mercoledì 28 settembre 2011

Incontro-dibattito: Oltre l’economia, ripensare il futuro in tempo di crisi


Introduzione

Come ricorda il titolo di questo nostro incontro ci troviamo in un momento particolarmente delicato della storia del nostro Paese. La congiuntura economica internazionale dal 2008 circa, con l’inizio della grande crisi delle banche americane, ci ha coinvolto profondamente e ancora oggi facciamo fatica a intravedere la via di uscita.
Quotidianamente siamo letteralmente bombardati da informazioni sull’andamento delle borse, sulle reazioni dei mercati, gli asset delle banche internazionali, le politiche di bilancio, le manovre economiche, le decisioni del G20, e così via. Siamo diventati esperti di materie di cui , fino a pochi anni fa, si occupava solo una piccolissima e circoscritta cerchia di specialisti. Oggi tutti noi usiamo, più o meno disinvoltamente, i termini tecnici dell’economia, come spread, recessione, default, swap, liquidità, fondi derivati e fondi spazzatura, bolla immobiliare, ecc…
Ma il motivo del nostro incontrarci non è tanto quello di approfondire la nostra competenza tecnica per diventare esperti di economia e di borse. Piuttosto stasera vorremmo tentare di maturare una coscienza più seria e meditata di dove siamo e, soprattutto, di quali sono le prospettive per il futuro. Lo facciamo qui in chiesa, e non solo perché qui abbiamo un impianto di amplificazione che ci permette di sentirci meglio, ma anche perché la nostra fede non è qualcosa di astratto e disincarnato, estraneo alla vita concreta, ma si “impasta” con le scelte, le decisioni, i giudizi della vita di ogni giorno, con l’ambizione di essere il lievito che fa crescere e diventare commestibile e nutriente anche una pasta piuttosto indigesta, come quella economica.
D’altronde non possiamo accontentarci delle reazioni istintive o “di pancia”, generiche e lamentose, che sfociano immancabilmente nel vittimismo qualunquista che fa cercare il responsabile per sapere con chi prendersela per quello che non va. Non serve a niente e non è nemmeno intellettualmente onesto, perché non fa chiarezza sulla realtà dei fatti.
Credo che l’atteggiamento giusto sia l’assunzione di una consapevolezza più meditata sul ruolo che ciascuno di noi può giocare e, di conseguenza, della responsabilità delle nostre scelte, anche perché in gioco c’è il futuro nostro e delle generazioni che crescono.

La crisi economico finanziaria del 2011


 Che cos’ha fatto scoppiare la crisi della finanza mondiale?

La causa scatenante è stata la crisi dei mutui subprime, scoppiata ad agosto 2007 negli Stati Uniti, che ha dato il via a una reazione a catena, portando oggi alla crisi della finanza mondiale. La caduta dei profitti, derivante dalle attività tradizionali del sistema creditizio, ha spinto il sistema ad alimentare un’ingegneria finanziaria che permettesse margini di redditività elevati. Un rilevante contributo a questa tendenza è arrivato dalle scelte della Fed (la Banca centrale statunitense) che ha abbassato il tasso ufficiale di sconto per sostenere la domanda favorendo l’indebitamento delle famiglie. Le banche, americane e non solo, hanno costruito un complicato sistema di prodotti finanziari molto redditizi ma molto rischiosi appoggiato sui mutui subprime (obbligazioni complesse contenenti diversi componenti di debito spesso fuori bilancio delle banche). Scoppiata la bolla immobiliare e crollati i subprime (perché molti americani, uno su cinque secondo le indagini, non riescono a pagare le rate del mutuo, anche a causa dell’incremento dei tassi), il castello di carte è crollato. In un mondo globalizzato le banche sono tutte collegate tra loro. Hanno acquistato e venduto l’una con l’altra questi prodotti finanziari “avariati”, contaminandosi a vicenda. Per questo il crollo del castello sta travolgendo il mondo intero. Esistono poi delle cause profonde, che da anni stanno “lavorando” alla costruzione di questa crisi: innanzitutto la caduta del potere d’acquisto delle famiglie statunitensi, il principale motore dell’economia Usa, spinte ad indebitarsi a basso costo per sostenere i loro consumi. Il boom dell’indebitamento è stato amplificato dalla finanziarizzazione dell’economia, cioè la crescita smisurata delle attività finanziarie rispetto a quelle reali. Cause “profonde” sono anche la mancanza di regole e l’insufficienza dei controlli che hanno accompagnato questa finanziarizzazione. Per cercare il massimo rendimento sono stati creati nuovi prodotti finanziari tanto complicati quanto rischiosi, costruiti con formule matematiche e senza nessun contatto con la produzione di beni, con il lavoro e con l’economia reale. Per anni i rendimenti alti ci sono stati, oggi però sono crollate le fragili basi su cui si appoggiava tutto il meccanismo. E banche, imprese e piccoli risparmiatori, che, sedotti dai guadagni della finanza, negli anni hanno sempre più basato i loro profitti su investimenti nei mercati finanziari (e sempre meno sull’economia reale), si ritrovano nel portafoglio questi prodotti “avariati”. Alcuni senza volerlo, magari perché hanno investito in fondi d’investimento che, con una serie di passaggi, hanno acquistato derivati, hedge funds, prodotti rischiosi.


 Che cosa sono i mutui subprime?

Sono mutui concessi da anni, soprattutto dalle banche statunitensi, a persone che non potevano fornire garanzie e che – fatto più grave - non erano in grado di restituire il debito. Di solito erano costruiti con un meccanismo di rate crescenti: i primi due anni la rata del mutuo viene tenuta bassa, il terzo anno sale in modo progressivo. I promotori sono riusciti a convincere i clienti a firmare contratti che li avrebbero incastrati in una spirale di rate crescenti con la promessa che il valore della casa sarebbe aumentato e avrebbero potuto rinegoziare il mutuo, abbassando la rata. Ma la bolla immobiliare si è sgonfiata, i prezzi delle case hanno cominciato a scendere in modo sempre più rapido e rinegoziare il mutuo non era più possibile. Le famiglie si sono così ritrovate con mutui costosi. Non solo. Intanto la Fed (Federal Reserve, la Banca Centrale americana) ha continuato ad alzare i tassi. E le famiglie, che già facevano fatica a pagare le rate, si sono ritrovate con rate e tassi di interesse sempre più alti. E hanno smesso di pagare i mutui. Secondo gli ultimi dati un americano su cinque non riesce più a pagare le rate.

Perché i mutui subprime sono tra le cause della crisi?
Per tutelarsi dai rischi legati a questi prestiti (che il debitore non paghi più le rate), le banche e le società finanziarie li hanno rivenduti, ad altre banche, trasformandoli in complessi prodotti finanziari (cartolarizzazione), formati spezzettando i debiti a seconda del grado di rischio e poi ricomponendoli. Questi pacchetti (CDO, Collateralized Debt Obligations, o ABS, Assed Backed Securities) sono stati spesso chiamati “salsicce finanziarie” per trasmettere l’idea di come pezzi di debito “avariato” siano stati mischiati ad altri e poi rivenduti sui mercati finanziari. Di “salsicce finanziarie” oggi sono pieni i portafogli delle banche e di moltissimi risparmiatori. Così il fatto che gli americani non riescano a pagare le rate del mutuo innesca una crisi che arriva fino al piccolo risparmiatore italiano.

