramentale. È servizio al corpo di Cisto, è presenza di Dio, il luogo del servizio ai poveri è terra santa nella quale vanno tolte le scarpe, come Mosè davanti al roveto ardente (Es 3,5). Per questo non possiamo applicare criteri sociologici, politici, economici, ecc.. ma solo la logica della misericordia e dell’amore di Dio, che a volte è così contraddittoria e paradossale: “Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro «la sua prima misericordia». Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere «gli stessi sentimenti di Gesù» (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri intesa come una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa».”[8] Possiamo dire in questo caso che avviene così un movimento di senso opposto a quello indicato prima, e cioè che è il centro che si sposta e va in periferia, sì perché il centro della Chiesa è Cristo, e Cristo è uomo di periferia, nato, vissuto e morto fuori dalla capitale, socialmente umile, estraneo ai circoli di quelli che contavano e decidevano le sorti politiche, sociali e culturali del tempo. I poveri spingono i cristiani a questo movimento di “esodo” da quelli che sono considerati i  “centri” che contano per scoprire il vero centro della vita di fede, cioè la periferia.

I poveri sono maestri, ma non nel senso di comunicazione di una sapienza mondana. In questo senso essi non sono migliori di noi, spesso imbevuti di pregiudizi e false idee. Ma sono maestri perché portatori di una sapienza spirituale che la loro stessa realtà comunica: “[I poveri] con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa.[9]

Il servizio ai poveri non è una professione o una specializzazione solo di alcuni, chi è portato o chi è incaricato o chi è formato a questo scopo. È piuttosto l’esercizio ordinario della pratica di fede, tanto quanto andare a messa, fare la comunione, pregare o leggere la Scrittura. Non sono cose solo per esperti, ma esercizio dell’ordinaria vita cristiana: “Nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. … nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale.[10]

Infine il rapporto con i poveri è in qualche modo una verifica dell’autenticità evangelica della vita di una chiesa o comunità cristiana: “Quando san Paolo si recò dagli Apostoli a Gerusalemme per discernere se stava correndo o aveva corso invano (cfr. Gal 2,2: “Quattordici anni dopo, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Bàrnaba, portando con me anche Tito: vi andai però in seguito a una rivelazione. Esposi loro il Vangelo che io annuncio tra le genti, ma lo esposi privatamente alle persone più autorevoli, per non correre o aver corso invano.”), il criterio-chiave di autenticità che gli indicarono fu che non si dimenticasse dei poveri (cfr. Gal 2,10: riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi. Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare.)."[11] 

I poveri sono decisivi nella missione che definisce l'essenza della Chiesa: "La bellezza stessa del Vangelo non sempre può essere adeguatamente manifestata da noi, ma c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via.”[11] In questa espressione troviamo un grande suggerimento per la missione. Infatti troppo spesso si pensa ad essa come a qualcosa per la quale bisogna fare affidamento sulle “doti attrattive” di qualcuno: la simpatia, la capacità di parlare e intrattenere, le doti di cantare, suonare strumenti, organizzare e gestire eventi, ecc… In realtà Francesco sa che non sono queste doti a contare, cioè ad essere attrattive e affascinanti, quanto piuttosto il fatto che una comunità lascia trasparire il proprio amore per i poveri,  l’umanità piena della vita cristiana che tiene conto e privilegia proprio i più deboli e fragili e se ne prende cura come fratelli e sorelle. In fondo tanto dell’affetto e della stima per papa Francesco, anche in ambienti non cristiani o non favorevoli alla Chiesa, deriva proprio da questo suo atteggiamento di amore privilegiato per i poveri. È una preziosa indicazione missionaria che richiama non un uso strumentale dei poveri ma il fatto che, come già detto prima, essi sono la prova dell’autenticità della vita evangelica di una comunità cristiana.







[2] Discorso pronunciato a San Pietro durante la veglia di Pentecoste del 18 maggio 2013.
[3] EG 198.
[4] Radiomessaggio dell'11 settembre 1962.
[5] EG 207.
[6] EG 197.
[7] EG 200.
[8] EG 198.
[9] EG 198.
[10] EG 201.
[11] EG 195.

sabato 11 marzo 2017

II domenica di Quaresima - Anno A - 12 marzo 2017




Dal libro della Genesi 12, 1-4
In quei giorni, il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.

Salmo 32 - Donaci, Signore, la tua grazia: in te speriamo.
Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 1, 8b-10
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.

Lode  a te, o Signore re di eterna gloria!
Dalla nube luminosa, si udì la voce del Padre:
«Questi è il mio Figlio amato: ascoltatelo».
Lode  a te, o Signore re di eterna gloria!

