sabato 28 marzo 2020

V domenica del tempo di Quaresima - Anno A - 29 marzo 2020



 


Dal libro del profeta Ezechiele 37, 12-14

Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.

 

Salmo 129 - Il Signore è bontà e misericordia.

Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.

Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.
Io spero, Signore, Spera l’anima mia,
attendo la sua parola.
L’anima mia è rivolta al Signore
più che le sentinelle all’aurora.
Più che le sentinelle l’aurora, Israele attenda il Signore, +
perché con il Signore è la misericordia
grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8, 8-11

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.  
 

Lode a te o Signore, re di eterna gloria
Io sono la risurrezione e la vita, dice il Signore,
chi crede in me non morirà in eterno.
Lode a te o Signore, re di eterna gloria


Dal vangelo secondo Giovanni 11, 1-45

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Didimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.  Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Commento

 Cari fratelli e care sorelle, la Quaresima che stiamo vivendo è un tempo straordinario, mai come quest’anno constatiamo quanto sia grande la forza che il male può esercitare sulla vita degli uomini. Lo vediamo nella virulenza di una malattia che sembra invincibile, tanto è carica di contagiosità e di morte. Ma lo vediamo anche negli egoismi nazionali e nelle logiche di profitto che dividono in questo momento drammatico le nazioni nella ricerca miope di mettere in salvo se stessi anche a danno dell’altro, incapaci di far prevalere uno spirito di solidarietà nella lotta alla malattia.

Poi la forza del male si manifesta nell’aggravarsi della condizione di tanti poveri che nell’isolamento accresciuto pagano un prezzo assai pesante; pensiamo agli anziani negli istituti, ai carcerati, a chi vive per strada, ai disabili mentali. 

Infine essa si esprime nell’impossibilità a vivere le ordinarie espressioni della fede cristiana: le celebrazioni liturgiche, i Sacramenti, l’accompagnamento dei morenti col conforto della preghiera e della compagnia, la celebrazione dei funerali, estremo segno di pietà che consola il lutto e presenta alla misericordia del Padre i propri cari.  

Un’aria di malattia e morte avvolge l’umanità in questo nostro tempo, come avvolse Lazzaro, l‘amico di Gesù.

Il vangelo sottolinea con insistenza quanto fosse forte il legame del Signore con Lazzaro malato, tanto da provare per la sua morte un dolore così forte, fino al pianto. Nel tempo di malattia e morte Gesù non è indifferente alla sorte degli uomini: egli, che la liturgia orientale chiama il “filanthropos”, l’amico dell’uomo, non è estraneo all’umanità in questa ora di prova così grande. Ma possiamo ben dire che tutta la vita di Gesù ne è un segno: cosa, se non un amore appassionato, potrebbe infatti giustificare la sua nascita e la condivisione dell’umanità, fino a subire il disprezzo, l’odio, la violenza la morte? Gesù sì è sottoposto nella sua carne alla forza del male che non gli ha risparmiato prove durissime, solitudine nella sofferenza, fino ad una morte atroce.

Eppure, dice Gesù, questa sofferenza non è la manifestare dalla forza prevalente del male, ma piuttosto della vittoria del bene, ed infatti alla notizia della malattia di Lazzaro reagisce in modo sorprendente: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato.” Malattia e morte possono essere per la gloria di Dio? Non ne sono forse la negazione? È la domanda che in tanti si fanno in questo tempo così pieno di contraddizioni.

Prosegue Gesù: “Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate.” Cioè egli inserisce gli eventi accaduti al suo amico nella prospettiva della fede dei discepoli in lui, come un’occasione per farla crescere. Gesù vuole insegnarci a leggere nel dramma della lotta fra la vita e la morte, che caratterizza anche questo nostro tempo, un’altra sfida decisiva, quella fra fede e incredulità, e mostra col suo agire che dalla fede viene la vittoria definitiva della vita vera sul potere della morte.

Infatti Gesù davanti all’amico morto ridona la vita a Lazzaro, ma con le sue parole e azioni vuole liberarci anche da una morte più temibile di quella fisica, perché senza scampo, che è la mancanza di fede, ed afferma infatti: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno.” La vera morte che Gesù vuole vincere è quella della mancanza di fiducia in lui che fa restare prigionieri del male, impotenti davanti alla sua forza.

Nel racconto evangelico molti muovono un rimprovero a Gesù: se lui fosse stato veramente vicino a Lazzaro, questi non sarebbe morto. In questi giorni tanti si ribellano accusando Dio di lasciare che il male sia così forte e i suoi frutti così amari, come se fosse indifferente al nostro destino. Ma la liberazione che Gesù proclama, quella buona notizia di salvezza che egli annuncia col suo Vangelo, non è la scomparsa del male dalla terra, ma la cancellazione del suo potere sugli uomini, vinto da un amore più grande: l’amore di Gesù per Lazzaro, l’amore di Dio per ogni uomo, l’amore che ogni uomo può volere per il suo fratello e la sua sorella.