 Di chi è la colpa di quello che è successo?

Del sistema finanziario globalizzato, delle banche d’affari, americane soprattutto, che hanno dato vita ad una gigantesca industria caratterizzata dalla proliferazione di prodotti - oltre che rischiosi (il rischio potrebbe fare parte del gioco di chi investe) dalle conseguenze imprevedibili - che hanno distribuito il rischio, che doveva ricadere solo sulle banche, in tutto il mondo, anche sui piccoli investitori. Ma è colpa anche delle autorità di controllo, che non hanno saputo porre un freno allo sviluppo di questi prodotti né prevedere ed evitare il tracollo. Queste sono le parole di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, nell’indagine conoscitiva sulla crisi finanziaria internazionale presentata al Senato il 21 ottobre. La colpa è anche dei governi e, in generale, della politica mondiale. O meglio, della mancanza di una governance politica mondiale, dell’aver lasciato che la finanza prevalesse sull’economia e sulla politica.

 Quali sono i risvolti pratici per le famiglie e la gente comune?
 La crisi coinvolge la vita delle famiglie su più fronti. I danni maggiori e più immediati naturalmente stanno colpendo chi ha investito nei prodotti finanziari “avariati”: le polizze Index linked, Unit linked, i Cdo e gli altri prodotti finanziari derivati. Ma anche chi ha investito in fondi, anche i fondi comuni di investimento, che abbiano in portafoglio questi prodotti finanziari o hedge funds o private equity. E perde anche chi ha investito in titoli di aziende che stanno scendendo in Borsa. La crisi poi danneggia il mercato del credito: sarà più difficile ottenere un prestito da una banca, verranno richieste più garanzie e i tassi di interesse aumenteranno. C’è poi il fronte degli aiuti del governo alle banche. Per reperire i fondi destinati al salvataggio degli istituti di credito lo Stato taglierà altre voci della spesa pubblica. Il decreto Gelmini ha già annunciato tagli sul fronte della scuola, ma potrebbero essere colpiti altri settori come la sanità, le pensioni, i trasferimenti agli enti locali. Se si passa ad analizzare l’economia reale è difficile prevedere con precisione che cosa potrebbe succedere. Le imprese, che finanziano le loro attività produttive con prestiti bancari, vedranno ridursi i prestiti e potrebbero non avere capitali sufficienti per portare avanti le loro attività (si parla del possibile fallimento di giganti dell’auto come General Motors, Ford e Chrysler anche perché l’industria automobilistica era sostenuta da una quindicina d’anni dall’enorme crescita delle vendite rateali). Ci sarà poi un calo dei consumi (già oggi i dati dimostrano che gli acquisti delle famiglie sono in netto calo), che penalizzerà ulteriormente le aziende. Ma difficoltà se non fallimento per le imprese significa perdita di posti di lavoro e di reddito per le famiglie.
gli inizi del fenomeno molti autori ritenevano che non si trattasse di una vera crisi, poiché il termine crisi è carente di una precisa definizione tecnica, ma è vincolato ad una profonda recessione; questa, a sua volta, è definita come quel periodo temporale durante il quale per almeno due trimestri consecutivi si ha un arretramento economico, cioè una riduzione del PIL.[1] (Il PIL è detto Interno in quanto comprende il valore dei beni e servizi prodotti all'interno di un paese). Tuttavia, le pesanti recessioni e i vertiginosi crolli del PIL verificatasi in quasi tutte le economie avanzate del mondo tra il 2009 e il 2010 hanno smentito queste ottimistiche previsioni.

La situazione italiana
La crisi economica del 2008-2011, originatasi negli Stati Uniti con la crisi dei subprime, ha avuto luogo dai primi mesi del 2008 in tutto il mondo. Tra i principali fattori della crisi figurano gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare mondiale, un'elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo, così come una crisi creditizia ed una conseguente crisi di fiducia dei mercati borsistici. Quando anche i fondamentali dell’Italia hanno cominciato a scricchiolare, la BCE (Banca Centrale Europea) ha finalmente rimosso le sue perplessità ad intervenire. Il livello dei rendimenti dei titoli italiani è ormai più o meno completamente garantita dalla BCE (Banca Centrale Europea). Sistematicamente e minuziosamente, il rendimento dei titoli italiani a dieci anni viene mantenuto intorno al livello del 5% dagli acquisti di bond da parte delle banche centrali nazionali della zona dell’euro. Il processo attraverso il quale si ottiene questo risultato non è poi così dissimile da altri interventi più comuni delle banche centrali, per esempio per condizionare un certo tasso di cambio, o un dato tasso di interesse. In sostanza, quando il rendimento supera una determinata soglia i rappresentanti della BCE semplicemente intervengono e acquistano obbligazioni. Il problema per la banca è ora che una volta che si avvia un programma come questo, non esiste un modo facile per smettere. Nonostante le molte voci che sostengono il contrario, il problema in Italia non è semplicemente quello della liquidità a breve termine (finanziamento del disavanzo), ma si tratta di una solvibilità a lungo termine (manutenzione di un enorme debito pubblico da una parte, e crescita, allo stesso tempo, molto modesta).

Prospettive future per l’Italia:


In un momento difficile e complesso come quello attuale, nel pieno della crisi dei debiti sovrani e con un'incombente stagnazione economica alle porte, la credibilità di un Governo è un fattore assolutamente strategico e la sua strategia di politica economica deve essere credibile. Il taglio a sorpresa del rating italiano da parte di Standard & Poor's conferma che il paese paga il conto di una grave crisi di credibilità. Purtroppo, da tempo l'Italia ha perso la prima, mentre a partire dall'estate ha cominciato a ondeggiare paurosamente anche sulla seconda, fino a quel momento impostata su una buona tenuta del deficit di bilancio rispetto alle autentiche voragini prodottesi nella maggior parte dei conti degli altri Paesi. Il tremendo cambio di passo imposto dalla crisi, con il crollo delle Borse e la "fuga dal rischio", ha repentinamente spostato l'attenzione dei mercati e degli investitori dalle azioni messe in campo dai Governi semplicemente per riequilibrare i bilanci statali al ben più complesso problema dei livelli assoluti del debito, con il crescente timore che l'enorme massa dei debiti pubblici e privati, nuovi e/o in scadenza, possa rapidamente condurre il mondo avanzato a una vera e propria implosione finanziaria. L'Italia, tenutasi fino a quel momento al coperto e lodata per il relativo rigore del suo bilancio, di colpo si è trovata al vento, un vento divenuto ben presto tempesta. Al punto che nel nuovo clima d'emergenza ci è stato richiesto dall'Europa e dalla Bce di accelerare di un anno, dal 2014 al 2013, l'azzeramento del deficit pubblico. Il gran caos attorno alla manovra finanziaria estiva, con ripetuti annunci e contrordini sui contenuti della manovra stessa, ha acuito la sensazione che il governo del Paese vacillasse, mentre il montare degli scandali e delle controversie giudiziarie riguardanti il premier ha ulteriormente minato la credibilità dell'esecutivo. Soltanto così si spiega il "sorpasso" degli spread dei titoli di Stato italiani su quelli della disastrata Spagna, ritenuti fino a quel punto più rischiosi dei nostri, rispetto al consueto parametro di riferimento dei bond tedeschi. Una deriva, quella dei nostri titoli pubblici, che avrebbe potuto essere anche maggiore senza gli acquisti di sostegno da parte della Bce. Non è esagerato dire che in una sola estate, come una cicala, l'Italia abbia sprecato tutta la credibilità che si era costruita come formica da quando, nell'ottobre del 2008, esplose la crisi dei mutui subprime. Con ciò non soltanto complicando il collocamento dei titoli pubblici italiani sul mercato ma rendendo anche vieppiù diffidenti i nostri partner europei nei riguardi di proposte pur innovative degli Eurobond.Eppure il nostro Paese, all'inizio, era rimasto relativamente ai margini della tempesta, non essendovi stata in Italia una "bolla" immobiliare e finanziaria come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Spagna, Irlanda. Risultavamo meno colpiti, con le famiglie italiane che erano (e restano) tra le meno indebitate al mondo, con le nostre banche solo sfiorate dal crack finanziario dei titoli "spazzatura" e con una crisi che da noi ha pesato più sulle imprese esportatrici e sugli investimenti che non sui consumi delle famiglie. Anche quando è divampata la crisi della Grecia, seguita poi da quelle d'Irlanda e Portogallo, l'Italia, nonostante il suo storico elevato livello del debito, è rimasta a lungo relativamente indenne da conseguenze negative. Anzi, nell'immaginario collettivo eravamo finalmente usciti dal gruppo dei Pigs. Inoltre, le nostre banche ancora una volta sembravano solide, non risultando esposte nei Pigs stessi, diversamente dalle banche tedesche, francesi, inglesi e olandesi. Non è passato un secolo ma era soltanto l'inizio dello scorso giugno quando la Commissione europea riteneva il nostro piano di consolidamento finanziario "credibile fino al 2012" e l'Economist, in un articolo fortemente critico su Silvio Berlusconi, scriveva che «la principale ragione per cui l'Italia è rimasta estranea alla crisi dell'Eurozona è che il ministro delle finanze Giulio Tremonti ha frenato gli istinti populisti e di spesa facile del suo premier e ha imposto una rigida disciplina fiscale. Tremonti ha fatto poco per far crescere l'economia ma ha tranquillizzato gli investitori sulle capacità dell'Italia di poter finanziare il suo elevato debito pubblico». In soli tre mesi, dopo le rocambolesche vicende della manovra finanziaria e i crescenti contrasti all'interno della maggioranza, tutto sembra radicalmente cambiato e la credibilità del Governo italiano sul piano internazionale è scesa ai minimi storici. In realtà, non sono peggiorati i nostri fondamentali. Anzi, in alcuni casi sono migliorati. Il nostro Pil cresce poco per la persistente debolezza della domanda interna ma l'export italiano nei primi sei mesi del 2011 è cresciuto più di quello tedesco. La ricchezza finanziaria e immobiliare delle famiglie italiane resta fra le più alte al mondo. Inoltre, l'Italia continua ad avere uno dei migliori bilanci primari. Le statistiche dell'Eurostat ci dicono che il nostro Paese è già tornato in avanzo primario nel primo trimestre del 2011, mentre gli altri tre maggiori Paesi dell'Unione europea e i 4 Pigs erano ancora in rosso (come appare dai grafici). Con la nuova manovra finanziaria, ancorché squilibrata fra troppe tasse e pochi tagli di spesa, il nostro avanzo primario crescerà ulteriormente e rapidamente. Nessun altro Paese in Europa riuscirà a fare altrettanto. Continuerà quindi la prodigiosa capacità dell'Italia di generare avanzi primari consistenti, grazie soprattutto, però, ai continui sacrifici di famiglie e imprese tramite nuove tasse e aumento dei costi o soppressione di servizi pubblici piuttosto che mediante tagli della spesa statale improduttiva e dei costi della politica.

Nell’estate del 2008, le principali banche del mondo sono state improvvisamente investite dalla più seria crisi degli ultimi ottanta anni. Abbiamo ancora sotto i nostri occhi le migliaia di ex-dipendenti della Lehmann Brothers per le strade di New York con la scatola di cartone sottobraccio. Da allora, ma forse anche da prima, non riusciamo a liberarci dalla crisi. Una crisi che è passata nel frattempo dal mondo finanziario a quello reale causando la più grande recessione americana e poi mondiale degli ultimi decenni, e investendo la stessa credibilità degli stati: la crisi del debito sovrano, il declassamento del debito statunitense, i timori per la tenuta stessa dell’euro. Crisi di liquidità, crisi di fiducia, crisi del sistema: il PIL di molti paesi industrializzati è diminuito, il commercio internazionale si è ridotto, e soprattutto è comparsa in modo sempre più diffuso la disoccupazione.  
L’ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale Michel Camdessus, individuava, tra i “vizi” all’origine della crisi, a) l’assenza di regole necessarie, b) l’insufficienza delle istituzioni di controllo, ma soprattutto c) i comportamenti collettivi emersi da una cultura fondata sull’avidità. Questi comportamenti – diceva - si sono radicati in un “contesto culturale in cui la seduzione del denaro è tale da produrre un accecamento collettivo e da disarmare tutte le vigilanze (…) La cupidigia (...) è divenuta furtivamente politicamente corretta e ha preso piede ovunque nel cuore della cultura collettiva (…) Tutti noi ci siamo messi ad adorare il vitello d’oro, presi come eravamo da questa cultura nella quale i nostri paesi si sono lasciati immergere.”     Secondo Camdessus, “un modello di avidità generalizzato ha scavato un vuoto etico nel quale l’economia mondiale si è inabissata (…) l’idolatria del denaro e il rifiuto collettivo di un’etica nella condotta delle economie ci hanno condotto alla catastrofe”. C’è bisogno di “più Europa”. Il modello da difendere è quello europeo: economia di mercato e stabilità delle regole del diritto, le conseguenze più ingiuste corrette da un sistema di redistribuzione senza però soffocare l’economia.     Occorre mettere l’Europa al cuore dell’elaborazione delle norme mondiali.