Dal vangelo secondo Matteo 17, 1-9
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».  All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

Commento
Cari fratelli e care sorelle, con questa seconda domenica continuiamo il nostro cammino di Quaresima . Già due tappe sono state percorse: il mercoledì delle ceneri, quando abbiamo assunto l’umiltà di guardare con onestà alla nostra vita, e domenica scorsa, quando questo nuovo atteggiamento ci ha fatto cogliere la vera realtà del mondo in cui ci troviamo.
Infatti dicevamo, proprio una settimana fa’, che la nostra condizione è il deserto in cui Gesù è tentato: sterilità, solitudine, assenza di vita, cioè del necessario per condurre un’esistenza veramente umana. È il deserto umano delle relazioni, dell’organizzazione sociale, della condanna di tanti alla solitudine quando non alla miseria o a subire guerre e violenze. Lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, tanto da esserci abituati ad esso, e tante volte il deserto diventa un luogo familiare, il nostro modo di vivere abituale e normale. Per questo la prima lettura dal libro della Genesi oggi ci ripete l’invito rivolto da Dio ad Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò.” C’è bisogno di intraprendere un esodo dal deserto al quale ci siamo rassegnati, così da sentirlo ormai la nostra terra, la casa dei nostri padri. Dio ci chiede di renderci conto di come l’umanità si è ridotta a vivere, per il rifiuto di abitare il giardino rigoglioso che al momento della creazione egli aveva preparato come il luogo migliore per la nostra vita.
Il male ha messo radici nel nostro cuore suscitando l’orgoglio di voler fare con le proprie forze, di fidarsi solo di se stessi. “So da me cosa è il male e cosa è il bene, nessuno deve venire a dirmelo”, diciamo da allora orgogliosi, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: egoismi, miseria nera e ricchezze sfacciate, guerre a vantaggio di pochi con migliaia di vittime civili innocenti, chiusure degli occhi e dei cuori davanti a chi chiede aiuto in fuga da violenza e miseria. Eppure noi paradossalmente sentiamo questo mondo, così come è fatto, come la mia terra, la mia casa alla quale siamo affezionati e che vogliamo conservare.
Abramo invece accettò l’invito di Dio ad uscire dalla terra in cui era nato e invecchiato. Ma cosa lo convinse? Promesse di arricchimento e di successo? La prospettiva di divenire un potente della terra?
No,la promessa di Dio è quella di un futuro migliore per la sua discendenza: “Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra.” La prospettiva di Dio, la promessa ad Abramo, è tutta proiettata al bene di quelli che verranno dopo, alle generazioni future, ai figli e ai figli dei figli. Per il suo presente Dio ad Abramo non prospetta altro che la fatica del viaggio, di un’uscita dal luogo conosciuto e familiare per affrontare l’incertezza, forse anche pericoli. Eppure Abramo accetta, sa guardare oltre il proprio piccolo ristretto interesse, anzi con sapienza vede che il proprio interesse, quello che Dio indica con la frase: “renderò grande il tuo nome” è nell’aprire un orizzonte di vita migliore all’ultimo scorcio della propria vecchiaia, ma soprattutto nel lasciare in eredità a quelli che verranno dopo di sé un mondo migliore, la terra buona promessa da Dio.
Se ci pensiamo è quello che oggi fanno tanti migranti che fuggono dai deserti dei loro paesi, resi inadatti alla vita umana dalla violenza e dalla miseria, e affrontano un viaggio di uscita, faticoso e rischioso, ma con la prospettiva di offrire alla propria famiglia un futuro, la terra buona promessa da Dio. Sì essi hanno fame di futuro buono e sono disposti a sacrificare tutto il loro presente per trovare quella benedizione che Dio ha promesso ad Abramo in una nuova terra.
Ma noi, che in questa terra già abitiamo, invece di ricevere e accogliere la benedizione di Dio condividendola con chi non ha niente, ci rendiamo maledetti ai suoi occhi con l’egoismo e la chiusura, i muri e l’odio, il rifiuto di aprirci all’accoglienza. Così facendo la nostra generazione per conservare egoisticamente il proprio privilegio, preparato per noi dalle generazioni precedenti, sta avvelenando la nostra terra con una semina di odio che non potrà dare altro che frutti avvelenati per un lungo tempo a venire.
Dio oggi, in questo tempo di Quaresima, torna a proporci di non sentire nostra la terra dell’ingiustizia e dell’iniquità maledetta dal privilegio di pochi a danno dell’esclusione di molti, ma di compiere un viaggio che ci fa uscire dalla mentalità del deserto umano e ci fa incamminare verso il giardino rigoglioso.
Cari fratelli e care sorelle, la Quaresima è un’opportunità che ci viene offerta di cominciare a seminare semi buoni di amore, generosità, accoglienza, perché il deserto nel quale vaghiamo inquieti e scontenti piano piano si trasformi nel giardino rigoglioso che Dio vuole. Egli ha previsto che in esso ci siano frutti buoni per tutti, spazio per tutti, siamo noi ad averlo reso un deserto con la mentalità del privilegio e dell’egoismo. Incamminiamoci dietro a Gesù in questa terza tappa, e già potremo intravvedere la bellezza affascinante e inattesa della terra promessa ad Abramo e a quanti, uscendo con lui dalla terra dei padri, appartiene alla sua discendenza.