La folla di giudei venuta da Gerusalemme ondeggia fra due poli opposti, guarda sconcertata, è scettica, rimprovera Gesù: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?” Eppure, alla fine, in tanti di loro la fede vince: “Molti …, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.” Il loro scetticismo è vinto dalla constatazione di quanto Gesù voglia bene a Lazzaro “Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!»” Egli non verserà tante lacrime su di sé nemmeno nei momenti più duri della Passione. E questo suo pianto non è una forma di sconforto impotente, ma è il segno di un amore che è forza di resurrezione: il voler bene di Dio è efficace e cambia la storia, non per magia, ma perché impone la forza più grande dell’amore. Per questo la resurrezione di Lazzaro dona a molti la certezza che l’amore di Dio non è solo a parole e che ci si può veramente fidare di lui e credere nel Vangelo, cioè nasce la fede.

Cari fratelli e care sorelle, siamo alle porte della Santa Settimana di passione, morte e resurrezione di Gesù. Davanti ad essa anche noi siamo come quei giudei, tentennanti e dubbiosi. Cosa cerca Gesù andando a Gerusalemme? Che senso ha andare incontro alla morte? Sono domande presenti nel fondo del nostro cuore. Oggi il Vangelo viene a dirci Che Gesù andando a Gerusalemme vuole rafforzare la nostra fiducia in lui. La fede in Gesù nasce infatti dalla constatazione del suo amore. Questo ci permette di divenire eredi di quella forza di trasformazione che è il suo amore, la promessa di una vita eterna e felice, più forte del male. Confidiamo in lui, per risorgere con lui, a Pasqua.
 
Preghiere
 
O Signore nostro Gesù Cristo, ti preghiamo: donaci la fede in te perché non ci scandalizziamo quando, entrando in Gerusalemme, ti avvierai umile e debole incontro alla morte,

Noi ti preghiamo


O Dio Padre onnipotente, rendi umano il nostro cuore e sensibile il nostro animo, perché davanti al tuo figlio che va a morire non restiamo come spettatori estranei ma viviamo con partecipazione commossa i segni di un così grande amore per noi,

Noi ti preghiamo

Signore Gesù insegnaci a pregare, perché non siamo timidi e freddi, ma come Marta e Maria sappiamo chiedere la guarigione e la resurrezione per il nostro fratello oppresso dalla forza del male,

Noi ti preghiamo

O Padre nostro, fa’ che come figli sappiamo sempre chiederti ciò di cui abbiamo bisogno, fiduciosi che tu ci ascolti ed esaudisci. Aiutaci a non rinunciare ad aspettarci da te vita e salvezza,

Noi ti preghiamo

 
Aiuta e sostieni o Signore tutti coloro che sono nel dolore in questo tempo di pandemia. Ci facciamo oggi compagni dell’invocazione di chi è malato e mettiamo nelle tue mani la vita di chi è minacciato dal male. 

Noi ti preghiamo

Sostieni o Padre del cielo la nostra poca fiducia in te, accresci in noi la certezza che il tuo amore non finisce e che la tua misericordia cancella il nostro peccato. Guarisci e perdona o Dio le nostre vite,

Noi ti preghiamo.

Aiuta o Dio quanti in questi giorni lottano a mani nude contro la forza della malattia, rischiando in prima persona per salvare vite. Proteggili e dona energie di bene a quanti combattono a fianco di chi è malato,

Noi ti preghiamo

Benedici e proteggi o Padre del cielo il nostro papa Francesco e quanti, come lui, spendono la vita per l’annuncio e la testimonianza del Vangelo. Fa’ che i loro sforzi producano frutti buoni di pace e conversione dei cuori,

Noi ti preghiamo

 

lunedì 23 marzo 2020

Terza lettera su questo tempo di quarantena - 23 marzo 2020



Terni, 23 marzo 2020 

Cari amici, 

i tanti eventi che si susseguono in queste giornate, così cariche di preoccupazione e paure, rischia di farci un po’ dimenticare che ci troviamo nel mezzo del cammino della Quaresima. Viviamo un tempo eccezionale dal punto di vista sociale, economico, delle relazioni, del lavoro, ma questo è anche un tempo speciale dal punto di vista spirituale: siamo nel tempo di preparazione e di esodo da noi stessi verso la passione, morte e resurrezione di Gesù

Certo, forse in questi giorni è più difficile viverlo con piena consapevolezza, come magari abbiamo fatto in altre situazioni più “normali”. Infatti, paradossalmente, se da un lato ci siamo trovati, per la maggioranza di noi, con una grande quantità di tempo da utilizzare, venuti meno i ritmi consueti un po’ affannati, dall’altra scopriamo tutta la nostra incapacità a gestire in maniera pienamente costruttiva e proficua questo tempo ampliato. Sì, magari ci siamo dedicati a tante piccole occupazioni che non potevano svolgere ordinariamente, ma siamo sicuri di aver lasciato sufficiente spazio anche allo “straordinario” di questa Quaresima che bussa alla nostra vita, cioè a quella preparazione ed esodo da noi stessi a cui facevo cenno prima? 

Diamo la dovuta attenzione a questa nostra esigenza vitale, perché una persona che non prega e non alza lo sguardo da sé verso la fonte della vita e dell’amore inaridisce presto, diviene sterile e fredda, rischia di morire dentro, credendo di preservare l’esterno. 

Per vivere seriamente questa preoccupazione ci viene in soccorso la tradizione antica della Chiesa che, basandosi sugli insegnamenti della Scrittura, ci indica tre alleati sicuri nel nostro cammino di Quaresima: la preghiera, il digiuno, la carità. 