Andrea Giovannelli

Oltre l’economia, ripensare il futuro in un tempo di crisi
Da vittime a protagonisti responsabili
La prima cosa che vorrei dire è, ancora una volta, che il fenomeno economico che chiamiamo “crisi” ci interessa e ci riguarda non solo perché ne siamo le vittime innocenti. È questa la reazione spontanea e più diffusa, quella che anche a noi viene istintiva: il vittimismo e la ricerca del colpevole. Negli ultimi mesi i mass media sono stati affollati dal rincorrersi di denunce e proposte di soluzioni alla crisi basate sull’indicare negli altri la fonte di ogni problema. È lo sport preferito da tutte le categorie di commentatori: gli industriali accusano i politici perché sono incompetenti e indecisi; i banchieri accusano gli speculatori della finanza, perché sono avidi e spregiudicati; i governi accusano i mercati perché sono senza regole; i politici della destra accusano quelli della sinistra perché sono irresponsabili e viceversa; gli agitatori delle piazze, come ad esempio Beppe Grillo, additano la casta degli spreconi e i superpensionati d’oro; i contribuenti onesti se la prendono con gli evasori fiscali; e così via in un carosello senza fine di scaricabarile. La colpa insomma è sempre di qualcun altro e io sono la vittima.
Il primo passo da fare è allora, secondo me, uscire da questa logica perversa di deresponsabilizzazione e, con le opportune differenze dovute ai ruoli, assumere un atteggiamento responsabile. È una piccola rivoluzione di prospettiva: dall’impotenza al potere, dal vittimismo alla responsabilità, dal lamento alla propositività. Anche perché proprio in quanto cristiani, sentiamo di avere una responsabilità non solo davanti a noi stessi, ma anche nei confronti di tutta la parte del mondo che, pur soffrendo crisi anche ben peggiori della nostra, non ha voce per farsi ascoltare. Penso agli anziani, di cui abbiamo già parlato, o le altre fasce socialmente più deboli, ma anche all’Africa della fame e dell’AIDS e ai grandi assenti: le generazioni future. Solo dopo esserci assunti le nostre responsabilità potremo pretendere che ciascuno, anche chi ha dei compiti istituzionali più specifici, faccia la propria parte.
In secondo luogo sarebbe un evidente paradosso (ed è quello che i media ci vogliono far credere) che la soluzione della crisi attuale fosse compito da affidare esclusivamente agli esperti e agli “addetti ai lavori” cioè ai politici e agli economisti, cioè proprio a coloro che lo hanno causato, con il loro atteggiamento irresponsabile o la propria incompetenza, quando non volontariamente, per trarne vantaggio a discapito degli altri.
Si tratta allora di diventare tutti dei piccoli esperti di economia o di entrare in politica?
Non è necessario. Tutti noi dobbiamo essere i protagonisti di un processo di uscita dalla crisi, a partire dall’assunzione di una responsabilità personale davanti alle nostre scelte e al nostro modo di vivere. Proprio per questo il Vangelo ha molto da dire sulla situazione attuale, pur non essendo né un manuale di economia né un ricettario di soluzioni politiche. È infatti una vera scuola di responsabilità e una guida sicura alle proprie scelte, innanzitutto, e ciò mi sembra decisivo, perché fa “esistere” nell’orizzonte della nostra vita gli altri non come comparse evanescenti, o antagonisti e concorrenti, ma come persone di cui siamo responsabili, oltre i confini angusti della famiglia o della propria piccola cerchia e interessi. Si tratta di riaffermare quella prevalenza del “bene comune” su quello individuale, tema su cui da oltre un secolo insiste la dottrina sociale dei papi e della Chiesa.

La crisi o “le crisi” ?
A ben vedere nei media si parla unicamente della congiuntura economica, tanto che la parola stessa “crisi” è divenuta sinonimo di “crisi economica”. In realtà dobbiamo ricollocare quest’ultima all’interno del quadro di una crisi più generale che negli ultimi anni ha coinvolto tanti aspetti della vita. Solo così, a mio giudizio, ne comprenderemo la vera natura, le cause e potremo anche ipotizzare alcune vie di uscita.
Io credo che si debba parlare di una “crisi globale” che si riverbera in una crisi sociale, in una crisi della politica, in una crisi delle istituzioni, tanto italiane che europee, in una crisi antropologica, cioè dei fini e degli scopi ultimi della vita dell’uomo, e poi nella ben nota crisi economica. Quest’ultima, l’unica di cui si parla ampiamente, è solo sia un aspetto di quella crisi globale dell’uomo e della donna moderna che si trova spaesato e senza riferimenti in un mondo improvvisamente diventato globale e senza regole certe. Il fatto di mettere in evidenza solo la crisi economica come l’unica che caratterizza il nostro tempo, se da un lato denota l’enorme prevalenza che ha il denaro e l’economia, cioè il fare soldi, negli interessi della società contemporanea, dall’altra è un comodo modo per nasconderci una crisi globale che ci vede tutti coinvolti e corresponsabili, protagonisti e non solo vittime.
Sono tendenze culturali che influenzano pesantemente il nostro modo di agire a tutti i livelli: quello banale della vita quotidiana, così come quello delle grandi decisioni politiche o istituzionali. La differenza è l’ampiezza del raggio d’influenza, ma la mentalità che ne è alla base è la medesima.
Di ciascuna crisi si potrebbe parlare ore, ma non questo è il nostro compito, vorrei solo evidenziare tre principali elementi che, mi sembra, sono fra loro interconnessi e caratterizzano trasversalmente tutti questi aspetti della crisi globale, per poi provare a immaginare come reagire.
La dittatura del materialismo
Il primo elemento è un’imperante dittatura del materialismo. Essa ci ricorda vecchi schemi ideologici marxisti, ma oggi non consiste più, come un tempo, nella negazione dell’esistenza di Dio, ma nell’affievolimento di ciò che è spirituale, nel senso di non economico e monetizzabile. L’uomo è ciò che compra, appiattito su una dimensione meramente economicista, vale per quanto guadagna, per la sua capacità produttiva, ma ancora di più per il valore monetario che sa ricavare con ogni mezzo, senza andare troppo per il sottile. Di conseguenza tutto si compra, tutto ha un mercato, e tutto deve essere rimborsato o dare luogo a un guadagno. Essere in perdita è un disvalore, rimetterci una sconfitta, ricavare poco un segno di fallimento personale. Ciò che è gratuito e disinteressato non ha mercato.

Questo modo di ragionare invade sempre più tutti gli aspetti della vita dell’uomo, il suo modo di parlare e agire, i sentimenti e i rapporti familiari e amicali, la struttura della società e i giudizi sui componenti. Persino la cultura è giudicata inutile, a meno che non generi un profitto. Lo si vede nelle ultime riforme scolastiche. La felicità è commisurata ai beni posseduti. I desideri e i progetti sono delineati sullo schema imprenditoriale di investimento, ricavo o perdita, e così via. Anche Dio e la religione, nella misura in cui c’è una convenienza, possono benissimo essere inclusi in questo quadro, purché non ne mettano in discussione i fondamenti. Infatti i criteri non sono ideologici, ma utilitaristici. Questo modo di pensare non coinvolge solo chi ha grande disponibilità di mezzi ma, in un’epoca di cultura globalizzata l’unica differenza fra le classi sociali è il grado di frustrazione che vivono a seconda del grado in cui riescono a conseguire il medesimo ideale di felicità materiale. Prova ne sono i modelli di comportamento e le mode che unificano le popolazioni giovanili di tutto il mondo, sviluppato o meno, occidentale e orientale, annullando le differenze culturali e tradizionali, e generando un malcontento crescente in quanti aspirano a livelli di benessere che gli sono preclusi.

La dittatura dell’individuo
Il secondo è la dittatura dell’individuo. Intendo dire la convinzione che non ci possa essere una realizzazione personale fuori dall’ambito dell’io e del suo piccolo mondo. Non ci si aspetta niente da una dimensione sociale e collettiva e per questo si fa fatica a pensare che qualcosa possa cambiare nella nostra vita a partire da altro che dal mio impegno individuale.