Preghiere 

Ti preghiamo o Signore nostro perché viviamo in questo tempo di Quaresima la tristezza per il nostro peccato, nella serena fiducia che se ti veniamo incontro potremo ricevere il perdono.
Noi ti preghiamo


Donaci in questo tempo o Dio di vivere nell’ascolto della tua Parola, perché vinciamo ogni paura e ci incamminiamo fiduciosi verso la gioia della Pasqua.
Noi ti preghiamo


Accogli o Padre il nostro sforzo di uscire come Abramo dal deserto umano, per metterci in cammino verso la terra promessa di una vita convertita all’amore e all’accoglienza.
Noi ti preghiamo


Guarda con amore alla tua Chiesa o Padre del cielo, perché questo tempo di Quaresima sia per tutti i tuoi discepoli un tempo di ascolto della Parola e di conversione del cuore.
Noi ti preghiamo




Sostieni con il tuo amore, o Padre misericordioso, quanti soffrono per la miseria e l’abbandono e tutti quelli che si sforzano di essergli vicini. Uniscili nella benedizione di una vita consolata e beata.
Noi ti preghiamo



Con insistenza o Dio ti preghiamo perché tu soccorra tutte le vittime di ogni conflitto e guerra nel mondo. Fa’ che chi è sopravvissuto alle violenze trovi consolazione e riparo e chi è morto riposi in pace nel tuo amore.
Noi ti preghiamo.



Benedici o Dio il papa Francesco e sostieni il suo impegno di indicare Te come unica via per la felicità dell’uomo. Rafforza quanti cercano in lui una guida e un esempio per esserti più vicini.
Noi ti preghiamo


Proteggi tutti i cristiani perseguitati per la loro fede nel tuo Nome. Fa’ che si aprano ponti di comprensione fra i popoli e le religioni, così che nessuno più soffra e sia discriminato.
Noi ti preghiamo


sabato 4 marzo 2017

I domenica di Quaresima - Anno A - 5 marzo 2017




Dal libro della Gènesi 2, 7-9; 3, 1-7
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Salmo 50 - Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; +
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5, 12-19
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato.... Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.  Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

Lode a te, o Signore, re di eterna gloria!
Non di solo pane vive l'uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Lode a te, o Signore, re di eterna gloria!

Dal vangelo secondo Matteo 4, 1-11
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. 