Della prima, la preghiera, ho già parlato nelle mie precedenti lettere: è essenziale imparare, se non lo abbiamo fatto prima, e fortificare questo impegno, sempre tenendo presente quanto dicevo già circa il legame forte e indissolubile fra preghiera e azione. Le due cose non possono essere disgiunte e, se manca l’una, l’altra deperisce e muore. Alcuni mi dicono: “non posso fare nulla per gli altri, ma prego molto per loro.” Va bene pregare, è buono e utile, ma dobbiamo anche interrogarci se è vero che non possiamo fare niente, se abbiamo veramente esplorato tutte le nostre possibilità, pur nei limiti così circoscritti della nostra libertà attuale. La preghiera si nutre della nostra azione concreta in favore degli altri, così come il nostro agire pratico è alimentato dalla fiducia che riponiamo in Dio nella preghiera e da essa trae la genialità dell’amore che rende possibile quello che sembrerebbe non esserlo. 

Il digiuno è una pratica antica nel cristianesimo e in molte altre religioni. Esso è proposto e vissuto come mezzo per misurare la propria fragilità e maturare una coscienza più realistica del nostro bisogno di Dio. In questo nostro tempo il digiuno che viviamo si è arricchito, forzatamente, di molti elementi: digiuno della Liturgia eucaristica e dei Sacramenti; digiuno della fraternità fisica e dell’incontro, dello stare con gli altri; digiuno da alcune forme di solidarietà concreta, ecc… Pensiamo all’impossibilità di familiari ed amici a stare accanto alle persone malate di covid-19 negli ospedali, o agli anziani in istituto, o ai carcerati, ai morenti; all’impossibilità di celebrare i funerali. Anche questo è un digiuno imposto a persone già fragili e duramente provate. 

Questo digiuno forzato deve farci riflettere. Infatti non è scontato sentire la mancanza di queste cose. Si trovano facilmente sostituti: la partecipazione alla Messa si sostituisce con le celebrazioni in televisione, certo meglio di niente, ma così fredde e quasi imbarazzanti per il ritrovarsi da soli davanti a uno schermo; i rapporti con gli altri si sostituiscono con i contatti sui social media, così impersonali e che danno l’impressione di essere in relazione con molti, ma senza vero incontro e dialogo; la solidarietà concreta si sostituisce con la preghiera, con le implicazioni che dicevo prima; ecc… In fondo questo digiuno forzato è anche una grande opportunità per il maligno che lavora suggerendoci maliziosamente che forse non è poi così grave fare a meno di queste cose, così si ha tanto più tempo per pensare a sé. In fondo anche il digiuno dal cibo, pratica come dicevo raccomandata dalle religioni, ha il suo stravolgimento nelle forme di anoressia patologica che convincono menti fragili che del cibo si può fare benissimo a meno, anzi che senza si sta meglio. Conosciamo le tragiche conseguenze di questo atteggiamento. Allora stiamo ben attenti a non far diventare questo digiuno forzato una forma di anoressia spirituale, cioè la scelta di fare a meno di ciò che, in fin dei conti, non appare ad occhi materialistici e superficiali essenziale per vivere. Una volta entrati in questa logica sarà poi difficile, in condizione di normalità, riprendere a desiderare di “mangiare”. 

Da un altro punto di vista il digiuno forzato di questi giorni riguarda anche altri aspetti della nostra vita quotidiana meno costruttivi o negativi. Ad esempio il consumismo che spinge ad acquistare in maniera compulsiva, anche quello che non serve; un certo attivismo un po’ nevrotico che ci porta ad accavallare impegni ed appuntamenti non tutti così necessari; una cura ossessiva per il proprio corpo, attraverso pratiche sportive o altro (massaggi, fitness, diete, para-terapie fantasiose o pratiche similari) ben oltre la semplice e sana attività fisica; una socialità di gruppo in ambienti affollati e rumorosi, spersonalizzanti e stordenti, come copertura all’incapacità a relazioni personali impegnative e fedeli; ecc… Impariamo dal digiuno forzato di questi giorni a far a meno di ciò che non solo non è indispensabile, ma nemmeno è utile ed anzi consuma energie e risorse che possono essere impiegate in modo migliore. 

Infine la carità. Già dicevo prima come se da un lato, purtroppo, alcune forme di solidarietà sono rese impossibili dalle restrizioni attuali, ci sono tuttavia margini per inventare nuovi modi di vicinanza, soccorso, aiuto concreto ai più fragili. Specialmente in questo tempo in cui sono venute meno tante forme ordinarie di sostegno: pensiamo alla scuola per i ragazzi disabili che si ritrovano così più soli e ristretti in ambienti circoscritti, agli anziani soli, ai carcerati senza visite, a chi vive per strada senza più la possibilità di chiedere l’elemosina o di ricevere piccoli aiuti dai negozianti, ecc… Siamo sicuri che non si può fare niente per loro, neanche piccoli gesti di vicinanza e solidarietà che nel deserto attuale valgono molto? 