Viviamo cioè un vuoto di attesa e di speranza: cosa possiamo aspettarci di diverso dal futuro della storia? Di per sé la storia ha necessariamente una dimensione più larga dell’individuo, coinvolge tutti ed è come il fluire di tante vite che si intrecciano, e tutte le idee collettive che inserivano l’individuo in un orizzonte di storia in comune con gli altri sono tramontate. Abbiamo visto morire l’idea che c’è un futuro collettivo legata, ad esempio, al concetto di patria. Per essa un tempo si riteneva fosse giusto anche offrire la vita, per un ideale collettivo e proteso verso un futuro da costruire anche per mezzo del mio sacrificio personale; era quasi una mistica. Oggi invece siamo nell’epoca del localismo esasperato, e la mia identità si rafforza essendo contro le altre in una conflittualità di appartenenze locale e litigiosa. Pensiamo alla fatica di festeggiare i 150 anni di unità dell’Italia.
Abbiamo visto morire le grandi ideologie (marxismo, comunismo, socialismo, fascismo, ecc…) e con esse i grandi progetti di rivoluzione della realtà. Un tempo le forze politiche avevano un progetto, un’idea di società e cercavano di convincere gli elettori a votarli per realizzarla. La politica oggi, e lo vediamo bene in questo periodo di crisi, non propone un progetto di società o idee di cambiamento, ma elabora un programma cercando di accontentare i piccoli desideri individuali della gente, di dargli quello che vuole, di non scalfirne gli interessi individuali, a volte anche assecondando gli istinti meno nobili: arricchirsi, farsi strada, ottenere subito il più possibile, avere successo con le donne, ecc...

Abbiamo visto morire una certa idea di famiglia larga che comprendeva magari anche 4 o 5 generazioni, arrivava a comprendere i cugini e i quasi-parenti (quelli che si chiamavano zii, vicini e amici di famiglia), cosa che l’allungamento della vita media renderebbe oggi più possibile. Invece la famiglia è sempre più spesso di 2 generazioni, perché i vecchi sono fastidiosi e vengono espulsi dal nucleo familiare, i bambini si evitano perché sono spese e prendono tempo. La famiglia tende a restringersi all’individuo (sempre più spesso solo perché il matrimonio si rompe) o con i genitori (fino a che non sono troppo vecchi) o con un figlio (non più di uno sennò è fatica).
L’individualismo esalta modelli di comportamento antagonista e concorrenziali: fra i popoli (vedi ad esempio il fenomeno della xenofobia e il rifiuto degli immigrati), fra gli individui, fra le generazioni, e tutto questo fomenta atteggiamenti di antipatia e rifiuto, piccola violenza, insofferenza, fastidio per l’altro, specie se è diverso da me.
La dittatura dell’onnipotenza

Infine la dittatura di un’idea di onnipotenza dell’uomo. Il progresso tecnologico ha spostato sempre più in là il confine di ciò che è possibile fare. I nuovi traguardi in campo medico, biologico, delle comunicazioni e dei trasporti ha reso possibile e spesso relativamente facile molte cose che fino a pochi ani fa erano solo sogni futuribili. Di conseguenza si è imposta un’equazione: ciò che è possibile è giusto fare e auspicabile avere. Pensiamo alla manipolazione genetica, alle tecniche di sostegno alla fertilità umana, alla possibilità di influire pesantemente con la comunicazione sui processi politici ed economici, anche senza comparire apertamente (i cosiddetti poteri occulti), ecc… Si è cioè affermato un senso di onnipotenza dell’uomo che sempre meno si pone il problema di quali sono i limiti da imporre a se stesso nell’attuare le grandi potenzialità tecnologiche.
Siamo nel tempo della velocità e sempre più piccolo è il margine per la comprensione profonda, per la meditazione, per la decisione frutto di scelte coscienti e responsabili, e sempre più frequente la reazione istintiva o immediata con il motivo che la velocità richiede di non rallentare i processi.

Questo ha generato un senso di insoddisfazione latente: quello che si ha non basta mai, perché si potrebbe avere di più, e non conta a quali costi umani né a discapito di chi.

Come uscire dalle crisi

Questi elementi, in estrema sintesi, sono a mio giudizio fra i principali fattori scatenanti quella crisi globale, di cui quella economica è figlia. Quest’ultima sarà sconfitta assieme alla altre crisi, sociale, politica, istituzionale, antropologica, se sapremo combattere gli elementi che le determinano tutte insieme. I politici e gli economisti sono impotenti se affrontano solo un piccolo spicchio della crisi globale. Potranno trovare qualche rimedio temporaneo, ma non la soluzione.

“Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.” (Mt 7,16-18) Le mentalità che descrivevo sono come tanti alberi cattivi che affondano sempre più le loro radici nelle nostre vite personali e nella società. Non ci stupiamo allora se ci ritroviamo intossicati da troppi frutti cattivi, è ciò che abbiamo coltivato! Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo contribuito a diffondere i semi delle male piante. C’è bisogno di una nuova piantagione di alberi buoni, di pazienza e fatica di crescerli finché diano frutti buoni.

Non a caso ho definito questi elementi della nostra cultura e dei comportamenti col nome di “dittature”, perché sono oppressive e limitano la nostra libertà. Ci impongono una schiavitù, rafforzata dal conformismo che porta ad agire come tutti e a trovare in questa unanimità il criterio della giustizia: non devo decidere in base al mio giudizio indipendente, ma basta seguire la corrente di come fanno tutti. Si abdica così alla propria libertà di pensiero e decisione. Come accennavo, il Vangelo ci aiuta a liberarci dalle dittature che imprigionano indicandoci una via per uscire dalla schiavitù del materialismo, dell’individualismo e della pretesa onnipotenza dell’uomo.

Innanzitutto facendoci riscoprire l’importanza degli altri come protagonisti e non solo comparse nella nostra vita. Gli altri che sono sì i familiari, i conoscenti, i parenti, ma non basta allargare le mura della nostra prigione per essere liberi. Anche se non si è soli in cella, ma in due, in tre, in dieci, sempre prigionieri siamo. C’è bisogno di aprire le porte della cella del mondo angusto per respirare la libertà di voler bene e sentirsi responsabili di un mondo più vasto.
Poi restituendoci la dimensione spirituale che sono i sentimenti, la bellezza, l’amicizia, l’amore, tutte cose inutili e non commerciabili, ma che ridanno sapore e calore alla vita. Il Vangelo ci ridona lo spazio dello stupore, della gratitudine, della gratuità, della generosità. Sono tutti atteggiamenti che contraddicono l’efficienza materialista e liberano forze di bene nella nostra vita.

Infine ridandoci una dimensione di interiorità, cioè di quello spazio in cui le azioni e le decisioni vengono pensate e vagliate, alla luce di una molteplicità di elementi e non delle uniche logiche del profitto e del mio interesse individuale. In questa interiorità, che è cuore e cervello messo al servizio della realizzazione del bene, rinasce l’umanità resa arida dalla fretta e dal conformismo. Si riscopre che il mio bene non può essere in conflitto con quello degli altri; se così è si tratta di un falso bene anche se apparentemente mi procura un vantaggio.