Commento

Cari fratelli e care sorelle, abbiamo cominciato mercoledì scorso con il segno delle ceneri il tempo di Quaresima che ci conduce fino alla Pasqua. È questo un gesto con il quale abbiamo voluto indicare l’umiltà di riconoscerci bisognosi che Dio ci indichi una via per uscire dal deserto della nostra vita. Perché spesso non ce ne rendiamo conto, ma il nostro mondo si presenta sotto forma di un deserto di umanità, nel quale la vita stenta a fiorire e a fruttificare. Nel deserto la vita è ridotta al minimo, alla sopravvivenza, sterile e rinsecchita, sotto il segno della penuria. Questo lo vediamo nei rapporti umani, da cui raramente emerge la gioia della fraternità e dello scambio generoso di gesti di amore; nella vita sociale, dettata così spesso dall’indifferenza o dallo sfruttamento dell’altro per il proprio vantaggio; nei rapporti fra popoli e società, determinati dalla paura e dalla diffidenza, dalla chiusura e dall’interesse al mantenimento dei propri privilegi.
Eppure, abbiamo ascoltato nella prima lettura dal libro della Genesi, Dio aveva desiderato per l’uomo la vita nel giardino più meraviglioso possibile, lussureggiante e pieno di frutti buoni. È questo il sogno di Dio per l’uomo, ma, abbiamo ascoltato, l’uomo ha preferito escludersi da questa prospettiva e, piano piano, la sua vita si è ridotta al deserto di cui parlavo.
Anche Gesù sperimenta la vita nel deserto, anzi proprio da lì comincia il suo ministero, come a dire che da lì dobbiamo partire per riconoscere il nostro bisogno di uscirne ed esserne salvati. Perché Gesù vuole riportarci al giardino fertile, restaurare quell’amicizia con Dio che lo rende rigoglioso.
Il primo aspetto della vita nel deserto che Gesù sperimenta è l’assenza di cibo. L’umanità deperisce e infine muore per assenza di un nutrimento adeguato.
Eppure, potremmo dire, a noi il cibo corporale non manca, anzi spesso dobbiamo limitare gli eccessi con diete, ed anche il nutrimento del proprio ego ci viene fornito abbondantemente dal mondo. Tanto spesso ci abbuffiamo letteralmente di cibi che gonfiano il nostro io fino a farlo crescere a dismisura tanto che non vediamo niente altro al di fuori di sé stessi. E questi cibi sono la convinzione di esser nel giusto, di sapere come si vive, come ci si comporta, l’autoconsiderazione orgogliosa, del credersi già a posto, l’autosufficienza nei giudizi e nell’agire. Il Vangelo di oggi ci mette in guardia, perché questo cibo gonfia l’io, ma non nutre l’anima, e per questo porta alla morte interiore, senza che noi ce ne accorgiamo, perché, al contrario, ci sentiamo sazi.
Gesù nel deserto sente fame, e il diavolo per soddisfare questo bisogno così naturale  gli propone vie facili per accontentarsi del cibo a buon mercato sempre a disposizione; il Signore però le rifiuta, perché sa che quello non è un nutrimento sostanzioso, ciò di cui si avverte la mancanza nel deserto. Impariamo anche noi a sentire fame e sete di parole vere e buone, di esempi di giustizia e di amore, di insegnamenti che spengono la fame vera e fanno crescere e non solo gonfiarsi. Il Signore dice: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». Ecco allora la prima indicazione preziosa. L’ascolto della Parola ci accompagni come un’amica preziosa, in questo tempo e per tutta la nostra vita, un ascolto che diventa memoria e, come ogni cibo che mangiamo, entra nelle vene e nutre la nostra vita dandogli forza, energia, calore e senso.
Ma poi, dopo la fame, Gesù sperimenta un altro aspetto della vita del deserto, e cioè che in esso, essendo poche le risorse a disposizione, tutto viene accaparrato e usato per se stessi. Persino Dio, suggerisce il diavolo, ha un senso se ci è utile, se ci può far comodo. È una condizione così comune che viviamo con naturalezza, tanto da sentirla come una sapienza condivisa e da tramandare ai nostri figli: “pensa prima di tutto a te stesso, preoccupati di quanto è necessario a te e ignora il bisogno degli altri, perché non venga a mancartene!” Sì, perché il deserto è una condizione esistenziale così radicata in noi che anche quando siamo nell’abbondanza tutto ci sembra necessario e da trattenere gelosamente per sé. Lo pensiamo dei beni materiali, ma anche delle proprie risorse umane e capacità, del tempo, delle attenzioni: tutto, ci insegna il deserto, va trattenuto per sé. A questa tentazione Gesù risponde ricordandoci che nella vita tutto ciò che abbiamo ci è dato da Dio, che il suo amore viene prima, perché egli sa di cosa abbiamo bisogno e non ci fa mancare il necessario. Per questo ci richiama a dare a lui il primo posto perché da lui impariamo la generosità che sa condividere e mettere al servizio degli altri ciò che abbiamo a disposizione.

Cari fratelli e care sorelle, le risposte di Gesù al diavolo ci fanno comprendere che il deserto è innanzitutto una mentalità, alla quale spesso ci adattiamo e alla quale ci affezioniamo, preferendola ad altri possibili modi di vivere. Ma ad essa il Signore si ribella, non accettandola come normale, non adattandosi a sopravvivervi alla meno peggio, o anche riscuotendo successo e con ruoli di rilievo, ma sempre dentro un deserto. Sì, il deserto è un modo di reagire e giudicare, con l’avarizia e la sterilità di chi accetta di vivere una vita che proprio per la sterilità del contesto è stentata e senza forza, spenta, consumata e quasi esaurita. Bisogna incamminarsi e uscire fuori da questa mentalità, uscire da essa seguendo i passi che Gesù ci indica per riscoprire una nuova vita, la vera vita, rigogliosa e piena di frutti, energica, forte, che non si chiude ma condivide, che non accumula ma dona, che non è avara ma generosa, la vita che Dio aveva pensato fin dalle origini per l’uomo. È il giardino rigoglioso, la terra promessa verso la quale Gesù in questa Quaresima vuole condurci. Ma per avere la forza e il desiderio di incamminarci con lui dobbiamo partire dalla coscienza chiara della tristezza e del vuoto del deserto. Da questo cominciamo con onestà e lucidità spirituale, per poter incontrare ed accogliere con gratitudine e gioia la salvezza del Signore, senza accontentarci di meno.