Preghiera, digiuno, carità. La Quaresima è fatta anche di queste tre semplici e profonde pratiche. Non è roba da asceti e monaci del deserto, piuttosto è un sostegno per non sprecare il nostro tempo, difficile ma sempre prezioso. La Pasqua non ci colga impreparati o deperiti dall’anoressia più o meno forzata da ciò che ci rende più umani. Viviamo questa Quaresima speciale come un’occasione speciale: la Resurrezione del Signore ci donerà il cibo nutriente e la vita vera in abbondanza, se l’attendiamo con fiducia e speranza, affamati di umanità vera, di vita vissuta pienamente e con profondità. 

Don Roberto

domenica 22 marzo 2020

Seconda lettera su questo tempo di quarantena - 18 marzo 2020


Terni, 18 marzo 2020

Cari amici,

in questi giorni siamo bombardati da una miriade di messaggi, di tanti generi diversi.

Ci sono i messaggi dell’informazione pubblica: le notizie che ci giungono dai luoghi più colpiti dalla malattia, con i numeri e le statistiche sulla diffusione del contagio, immagini inquietanti e un po’ surreali; il governo e le autorità di sanità pubblica invitano a mantenere certi comportamenti e opportunamente ne danno ampia comunicazione. Accanto a queste informazioni i social ne veicolano molte false che creano allarmismi, o false speranze, che suscitano in molti confusione o anche scoraggiamento.

Ci sono poi le notizie che ci giungono attraverso i nostri rapporti: spezzoni di vita in quarantena, problemi pratici, allarmi e angosce di chi è più ansioso, richieste di aiuto concreto, passaparola di informazioni più o meno vere.

Ci sono poi i messaggi che ci giungono direttamente dal nostro cuore: a volte un senso di impotenza, la preoccupazione per le persone più vulnerabili che conosciamo, l’incertezza sul da farsi, la paura per noi e per i nostri cari, rabbia e vittimismo, ma anche speranza, fiducia in Dio e nella vittoria finale del bene.

Come orientarsi in mezzo a tutto questo vero e proprio “bombardamento” di messaggi? Il nostro cuore ondeggia, trascinato dalle correnti attorno a noi, fra sentimenti contrastanti e tanta incertezza.

Per noi cristiani una risposta c’è, ed è farsi illuminare dalla Parola di Dio. Il Salmo 119 recita:

Tengo lontani i miei piedi da ogni cattivo sentiero,

per osservare la tua parola.

Non mi allontano dai tuoi giudizi,

perché sei tu a istruirmi.

Quanto sono dolci al mio palato le tue promesse,

più del miele per la mia bocca.

i tuoi precetti mi danno intelligenza,

perciò odio ogni falso sentiero.

Lampada per i miei passi è la tua parola,

luce sul mio cammino.”

Possiamo sempre confrontare le nostre scelte, i nostri sentimenti e le nostre azioni con i consigli che Dio ci suggerisce nella Scrittura, attraverso l’esempio e le vicende dei tanti personaggi che nella lunghezza della storia di Dio col suo popolo hanno sperimentato la gioia della sua compagnia e la protezione loro accordata. In modo ancor più evidente nel Nuovo Testamento abbiamo l’esempio di Gesù, nostro maestro, e degli apostoli che lo hanno seguito facendo propria la missione di annuncio della buona notizia nel mondo.

Il profeta Giona, inghiottito dal pesce che lo ha raccolto dai flutti in tempesta, rivolge questa preghiera a Dio:

«Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto;

dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce.

Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare,

e le correnti mi hanno circondato;

tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati.

Io dicevo: «Sono scacciato lontano dai tuoi occhi;

eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio».

Le acque mi hanno sommerso fino alla gola,

l'abisso mi ha avvolto, l'alga si è avvinta al mio capo.

Sono sceso alle radici dei monti,

la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre.

Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore, mio Dio.

Quando in me sentivo venir meno la vita, ho ricordato il Signore.

La mia preghiera è giunta fino a te, fino al tuo santo tempio.

Quelli che servono idoli falsi abbandonano il loro amore.

Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio

e adempirò il voto che ho fatto; la salvezza viene dal Signore». (Gio 2,3-10)

Giona sperimenta l’angosciosa situazione di isolamento in mezzo ad eventi turbinosi e pericoli. Le acque lo hanno avvolto fino al limite della morte, ma Dio lo ha strappato dalla fine ormai imminente, facendolo inghiottire da un grosso pesce. Egli non è definitivamente uscito da una situazione di estrema precarietà, è ancora nel ventre dell’animale, in balia dei flutti, eppure parla della sua condizione al passato, come fosse ormai già risolta, esprimendo così la sua certezza nell’aiuto divino, la stessa che Gesù impone per essere esauditi: “Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato" (Mc 11,24). Addirittura Giona dal ventre del pesce già prefigura la sua vita futura, marcata dalla gratitudine per quanto ha ricevuto: “con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che ho fatto”.

Giona rappresenta l’atteggiamento dell’uomo di fede che spera e invoca Dio, pur trovandosi ancora in una situazione di grande incertezza. Egli sa che Dio ascolta la sua preghiera e professa con forza la sua fede che esce rafforzata dalle drammatiche vicende vissute: “la salvezza viene dal Signore”.