Ma questa libertà non può essere solo un sentimento o una sensazione passeggera o legata alla buona volontà di un momento. C’è bisogno di ambiti concreti in cui sperimentare la libertà e abituarsi ad essa, perché non è una dimensione naturale, ma ci è donata da Dio.

Io vorrei proporvene i due principali.

Il primo è la liturgia della domenica. È un appuntamento comune che ci strappa ai ritmi tutti incentrati su noi stessi. È un atto collettivo, in cui non sono io il protagonista, né lo spettatore, ma in cui insieme siamo invitati a un agire comune e a sentire la bellezza di una famiglia nuova. È uno dei pochi luoghi in cui ascolto e rispondo insieme a tanti altri, in cui non siamo portati alla passività, ma a reagire interiormente. È il luogo in cui imparare a sentire anche con il cuore degli altri, a vedere con gli occhi di un popolo, a mettermi in discussione a partire da parole non mie, non urlate ma che si impongono nella loro verità, perché sono alte e buone. È il luogo in cui nessuno è lasciato solo davanti a compiti o responsabilità schiaccianti. È il luogo in cui ciascuno è accolto per quel che è: bambino, adulto, disabile, anziano, pieno di difetti, così com’è, e trova un posto, in cui siamo svelati per quello che siamo veramente ma non condannati a restare tali, in cui respiriamo una misericordia e un perdono che ridanno speranza e prospettiva anche a chi non sa vedere il proprio futuro diverso. Insomma è un luogo liberato e liberante, se lo viviamo con la disponibilità un po’ ingenua e bambina del figlio.

Secondo è l’incontro affettuoso con i poveri, il servizio ad essi. I poveri sono i primi “altri” a cui il vangelo ci chiama a voler bene. Ma come, prima dei parenti? Sì, perché l’amore verso i poveri misura la nostra capacità di voler bene veramente, cioè in modo gratuito e disinteressato. Da essi non possiamo attenderci nulla in cambio, non abbiamo nei loro confronti obblighi né doveri, abbiamo solo da rimetterci. Imparare a voler bene ai poveri significa divenire capaci di voler bene veramente, cioè in modo gratuito e disinteressato, anche ai nostri parenti, ai conoscenti e ai vicini. Non accontentiamoci, come ci ricorda Gesù, di voler bene a chi già ci vuol bene o a chi siamo tenuti a voler bene o a quelli da cui possiamo sperare di ricevere contraccambio e vantaggi. Questo è un amore piccino, che si fredda presto, che non dura. Viviamo l’ambizione di imparare l’amore che dura e non si fredda e che rimane per sempre, perché è tenace e sa guardare oltre le difficoltà e gli ostacoli presenti con speranza e fiducia. Un amore che è forte non per le mie doti e capacità (che sono ben piccola garanzia) ma perché si fonda su un amore immeritato e sovrabbondante che è quello di Gesù. Io imparo a voler bene se comincio dai poveri, e la vita sarà liberata non solo dalla freddezza dell’amore per sé e dell’egoismo, ma anche dall’amore frivolo e interessato, dai surrogati del vero voler bene che il mondo consumista ci propone, tanto accattivanti quanto inconsistenti.
Le mie parole, mi rendo conto, possono sembrare ingenue. Sì, forse lo sono, ma il Vangelo ci insegna che con la semplicità del bambino si imparano i segreti del Regno di Dio. Se ciascuno si impegnerà personalmente e con responsabilità nella sua vita a far spazio al potere che il Signore dona, il mondo sarà trasformato perché le armi deboli della preghiera e dell’amore per i poveri sono la scuola di una umanità nuova capace di sconfiggere la crisi globale dell’uomo e della donna attuali.

Roberto Cherubini

lunedì 26 settembre 2011

XXVI domenica del tempo ordinario


Dal libro del profeta Ezechiele 18, 25-28

Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».



Salmo 23 - Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, +
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.

Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare



Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi2, 1-11

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi  obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.



Alleluia, alleluia, alleluia.
Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,
io le conosco ed esse mi seguono.
Alleluia, alleluia, alleluia



Dal vangelo secondo Matteo 21, 28-32

In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. E` venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli».

Commento

Cari fratelli e care sorelle, i brani della Scrittura che abbiamo ascoltato oggi ci invitano in modo unanime e concorde a porci davanti alla necessità di vivere una maggiore autenticità. Il tempo moderno infatti, lo sappiamo, è caratterizzato dall’attribuire un grande valore all’esteriorità. Come appariamo e come gli altri ci giudicano spesso è ritenuto più importante di come siamo veramente. Essere apprezzati, considerati e magari anche ammirati sembra lo scopo principale del nostro agire, e lo stesso criterio applichiamo nel valutare le persone che abbiamo davanti: ci accontentiamo di come appaiono.

La Parola di Dio però oggi ci pone davanti alla necessità di dare importanza non a quello che sembra, ma a ciò che ciascuno di noi è veramente. Oggi vediamo a cosa ha portato, a livello globale, questa mentalità dell’apparire: il gonfiarsi di situazioni che, sembrando reali e anche apprezzate, hanno invece poi rivelato la loro inconsistenza provocando il proprio crollo. Questo è avvenuto a livello economico, dove le grandi ricchezze sembravano solide e sicure e si sono invece rivelate deboli davanti allo strapotere delle speculazioni; a livello politico ogni decisione è presa in base ai sondaggi, senza una direzione precisa, senza responsabilità e un obiettivo, con l’unico scopo di apparire persone di successo e spregiudicate, di avere consenso.

Il Signore oggi però ci chiede, al di là dell’apparenza e di ciò che sembra, quale è la verità della tua vita? Qual è l’autentico valore e consistenza delle tue azioni, quali gli scopi, i modelli verso cui dirigi i tuoi passi?

È la domanda profonda che è insita nell’esempio che Gesù presenta: due figli che apparentemente si dimostrano l’uno obbediente e l’altro riottoso, ma poi è il loro agire che rivela chi ciascuno è in verità.

Spesso si dice che per essere veramente se stessi bisogna esprimere con immediatezza i propri pensieri e la propria personalità. Se ciò fosse vero allora dobbiamo concludere che nessuno dei due figli è sincero. Entrambi dicono una cosa e ne fanno un’altra, a modo loro tutti e due sono parimenti falsi. Ma noi intuiamo chiaramente che il figlio che si pente e, dopo aver detto di non voler aiutare il padre nel lavoro, poi invece ci va è colui che si comporta da figlio, è il “vero” figlio. Non l’altro che pur mantenendo le forme esteriori e mostrandosi obbediente, poi, nella concretezza, si disinteressa del padre e della responsabilità che lo lega a lui. Questo ci fa capire come per noi cristiani essere “veri” non significa essere se stessi così come “ci viene” spontaneamente, è autentico chi infatti, indipendentemente dalla propria indole o istinto, accetta di assumere col suo agire il ruolo di figlio di Dio, cioè di obbedire alle richieste e ai “consigli” che egli ci  propone. È vero uomo e vera donna non chi da libero sfogo ai propri sentimenti sorgivi e naturali, ma chi invece si forza di modellarsi su un comportamento che, magari, non sente immediatamente suo, secondo i suoi desideri, ma che, alla fine, realizza in pienezza il proprio essere umano fino in fondo.