Preghiere 

O Signore ti ringraziamo perché ci doni la sapienza del Vangelo per resistere ai suggerimenti del tentatore. Fa’ che sappiamo riporre in esso la nostra fiducia.
Noi ti preghiamo


O Dio donaci la forza di resistere alla tentazione di una vita spesa senza ricordarmi di te e preoccuparmi per i fratelli. Fa’ che ciascuno di noi sappia mettere in pratica le parole del vangelo.
Noi ti preghiamo


Aiutaci o Signore in questo tempo di Quaresima a riconsiderare le scelte della nostra vita, perché sappiamo riformarla secondo il tuo esempio e insegnamenti.
Noi ti preghiamo


Guida i nostri passi o, Padre del cielo, fuori dal deserto di vita nel quale il mondo ci trattiene. Fa’ che sperimentiamo la gioia e la bellezza d’incamminarci seguendo te verso i pascoli erbosi che il Vangelo ci indica.
Noi ti preghiamo



Guarda con amore o Padre alle vittime dei conflitti che insanguinano tanti paesi della terra, perché chi è nel dolore sia consolato e chi ha perso la vita sia accolto nel tuo abbraccio amorevole.
Noi ti preghiamo


Sostieni o Dio con il tuo amore tutte le vittime delle ingiustizie, i dimenticati e i miseri. Accogli la loro invocazione di un  tempo di riconciliazione e pace, perché chi è nel dolore sia consolato,
Noi ti preghiamo.



Proteggi dal male o Signore tutti coloro che sono perseguitati per la loro fede in te, proteggi chi soffre a causa del vangelo e del suo amore per la giustizia.
Noi ti preghiamo


Guida i tuoi figli o Dio del cielo perché con il loro operato e le loro parole siano testimoni credibili del Vangelo e indichino a chi ancora non ti conosce la strada che conduce alla gioia dell’essere tuoi discepoli.
Noi ti preghiamo

giovedì 2 marzo 2017

Mercoledì delle ceneri - preghiera comune




Dal Vangelo secondo Matteo 6,1-6.16-18
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 
Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».  