Anche noi in questi giorni così duri siamo invitati a rivolgere a Dio la nostra preghiera, ad essere certi dell’esaudimento della nostra invocazione, ovvero ad essere attenti a riconoscere dentro e attorno a noi i segni di un tempo nuovo che si annuncia, marcato dalla salvezza del Signore. Sono i segni della solidarietà che non viene meno, della vicinanza che si rafforza, delle mille possibilità che ci sono offerte di esprimere il nostro amore per chi è più debole, in difficoltà, isolato.

Anche noi, come Giona, pur essendo ancora nel mezzo della tempesta e isolati come nel ventre del pesce, possiamo allora invocare la salvezza del Signore e accingerci, come il profeta, ad offrire “il sacrificio” e “il voto” gradito a Dio.

Isaia ci aiuta a comprendere in cosa “il sacrificio” e “il voto” consistano:

Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato,

nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto,

nel vestire uno che vedi nudo,

senza trascurare i tuoi parenti?

Allora la tua luce sorgerà come l'aurora,

la tua ferita si rimarginerà presto.

Davanti a te camminerà la tua giustizia,

la gloria del Signore ti seguirà.

Allora invocherai e il Signore ti risponderà,

implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!».

Se toglierai di mezzo a te l'oppressione,

il puntare il dito e il parlare empio,

se aprirai il tuo cuore all'affamato,

se sazierai l'afflitto di cuore,

allora brillerà fra le tenebre la tua luce,

la tua tenebra sarà come il meriggio” (Is 58,7-10)

Le parole di Isaia in qualche modo completano quelle di Giona. Sì, perché la preghiera che invoca la salvezza si accompagna ad una vita rinnovata dall’impegno a ristabilire la giustizia e dall’azione per la pace, dalla consolazione dei deboli e dall’offerta di cibo, dall’ospitalità, dal conforto e dalla misericordia, assieme all’astensione dal giudicare e dal parlare privo di amore.

Cari amici, la Parola di Dio ci illumini il cammino e indichi a ciascuno di noi la via per mantenere il cuore e le mani pure e per essere, come Abramo, sempre più una “benedizione per tutte le famiglie della terra” (Gen 12,4).  
  Don Roberto

Prima lettera su questo tempo di quarantena - 13 marzo 2020



Terni, 13 marzo 2020
Cari amici,

come già tanti hanno sottolineato in questi giorni, l’isolamento forzato che stiamo vivendo ci fa scoprire la bellezza di tante cose che eravamo abituati ad avere e alle quali, forse, non davamo il giusto valore: la celebrazione della S. Messa e i Sacramenti; la gioia dell’incontro; una certa sicurezza della nostra salute; la possibilità di contare sull’aiuto degli altri; la libertà di muoverci; e tante altre cose che ciascuno sa bene.

Ora non ne possiamo più godere pienamente, purtroppo non sappiamo per quanto tempo ancora.

Questa mancanza forzata ci deve aiutare però anche a dare il giusto valore a tutto quello che continuiamo ad avere a disposizione: una cerchia di amici e parenti che condividono la nostra condizione; la sicurezza economica che ne attenua le conseguenze più gravi; l’accesso alle cure mediche gratuite ed efficaci; strumenti che ci permettono di restare in contatto, sentirci, parlarci ed anche vederci a distanza; ecc… Per questo anche se la situazione è oggettivamente grave, non siamo giustificati se cadiamo in un vittimismo lamentoso, come se io fossi la persona che soffre più di tutte. Pensiamo, in questi giorni, a quanti nel mondo quello che non abbiamo più, ed anche quello che abbiamo ancora, non lo hanno mai avuto a disposizione, per tanti motivi diversi: miseria personale, sottosviluppo economico, guerra, ingiustizia sociale e oppressione politica. Proviamo ad immedesimarci con i milioni di persone che vivono da sempre come noi viviamo oggi, ed anche peggio.

In questi giorni sono stati messe in atto molte misure per proteggere dal rischio del contagio, ma resta un altro nemico subdolo e maligno dal quale è difficile liberarsi: la paura. Essa, a sua volta, è fonte di tante altre malattie che minano la nostra persona. Conosciamo bene queste malattie spirituali: l’egoismo, la chiusura, il vittimismo autocompiaciuto, l’aridità, la freddezza, l’egocentrismo, insomma tutti quei modi con cui il diavolo (parola che, sappiamo bene, letteralmente significa “colui che separa”) ci divide e ci allontana dagli altri e da Dio. Come possiamo evitare il contagio della paura? Essa può essere vinta solo da un’unica grande forza: l’amore.

Sì, l’amore vince la paura del male. Dice l’Apostolo Paolo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,54-55).

E non si tratta solo di un espediente psicologico, una sorta di diversivo per “non pensarci”. Realmente l’amore rafforza le nostre difese interiori sviluppando “anticorpi” efficaci contro le malattie spirituali, le quali, se apparentemente sembrano non colpire il corpo, in realtà debilitano fino a far morire la persona tutta intera, inaridendone l’interiorità.

Non lasciamo che la paura vinca sull’amore, ci ritroveremmo più soli, disperati, prostrati fisicamente e spiritualmente, impotenti di fronte al dilagare del male e infragiliti dalla sfiducia.