È un paradosso, ma il racconto di Gesù è convincente. Egli chiede: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?” e gli dicono: “L’ultimo” anche se è colui che ha fatto la figura peggiore, poiché ha risposto senza rispetto al padre: “Non ne ho voglia”.

Gesù però sottolinea anche un altro importante elemento: fra la risposta istintiva di rifiuto e la decisione poi di andare a lavorare obbedendo al padre c’è qualcosa di decisivo: “ma poi, pentitosi, ci andò.” Il Signore sottolinea come il passaggio dalla risposta istintiva alla scelta di obbedire avviene perché dentro il figlio si muove qualcosa. Sentimenti, pensieri, ricordi di esempi passati, non sappiamo cosa spinse il figlio a cambiare idea, ma se non si fosse soffermato a riflettere e a maturare una decisione diversa sarebbe rimasto un antipatico fannullone ribelle. Il primo figlio non passa attraverso questo processo di riflessione e decisione: egli sa fin dall’inizio che non andrà, e si preoccupa solo di salvare le forme.

È questo passaggio, il movimento di pensieri e riflessioni che avviene dentro il nostro cuore, e che in termini cristiani chiamiamo conversione, che amplia lo spazio interiore nel quale può maturare in ciascuno di noi la decisione di diventare (perché non lo siamo di natura) figli di Dio, cioè lavoratori della sua vigna. È quello che dobbiamo cercare ogni volta che il Signore ci parla: che le sue parole non scorrano via senza provocare nulla, ma che mettano in movimento i nostri pensieri, il cuore, i sentimenti, perché maturi la decisione migliore. Ma siamo noi a dover “avviare” questo movimento e lasciare che la parola lavori dentro di noi e ci susciti dubbi, inquietudini e, infine, pentimento. Infatti possiamo essere sicuri che “istintivamente” saremo come quel primo figlio, magari formalmente ed esteriormente corretti, ma nella realtà estranei dal Padre e figli solo di noi stessi, dei nostri umori passeggeri e della mentalità del mondo.

Lo ribadisce in modo chiaro il profeta Ezechiele: “se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà”.

Fratelli e sorelle, non fidiamoci troppo dei nostri comportamenti e decisioni istintive, ogni volta dobbiamo fermarci  davanti al Signore e riflettere, convertire il cuore dalla sicurezza arrogante alla docilità del figlio, che magari non capisce tutto, ma si fida, allontanarci dalla scontatezza con cui agiamo, giudichiamo e decidiamo il nostro futuro. A chi accetta di essere veramente se stesso, cioè un figlio fedele, il Signore infatti assicura la sua benedizione: “egli certo vivrà e non morirà”.


giovedì 22 settembre 2011

Cena di solidarietà - 1 ottobre 2011

mercoledì 21 settembre 2011

La preghiera - mercoledì 21 settembre 2011


Isaia - Capitolo 60, 1-ss.



Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce,

la gloria del Signore brilla sopra di te.

Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra,

nebbia fitta avvolge i popoli;

ma su di te risplende il Signore,

la sua gloria appare su di te.

Cammineranno le genti alla tua luce,

i re allo splendore del tuo sorgere.

Alza gli occhi intorno e guarda:

tutti costoro si sono radunati, vengono a te.

I tuoi figli vengono da lontano,

le tue figlie sono portate in braccio.

Allora guarderai e sarai raggiante,

palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,

perché l'abbondanza del mare si riverserà su di te,

verrà a te la ricchezza delle genti.


Chi sono quelle che volano come nubi

e come colombe verso le loro colombaie?

Sono le isole che sperano in me,

le navi di Tarsis sono in prima fila,

per portare i tuoi figli da lontano,

con argento e oro,

per il nome del Signore, tuo Dio,

per il Santo d'Israele, che ti onora.

Stranieri ricostruiranno le tue mura,

i loro re saranno al tuo servizio,

perché nella mia ira ti ho colpito,

ma nella mia benevolenza ho avuto pietà di te.

Le tue porte saranno sempre aperte,

non si chiuderanno né di giorno né di notte,

per lasciare entrare in te la ricchezza delle genti

e i loro re che faranno da guida.

Perché la nazione e il regno

che non vorranno servirti periranno,

e le nazioni saranno tutte sterminate.

La gloria del Libano verrà a te,

con cipressi, olmi e abeti,

per abbellire il luogo del mio santuario,

per glorificare il luogo dove poggio i miei piedi.

Verranno a te in atteggiamento umile

i figli dei tuoi oppressori;

ti si getteranno proni alle piante dei piedi

quanti ti disprezzavano.

Ti chiameranno "Città del Signore",

"Sion del Santo d'Israele".



Il Signore, per bocca del profeta Isaia, si rivolge a Gerusalemme, la città in cui Dio ha radunato il suo popolo e dove ha stabilito la sua dimora stabile.

La città è la prospettiva a cui il Signore ci richiama in questo primo appuntamento con cui riapriamo un anno di vita e di lavoro a Santa Croce. La città è lo sfondo del nostro impegno: non il piccolo orizzonte individuale, che spesso influenza così fortemente il nostro umore, troppo mutevole e instabile, e la nostra stessa disponibilità a voler bene, ma l’orizzonte ampio della città, cioè del luogo in cui gli uomini vivono insieme. Su di essa siamo chiamati da Dio a posare lo sguardo, e per farlo abbiamo bisogno di sollevarci nel luogo alto che è la nostra preghiera. Da qui l’orizzonte si apre e la vista coglie un mondo che altrimenti, nel “basso” del quotidiano e delle abitudini, non ci appare.

Da questo luogo alto in cui oggi torniamo a riunirci vediamo una città larga e complessa. Sì, il mondo è complesso, perché le vite si intrecciano, le esistenze si accavallano, le situazioni si allargano a dismisura, ma non ci fa per questo paura, perché qui la nostra visione è trasfigurata. Non vediamo solo i problemi che ci sovrastano e schiacciano, non ci accorgiamo più solo delle difficoltà e delle sfide, ma impariamo a vedere la realtà trasfigurata dall’amore di Dio, così come lui la sogna e la propone anche a noi.

Da qui possiamo guardarla con occhi nuovi e animo diverso.

“su di te risplende il Signore,

la sua gloria appare su di te.

Cammineranno le genti alla tua luce,

i re allo splendore del tuo sorgere.”

Dice Isaia: la città perde il suo aspetto caliginoso e scuro, diventa luminosa, perché Dio dimora in essa.

Allora guarderai e sarai raggiante,

palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,

La gioia della città è la nostra gioia, così come il dolore e la sofferenza di essa sono gli stessi nostri. È la libertà del figlio di Dio, non più schiavo degli umori e dell’egocentrismo concentrato su sé, ma libero di fare sua la prospettiva larga e straordinaria della città che vive con Dio.