Commento

Care sorelle e cari fratelli, ci siamo raccolti in preghiera questa sera, al termine della giornata per varcare la porta che ci immette nel tempo benedetto della Quaresima.
Questi 40 giorni ci sono donati come l’occasione propizia per maturare la coscienza del buio nel quale siamo avvolti, e che spesso, nella fretta della vita quotidiana, ci sfugge. Buio di prospettive, vuoto di parole vere, assenza di sentimenti, di propositi buoni. Ma, allo stesso tempo, essi sono l’occasione per renderci conto che all’orizzonte della nostra vita una luce splende. Sì, il Signore non ci ha lasciato nella prigione della nostra autosufficienza cieca e sorda, che si esprime soprattutto nell’arroganza di credere di saperci dare da noi stessi la nostra salvezza. Infatti l’uomo pensa di conoscere già la propria salvezza perché crede di sapere già voler bene. Questo è il nostro più grande orgoglio: credere di saper già amare, di farlo già abbastanza, di non aver bisogno di impararlo e di riceverlo da altri che da noi stessi.
Il Signore ha pietà di questo nostro orgoglio e viene in nostro soccorso, ci indica il cammino per scoprire la vera luce che illumina il nostro buio. Questa luce è il Vangelo. A questa luce questa sera ci volgiamo con la nostra preghiera, perché essa illumini i nostri passi in questo tempo di Quaresima.
Il Vangelo ascoltato parla della nostra arroganza autosufficiente: crediamo di saper già, di conoscere abbastanza, di aver già capito, e per questo tutte le nostre azioni iniziano e finiscono in noi stessi. Gesù fa l’esempio dell’elemosina, la preghiera e il digiuno, cose belle e sante, che l’uomo orgoglioso riesce a rovinare perché le vive come una dimostrazione del suo essere nel giusto, di aver fatto cioè abbastanza, anzi di essere in credito davanti agli uomini e a Dio stesso. Ma dice Gesù: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro. Sì, anche le azioni più generose, pie e buone vengono corrotte se le compiamo pensando di dimostrare così di essere nel giusto, cioè di essere meritevoli di gratitudine, rispetto, ricompensa ed ammirazione, e anche se non c’è nessuno a dircelo, ce lo diciamo da soli nel nostro cuore: “sì, ho fatto il giusto, sono nel giusto, ho fatto quanto dovevo.”
Ci diamo da soli la nostra ricompensa, e così le nostre azioni muoiono lì dove iniziano e non riescono a produrre nessun frutto di bene, solo la propria autosoddisfazione.
In realtà quanto possiamo fare di buono e di giusto impallidisce davanti al debito di amore che abbiamo nei confronti del Signore, che mai riusciremo ad appianare per quanti sforzi possiamo fare. Ma per Dio questo non è un problema. Egli sa chi siamo e conosce i nostri limiti. Non vuole per questo schiacciarci, ma apprezza il dono di sé che sappiamo dare, se esso parte dalla coscienza del nostri limite e della nostra pochezza. Dio apprezza l’amore pallido, tiepido, goffo che sappiamo volere, se lo offriamo ai nostri fratelli e sorelle perché lui lo riempia del colore, del calore e della bellezza che noi non sappiamo dare.
Per questo oggi riceviamo la cenere sul nostro capo, per dire: “O Dio, Padre misericordioso e pieno di tenerezza con i tuoi figli. Tu che non ci schiacci sotto il peso delle nostre debolezze e incapacità, dei limiti del nostro poco amore, insegnaci con le tue parole e la tua vita come voler bene, perché illuminati dalla tua grazia sappiamo imparare da te la generosità gratuita e partecipe, l’attenzione piena di compassione, la tenerezza misericordiosa e benigna, ad essere cioè tuoi figli grati che riconoscono in ogni uomo e in ogni donna un fratello e una sorella da amare come tu sai fare. Amen.”  



“La Chiesa di papa Francesco” Itinerario di riflessioni, esperienze, preghiera per una Quaresima nella gioia del Vangelo - I incontro: Una Chiesa in uscita