Certo, non dobbiamo trascurare le precauzioni a cui le autorità ci chiedono di sottoporci: esse vanno scrupolosamente osservate, per i validi motivi che ben sappiamo. Allo stesso tempo però usiamo la creatività dell’amore, a volte geniale, per trovare nuovi mezzi per tessere una rete protettiva e solidale con gli altri, in modo particolare quanti soffrono come e peggio di noi la situazione attuale. Il tempo non ci manca, ora che siamo tutti in quarantena forzata: sfruttiamolo in modo proficuo. La tentazione, e i messaggi che tante volte ci giungono, ci dicono di usare il tempo pensando più a noi stessi, facendo quello che prima non avevamo modo di fare, di trovare le nostre soddisfazioni in quello che ci piace, ecc… Ma stiamo attenti, ancora una volta sembra che la priorità resti pensare di più a se stessi, prendendosi cura del proprio benessere fisico e psicologico. Attenti però, perché questo rischia di aumentare il proprio isolamento, rendendolo solo un po’ più confortevole. Possiamo forse ricavarne un aiuto psicologico temporaneo, ma non è la soluzione.

Credo che invece questo sia il tempo opportuno per renderci conto che abbiamo alcuni talenti che, nella confusione un po’ nevrotica della vita normale, abbiamo sotterrato sotto una coltre di abitudini scontate e pigrizia spirituale, e di farli fruttare, moltiplicando, e non svilendo, il valore del tempo che abbiamo a disposizione.

Ne faccio un breve elenco che ognuno potrà prolungare pensando a sé e alla propria situazione.

1.     Il talento della preghiera. Lo spazio del nostro silenzio in compagnia di Dio è sempre stato poco. Il frastuono che ci circonda, le faccende che si accavallano e le mille occupazioni corrodono il tempo della preghiera. Aggiungiamo a questo la nostra disabitudine e pigrizia, un senso di disagio, come chi ha a che fare con qualcosa che gli è poco familiare. Pregare è essenzialmente dialogo con Dio. È fatto di ascolto e di risposte, di domande e richieste, di ringraziamento, di semplice piacere di stare assieme. Possiamo leggere un brano della Scrittura, la Parola che Dio ci rivolge personalmente, facciamolo più volte fino a ricavarne il messaggio per noi, e rispondiamo ad esso ammettendo il nostro peccato, riconoscendo cioè la distanza dai sentimenti di Dio, ma anche ringraziandolo per le sue amorevoli attenzioni per noi, per la sua vicinanza, per la sua fiducia nei nostri confronti, ritenendoci capaci di essere migliori, più simili e vicini a lui. Non esitiamo a rivolgergli le nostre richieste, fiduciosi, attenti a chiedere cose buone, senza però autolimitarci: le domande audaci piacciono a Dio, perché ci legano ancora di più a lui nel vincolo di una fiducia illimitata, come un bambino che chiede al padre l’impossibile. Dio che è un Padre buono, ce lo concederà (Lc 11,9-ss.). Non poniamo nemmeno il limite geografico: ricordiamo chi è lontano, isolato (come in carcere o in istituto o in ospedale), chi non vediamo con gli occhi, ma può essere presente nella nostra preghiera, come i migranti in Turchia, in Grecia, in Centro America, le vittime di guerre lontane, i malati che non hanno accesso alle cure, ecc… Dedichiamo uno spazio fisso alla preghiera, recitando le preghiere che conosciamo (Padre Nostro, Ave Maria, ecc…), leggendo la Parola di Dio e rispondendo ad essa, chiedendo e invocando, come dicevo. Nell’impossibilità a partecipare alla Messa seguiamo in televisione o su internet le Liturgie che ci sono offerte.


2.     Il talento dell’amicizia. Proprio perché ci mancano, pensiamo con più affetto ai nostri cari: non solo ai parenti, dei quali siamo più naturalmente portati a preoccuparci, ma anche agli amici e ai conoscenti. Alcuni è tanto che non li sentiamo, o abbiamo allentato i legami, con altri non siamo mai andati oltre l’esteriorità formale. Proviamo a dare un contenuto più profondo e sentito ai nostri affetti, comunicando sincera preoccupazione, pazienza e attenzione nell’ascolto, audacia nel consiglio e nel conforto, partecipazione non superficiale alla vita degli altri, apertura del proprio cuore, lasciandovi entrare gli altri come in una stanza calda, adorna e accogliente. Non sarà facile all’inizio, pensiamo bene come fare e cosa dire, ma facciamolo, e non solo virtualmente, attraverso i social media, ma di persona: il calore della voce, i silenzi, l’intonazione comunicano mille volte meglio di un post o di una figurina, impersonale e fredda!