Innanzi tutto vorrei fare una precisazione: ha senso parlare di gioia in tempo di Quaresima? Non sarebbero forse più adatti termini più “seri”, quali pentimento, sobrietà, mortificazione, ecc…
È vero, la Quaresima parte dalla constatazione della nostra piccolezza e fragilità (la cenere di oggi) e tiene conto della nostra vulnerabilità al male (le tentazioni di Gesù nel deserto, brano della prima domenica di Quaresima), ma lo fa perché ci rendiamo meglio conto del bisogno che abbiamo di andare oltre questa nostra condizione di partenza, per giungere all'incontro col Signore risorto, a Pasqua, che può colmare ogni nostra mancanza e rafforzarci nella nostra decisione di scegliere per il bene.
È come chi, riconosciuto che attraversa una regione buia e piena di pericoli, scorge in lontananza una luce che rischiara il cammino e gl’indica una prospettiva rassicurante. Certo, è il buio che lo avvolge a fargli sentire quella luce attraente, ma non si ferma compiaciuto a contemplare la tristezza del buio pieno di fantasmi spaventosi e insidie nel quale si trova. Piuttosto si incammina con decisione e fretta verso quella luce, pieno di speranza e fiducia, attratto da quella prospettiva, e man mano che avanza comincia a gustare la bellezza del chiarore che lo illumina e gli scalda il cuore e le membra, confermandogli che quello è veramente il cammino giusto.
Il rischio infatti è quello di subire un fascino perverso, quello della contemplazione della gravità della situazione presente, dei pericoli che corriamo, e della forza che esercita il male su di noi, senza gioire della possibilità che il Signore viene a darci di uscirne vittoriosi. Un fascino che a volte imprigiona in una gabbia di rassegnazione e tristezza impotente, che mette al riparo dalla responsabilità di uscirne. A volte ci abituiamo alle gabbie che ci sembrano comode e ci adattiamo a viverci alla meno peggio, come prigionieri rassegnati.
No, con gioia oggi riaffermiamo che il Signore è più forte della morte che ha cercato di imprigionarlo, e che ci vuole rendere impotenti e rassegnati davanti al male.  Questa potenza egli vuole comunicarcela tutta intera facendoci vivere con sé la Resurrezione.
In questo senso vogliamo fare nostra l’affermazione di Neemia che, dopo aver riscoperto e letto pubblicamente davanti a tutto il popolo la Parola di Dio rimasta a lungo silente, proclama: “non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza" (Neemia 8,10).
Sì, il cammino della Quaresima richiede forza e decisione per vincere la fatica del cammino e la tentazione di restare così come si è e la “gioia del Signore” è la forza di cui oggi abbiamo bisogno in questo tempo. 
Come sappiamo papa Francesco ha voluto inaugurare il suo pontificato con un documento programmatico che ci indica la fonte di questa gioia: il Vangelo!
Così inizia il papa: “ La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia.” (EG 1)
In questi nostri incontri durante il tempo di Quaresima vogliamo seguire papa Francesco alla scoperta di questa fonte inesauribile di gioia. Lo facciamo in un itinerario che segue le antiche e sagge indicazioni della Chiesa sul come vivere la Quaresima per ottenere i frutti spirituali che promette: digiuno, preghiera e carità.
Il digiuno che vogliamo vivere è la rinuncia a nutrirci della scontatezza del nostro modo di vivere come cristiani stanchi e abitudinari, per scoprire quella che abbiamo chiamato “la Chiesa di papa Francesco” cioè quella che nell’Evangelii gaudium egli ci indica come il luogo in cui poter ricevere e vivere la vera gioia del Vangelo.
Una Chiesa in uscita
Il primo aspetto che osserviamo di questa Chiesa come la sogna e desidera papa Francesco è il suo essere “in uscita”. Egli scrive:
Nella Parola di Dio appare costantemente questo dinamismo di “uscita” che Dio vuole provocare nei credenti [1]. Abramo accettò la chiamata a partire verso una terra nuova (cfr Gen 12,1-3). Mosè ascoltò la chiamata di Dio: «Va’, io ti mando» (Es 3,10) e fece uscire il popolo verso la terra promessa (cfr Es 3,17). A Geremia disse: «Andrai da tutti coloro a cui ti manderò» (Ger 1,7). Oggi, in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. … a uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie [2] che hanno bisogno della luce del Vangelo.
La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria. La sperimentano i settantadue discepoli, che tornano dalla missione pieni di gioia (cfr Lc 10,17). ... Questa gioia è un segno che il Vangelo è stato annunciato e sta dando frutto. Ma ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé [3], del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre. …
Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno [4]. Così l’annuncia l’angelo ai pastori di Betlemme: «Non temete, ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). L’Apocalisse parla di «un vangelo eterno da annunciare agli abitanti della terra e a ogni nazione, tribù, lingua e popolo» (Ap 14,6).
La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. [5]  …
La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! [6]  … La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. [7]  L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. [8] Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo, però il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. [9] Infine, la comunità evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia [10], la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi.” (EG 20-24, passim).
Vediamo alcuni elementi forti della descrizione che papa Francesco fa della vita dei cristiani in uscita:
1.     è qualcosa che riguarda tutti, non è un compito “istituzionale” di una struttura o di qualche specialista incaricato;
2.     bisogna sentire l’attrazione che il mondo esercita sui cristiani, specialmente le periferie lontane;