3.     Il talento della solidarietà concreta. Proviamo a richiamare alla mente quanti sappiamo vivere in situazione di bisogno, magari facciamocene un elenco scritto. Nei momenti di crisi, come questo, i poveri sono quelli che sopportano il peso maggiore, a volte in modo drammatico, e non hanno la forza d’imporsi all’attenzione degli altri, semplicemente scompaiono. Pensiamo ai mendicanti davanti al supermercato, che ora non possono più ricevere nemmeno quel piccolo aiuto economico; a quanti vivono per strada, privi del sostegno della rete di aiuti che più o meno permettevano loro di sopravvivere; agli anziani soli, già fragili, ma ancor più deboli nella gestione della vita quotidiana, intristiti e spaventati; a chi è chiuso in carcere e in istituto, senza più nemmeno il conforto delle visite di amici e parenti; ai malati non gravi, che non possono essere più presi in carico dalle strutture ospedaliere ingolfate da altre necessità, ecc… Con la necessaria prudenza, ma anche con l’audacia e la fantasia dell’amore, pensiamo come possiamo venire in loro soccorso. È possibile per ciascuno di noi fare molto più di quanto crediamo. La paura paralizza la mente, rattrappisce il cuore e irrigidisce le mani nel gesto del rifiuto. L’amore irrobustisce mente, cuore e mani e fa scoprire risorse inimmaginate. Riconosciamo in ognuno di loro il volto del fratello che ci interpella, non lo lasceremo certo nel bisogno!

Se spenderemo per gli altri questi ed altri talenti che il Signore ci ha donato riceveremo da lui la forza di superare questo momento difficile e riceveremo da lui l’invito: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21).

In conclusione, cari fratelli e care sorelle, non permettiamo al male di portare via dalle nostre vite il tesoro più prezioso che abbiamo, quella fede in Dio che ci è stata donata fin da piccoli e che abbiamo la necessità di alimentare e far crescere ancor di più in questo tempo. Essa è la vera risorsa che ci permette di non cadere nello sconforto e nella disperazione. Nella prova Dio è con noi, nella stessa barca agitata da onde e venti contrari. Il suo esserci ci conforta e ci permette di rivolgerci a lui, magari in modo scomposto e poco adatto, ma con fiducia che non ci lascerà mai delusi (Lc 8,24).

Viviamo questi giorni di Quaresima con lo sguardo fisso verso il traguardo, quella Resurrezione di vita e di gioia che non soccombe alla forza della morte. Restiamo uniti nel vincolo della carità fraterna, nella preghiera, nell’amore vicendevole, nei gesti concreti di preoccupazione e cura reciproca. È questa la nostra forza, la forza debole che ci rende discepoli del Signore, potenti di fronte al male e vincitori davanti ad ogni nemico della vita.


Don Roberto

sabato 21 marzo 2020

IV domenica di Quaresima - Anno A - 22 marzo 2020


 
 

Dal primo libro di Samuele 16, 1b.4a. 6-7. 10-13

In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato. Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore». Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: «Àlzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.

 

Salmo 22 - Il Signore mi guida su pascoli erbosi
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 5, 8-14

Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».

 

Gloria a te, o Signore, re di eterna gloria

Io sono la luce del mondo, dice il Signore,
chi segue me, non sarà nelle tenebre
Gloria a te, o Signore, re di eterna gloria

 

Dal vangelo secondo Giovanni 9, 1-41

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e lavati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». 

Commento

Cari fratelli e care sorelle, il vangelo di Giovanni ci trasporta oggi per le strade di Gerusalemme. Sono affollate e caotiche, piene di gente che va ognuna per i fatti propri. È il modo di vivere nelle città di ogni tempo, in cui i destini degli uomini si sfiorano, ma difficilmente si incontrano.

Tanto più questo è vero in questo tempo di quarantena forzata: non ci si vede ormai più con quelli con cui eravamo soliti avere rapporti, e così piano piano scompaiono dal nostro orizzonte, a cominciare da quelli che si notano meno, i più deboli e fragili, aumentando il loro isolamento.

Così era anche la situazione di un cieco che stava al bordo della strada: Gesù e i discepoli passando lo vedono, ma per questi ultimi è solo l’occasione per porsi un interrogativo di tipo filosofico: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” Cioè il loro sguardo distratto e superficiale non vede quella persona per chi egli è, con la sua dignità di essere umano sofferente per la malattia e l’isolamento conseguente, ma solo come un “caso” che suscita la loro discussione.

La stessa cosa avviene a tutti quelli che intervengono subito dopo: I farisei scandalizzati da Gesù che guarisce di sabato contravvenendo alla legge, la gente intorno che non lo riconosce più, i genitori contrariati da tanta notorietà e dai rischi che ne conseguono. Tutti discutono, ognuno assume una posizione, polemizza, ma il cieco rimane sullo sfondo, senza importanza, è solo un oggetto di cui parlare, così come nessuno si rende veramente conto di quello che è avvenuto: come dice Isaia ridare la vista ai ciechi è un segno messianico (Is 35,5), uno squarcio di Regno di Dio si è aperto, la benevolenza di Dio si è manifestata, la natura è stata ribaltata dalla forza di un amore più forte del male. Eppure non c’è nessuno dei presenti che gioisca del fatto che il cieco ha riacquistato la vista, nemmeno i suoi genitori!

Sì, la forza del male spesso si impadronisce della vita negli uomini e la sconvolge, come in quel cieco e come abbiamo sotto gli occhi in questi giorni per tanti ammalati per il virus. Ma mentre molti accettano questa realtà come qualcosa contro la quale è inutile ribellarsi, Gesù non si rassegna.