3.     chiede di uscire da sé per trovare il proprio baricentro di equilibrio non all’interno di se stessi o della propria cerchia ristretta, ma fuori di sé, forte richiamo nell’estroversione;
4.     tutti i luoghi e le persone sono “adatti” al vangelo, non c’è un ambito o una situazione o persone privilegiate, altre estranee o impermeabili per natura;
5.     la gioia è legata all’uscire dai circuiti abituali e nel vedere che il Vangelo, se seminato con sincerità e generosità, nasce e fruttifica anche dove non si credeva possibile;
6.     avere sperimentato la misericordia del Signore ci rende capaci di comunicarla agli altri e audaci nel farlo senza timore;
7.     vive assieme alla gente, accompagna, cioè è vicino, ne condivide sofferenze, aspirazioni, delusioni e speranze, avendo la pazienza di veder fruttificare il seme del Vangelo gettato, senza fretta. Non si tratta di insegnare e dire agli altri cosa devono fare, ma essere insieme, condividere cammini ed esperienze;
8.     non si lamenta né si vittimizza per le fatiche e gli ostacoli (la zizzania) ma accetta la gradualità e la parzialità delle realizzazioni;
9.     suscita simpatia e amicizia attorno a sé;
10.         esprime gioia e vitalità nella liturgia celebrata nella bellezza non esteriore e formale, ma che nasce dall’essere preghiera vissuta e partecipata da tutto il popolo.
Sono elementi nuovi e decisivi.
La comunità dei credenti non è una struttura che deve avere al suo centro la preoccupazione di organizzarsi, conservarsi, gestirsi, amministrarsi e sviluppare la propria influenza. Muore se parla sempre di sé e della propria organizzazione e non del mondo che attende che gli porti il Vangelo: “Siate ovunque portatori della Parola di vita nei nostri quartieri, nei luoghi di lavoro e dovunque le persone si ritrovino e sviluppino relazioni. Voi dovete andare fuori. Io non capisco le comunità cristiane che sono chiuse, in parrocchia. … Nel Vangelo è bello quel brano che ci parla del pastore che, quando torna all’ovile, si accorge che manca una pecora, lascia le 99 e va a cercarla, a cercarne una.. Ma, fratelli e sorelle, noi ne abbiamo una; ci mancano le 99! Dobbiamo uscire, dobbiamo andare da loro! In questa cultura – diciamoci la verità – ne abbiamo soltanto una, siamo minoranza! E noi sentiamo il fervore, lo zelo apostolico di andare e uscire e trovare le altre 99? ... È più facile restare a casa, con quell’unica pecorella! È più facile con quella pecorella, pettinarla, accarezzarla… ma … il Signore ci vuole pastori, non pettinatori di pecorelle; pastori! E quando una comunità è chiusa, sempre tra le stesse persone che parlano, questa comunità non è una comunità che dà vita. È una comunità sterile, non è feconda. La fecondità del Vangelo viene per la grazia di Gesù Cristo, ma attraverso noi, la nostra predicazione, il nostro coraggio, la nostra pazienza.” (Discorso al convegno ecclesiale Diocesi di Roma, 17 giugno 2013).
Cerca non la sicurezza di essere nel giusto, ma accetta il rischio di sbagliare, pur di essere segno di novità e portatrice di Vangelo: “Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!  Pensate anche a quello che dice l’Apocalisse. Dice … che Gesù è alla porta e chiama, chiama per entrare nel nostro cuore (cfr Ap 3,20). Questo è il senso dell’Apocalisse. Ma fatevi questa domanda: quante volte Gesù è dentro e bussa alla porta per uscire, per uscire fuori, e noi non lo lasciamo uscire, per le nostre sicurezze, perché tante volte siamo chiusi in strutture caduche, che servono soltanto per farci schiavi, e non liberi figli di Dio?” (discorso alla veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013).
La Chiesa non è il posto dove ci troviamo bene fra noi, ma dove sempre si sente la mancanza di chi non c’è ancora. “In questa “uscita” è importante andare all’incontro; questa parola per me è molto importante: l’incontro con gli altri. Perché? Perché la fede è un incontro con Gesù, e noi dobbiamo fare la stessa cosa che fa Gesù: incontrare gli altri.” (discorso alla veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013)
La commozione di Gesù fa uscire all’aperto
Per concludere vorrei aggiungere una notazione: dove si trova la forza di propulsione che spinge ad uscire e affrontare il “mare aperto” del mondo per gettare le reti del Vangelo. Non basta solo una decisione e la forza di volontà, né aver capito e progettato tutto bene. Non si tratta di fare di più e meglio.
Matteo racconta che Gesù: “Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore.” (Mt 9,36). È la compassione e la commozione di Gesù che ci permette di vedere e comprendere la necessità di uscire per andare incontro agli altri. Il Vangelo di Giovanni dice che è Gesù stesso che ci spinge a uscire: “egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori.” (Gv 10,2). Ci chiama ciascuno per nome, cioè sapendo chi siamo, come siamo fatti, ciascuno con i suoi difetti e debolezze, ma non per questo rinuncia a mandarci in giro per renderci conto di come la gente vive e per volergli bene proprio per questo. Gesù non sceglie quella gente perché piena di buona volontà o ricca di capacità, ma proprio perché stanca e sfinita, disorientata, problematica, poveraccia e bisognosa.
L’uscita allora è una vocazione di Gesù a sentire compassione per i più poveracci, periferici e messi male, come i poveri,  ma anche a saper riconoscere dietro le facciate decorose di chi sta bene tanta umanità sofferente e debole, infragilita dalla vita senza senso, svuotata di sentimenti autentici.

È solo la compassione che rende pastoralmente intelligenti, organizzati, cioè capaci di comunicare il Vangelo. Non i piani fatti a tavolino né i progetti pastorali ben organizzati, nemmeno una cultura o abilità personali, ma un cuore sensibile e vulnerabile nell’incontro con tutti.