Sì davanti alla forza della malattia di questi giorni spesso è prevalso un senso di impotenza e paura che spinge a pensare che l’unica cosa che si può fare è preservare se stessi dal contagio mettendosi al riparo. Eppure possiamo fare molto anche molto altro, se non per bloccare la pandemia, almeno per lenirne le conseguenze più pesanti che, come sempre in questi casi, colpiscono i più deboli e i poveri. Gesù lo dice esplicitamente: “perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato.” Sì, dobbiamo vivere questo tempo come un’opportunità per manifestare le opere di Dio, e non per rafforzare le opere del maligno che vuole dividerci spegnendo la preoccupazione solidale per l’altro. Gesù ci pone di fronte una necessità impellente, non una semplice opzione facoltativa: “Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato”! e l’opera di Dio è non darsi riposo finché non prevalga il bene, senza lasciare spazio all’istinto di autopreservazione e risparmio di sé.

È quello che Gesù fa: non sta lì a discutere, a valutare i pro e i contro, a saggiare cosa pensano gli altri, ma davanti alla sofferenza di un uomo lo ama fino in fondo come Dio sa fare, e questo impone una svolta decisiva al corso normale degli eventi: il cieco riacquista la vista

Questo perché solo Gesù lo vede come un uomo, ne avverte la sofferenza e gli vuole subito bene, combatte per lui e vince il male. Gli altri sono ciechi di umanità. È questo il senso del rimprovero che il Signore muove a quelli che giudicano male il suo operato: “Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane.”

Anche noi spesso siamo ciechi, perché non sappiamo vedere nell’altro un uomo, la sua storia, la porzione di sofferenza di cui è carico, il fratello, la domanda di amore rivolta a me. Magari crediamo di vederci bene perché sappiamo individuare un “caso”, lo inquadriamo in una categoria, sappiamo anche dire chi dovrebbe occuparsene e in che modo, ma non riusciamo a scorgervi uno come me, siamo ciechi di umanità

Queste domeniche di Quaresima ci accompagnano verso Gerusalemme dove Gesù va a morire. Con quali occhi vedremo quel nazareno imprigionato, trascinato nelle piazze, deriso e oltraggiato? Ci metteremo a discutere su chi ha torto e ragione, sulle colpe e le responsabilità altrui, sull’opportunità o meno di certe scelte di Gesù?

Con quali occhi vedremo quel poveraccio caricato di una croce e infine appeso ad essa in mezzo al trambusto delle strade piene di calca per la festa imminente? Ci fermeremo o resteremo indaffarati a preparare la nostra festa, a scacciare la paura con la distrazione e la concentrazione su di sé?

Questa Quaresima è tempo che ci è donato per guarire dalla nostra cecità all’umano. Altrimenti con quali occhi vedremo Gesù morire? Ma soprattutto con quali occhi ci accorgeremo che la tomba è vuota, che Gesù è risorto e il male assoluto, la morte, è vinta dalla forza del suo amore?

Questa domenica viene come un avvertimento importante: facciamoci aprire gli occhi da Dio per poter vedere l’umanità di chi abbiamo di fronte. In un tempo difficile come il nostro impariamo a vedere il fratello e la sorella dietro il velo dell’isolamento che ci allontana sempre più. Impariamo la misericordia di Gesù che va verso la morte a Gerusalemme, la sua tenerezza davanti al prossimo, la compassione per chi è povero, la simpatia per il fratello e la sorella, il desiderio di essere solidali e non indifferenti. Impariamo a vederci come ci vede lui, amando.


Preghiere

O Signore noi ti preghiamo, guarisci la nostra cecità al bisogno del povero e lava i nostri occhi dal velo dell’egoismo. Aiutaci ad essere come te misericordiosi e pronti ad aiutare chi è nel dolore.

Noi ti preghiamo

 

Fa’ o Padre del cielo che sappiamo gioire della liberazione del prigioniero e della guarigione del malato, perché ogni buona notizia è segno dell’avvicinarsi del tuo regno di pace e di giustizia.

Noi ti preghiamo

 
O Gesù che ti avvii verso Gerusalemme per essere condannato a morte, salva quanti sono colpiti dalla malattia, accogli nel tuo regno di amore quanti sono morti.

Noi ti preghiamo

 

Donaci o Padre la grazia di seguire il nostro Signore fin sotto la croce per accoglierne l’eredità di amore. Fa’ che non fuggiamo spaventati ma restiamo fedeli a lui.

Noi ti preghiamo


Guarda con amore o Dio del cielo tutti coloro che sono oppressi dalla minaccia della malattia in questi giorni difficili di timore. Allontana presto ogni minaccia e conduci i tuoi figli alla salvezza.

Noi ti preghiamo

 

O Signore fa’ che tutti i tuoi figli si radunino ai piedi della croce per contemplare il mistero di un amore così grande. Mostraci il tuo cuore aperto alla misericordia e al perdono persino per chi ti stava inchiodando alla croce.

Noi ti preghiamo.

 

Guarisci o Padre chi è malato e nel dolore, consola chi è disperato, proteggi chi è solo, senza casa e famiglia. Fa’ che il grido del povero sia ascoltato e consolato da fratelli pronti a soccorrerlo.

Noi ti preghiamo

 
Proteggi o Signore Gesù tutti i tuoi figli che ovunque nel mondo invocano il tuo nome e si affidano alla tua misericordia. Fa’ che la loro testimonianza evangelica disarmi i cuori e susciti benevolenza in tutti.

Noi ti preghiamo