Stranieri ricostruiranno le tue mura,

i loro re saranno al tuo servizio,

Le tue porte saranno sempre aperte,

non si chiuderanno né di giorno né di notte,

per lasciare entrare in te la ricchezza delle genti

Nessuno è straniero nella città, e tutti contribuiscono con la ricchezza della propria umanità diversa, a costruire la vita insieme. Come è diversa questa visione dalla chiusura della paura, della difesa dall’altro, dal diverso, che imprigiona le persone che vivono in una città recintata e dalle porte chiuse!

La gloria del Libano verrà a te,

con cipressi, olmi e abeti,

per abbellire il luogo del mio santuario,

per glorificare il luogo dove poggio i miei piedi.

Cos’è che rende diversa questa città? È il fatto che il Signore vive in essa, in modo stabile e concreto, come indica la bella espressione “dove poggio i miei piedi”.

La visione di Isaia si conclude con il cambio del nome della città: non più Terni, o Roma, o Milano, ma:

Ti chiameranno "Città del Signore",

"Sion del Santo d'Israele".

Cari fratelli e care sorelle, la visione di Isaia ci riempie il cuore di speranza e di gioia: è questa la città che vogliamo, e all’inizio dell’anno, come un sogno, ci si propone davanti lo spettacolo di un mondo che può cambiare e vivere una vita diversa dal buio e dalla violenza attuali.

Questa visione è anche una vocazione e una missione. Oggi la visione di Isaia chiede a ciascuno di costruire la casa del Signore nella città, perché possa abitarvi, che il nostro cuore allargato e aperto, reso accogliente e caldo. Chiede di fare spazio nelle strade troppo strette, negli angoli troppo bui. Chiede di realizzare il sogno di Dio. E non c’è chi è troppo giovane o troppo vecchio, troppo piccolo o troppo debole, troppo complicato o troppo sofferente. La vocazione a vivere la visione è offerta a tutti e a tutti chiede di fare spazio. È l’invito che riceviamo all’inizio dell’anno: salire ogni volta su questo luogo alto, lasciandoci dietro le piccole visioni individuali e le tristezze del quotidiano banale e non smettere di sognare e lavorare perché Dio poggi i suoi piedi nelle strade e le piazze di Terni, nelle vite nostre e di tutti i nostri fratelli.

Non lasciamo vincere il realismo triste che ci fa dire “è impossibile” o “è troppo difficile”, accogliamo con gioia il Signore che chiede di entrare nel nostro quotidiano facendo spazio tra tanti cumuli alle sue parole luminose e piene di speranza. È la nostra salvezza, la salvezza del mondo intorno a noi. È troppo importante e troppo alto per volgerci indietro o rinunciare.

Il Signore ci accompagni e ci sostenga perché l’altezza e la grandezza della nostra vocazione dia i frutti di pace e di vita eterna che Lui ci promette. Amen.

domenica 18 settembre 2011

Festa dell'esaltazione della Santa Croce


Dal libro dei Numeri 21, 4b-9


In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.


Salmo 77 - Non dimenticate le opere del Signore!
Ascolta, popolo mio, la mia legge,

porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la mia bocca con una parabola,
rievocherò gli enigmi dei tempi antichi.


Quando li uccideva, lo cercavano
e tornavano a rivolgersi a lui,
ricordavano che Dio è la loro roccia
e Dio, l’Altissimo, il loro redentore.


Lo lusingavano con la loro bocca,
ma gli mentivano con la lingua:
il loro cuore non era costante verso di lui
e non erano fedeli alla sua alleanza.


Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa,
invece di distruggere.
Molte volte trattenne la sua ira
e non scatenò il suo furore.


Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippési 2, 6-11


Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.


Alleluia, alleluia, alleluia.
Noi ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo

perché con la tua croce hai redento il mondo.
Alleluia, alleluia, alleluia.

Dal vangelo secondo Giovanni 3, 13-17


In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».


Commento


Cari fratelli e care sorelle festeggiamo oggi con solennità la Santa Croce del Signore Gesù, una festa antica che unisce Oriente e Occidente e affonda le sue radici nel IV secolo, quando la moglie dell’Imperatore Costantino, Elena, volle riconoscere in un legno antico trovato a Gerusalemme nei pressi del luogo che la tradizione indicava come quello della crocifissione di Gesù la “vera croce”. Da allora il giorno 14 settembre si celebra questa memoria in ogni chiesa del mondo, tanto più nella nostra Parrocchia che ne porta il titolo: “Santa Croce”.


La croce, fratelli e sorelle, è un segno contraddittorio. In antichità era un segno infamante, simbolo della condanna a morte per crimini gravissimi, ma poi venne messa in alto sugli altari e sui tetti delle chiese, come simbolo della nostra fede. Nella storia è diventata addirittura un simbolo di dominio in nome del quale si sono fatte le crociate, distruggendo interi paesi e spargendo molto sangue. La croce ancora oggi è paradossalmente allo stesso tempo un banale fregio da portare appeso al collo senza dargli troppo peso, ma anche qualcosa da togliere dalle pareti, perché disturba allo sguardo.


Ci chiediamo oggi allora in questa occasione festiva: cosa rappresenta la croce per noi?


Abbiamo ascoltato nella prima lettura come il popolo d’Israele durante il viaggio nel deserto si lamenta con Mosè perché deve affrontare le difficoltà del lungo cammino in una condizione di estrema difficoltà: nomade, senza cibo, acqua, casa, con una prospettiva assai incerta. Questa condizione assomiglia molto alla situazione in cui anche noi ci troviamo oggi. Siamo nel pieno di una crisi non solo economica, ma anche politica, etica e sociale. Le certezze e il benessere di prima sembrano destinati a scomparire per sempre, il futuro è incerto, la prospettiva buia, le persone più rappresentative e con un ruolo pubblico sono screditate e non sembrano più meritare la nostra fiducia. È tempo di disoccupazione, di consumi limitati, di sconcerto generale.


In mezzo al deserto quella gente vive come affogata nel lamento per l’oggi, tanto da dimenticare cosa c’è stato prima (la schiavitù) e qual è la prospettiva futura (la terra promessa). In questa stagnazione anche noi rischiamo di vivere pieni di recriminazioni e vittimismo. Cerchiamo di chi è la colpa: la casta, i politici, gli spreconi, il Nord, il Sud… le voci si sprecano, le piaghe si allargano, se ne creano di nuove e le vecchie si infettano di sempre nuovi motivi di insoddisfazione e tristezza, sensi di rivalsa contro qualcuno, rancori, scontentezza. Questi lamenti e accuse sono come i serpenti che mordono Israele nel deserto. E più ci lamentiamo più la piaga si allarga, fino a portare alla morte lenta della speranza in un futuro migliore.


Come se ne esce? Dio parlò a Mosè, e gli disse che il popolo doveva innalzare un serpente di bronzo e chi lo avrebbe guardato sarebbe guarito dalle proprie piaghe. Quel serpente innalzato è la croce, ci dice Gesù: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.” Sì, la guarigione viene dall’alzare lo sguardo da sé per fissarlo sul crocifisso. Questa è anche per noi oggi la salvezza. In questo tempo di crisi non possiamo solo contemplare nostalgici un passato migliore: è un’illusione perché è proprio quel passato che ha causato tanta crisi oggi! C’è bisogno di un modello nuovo su cui puntare lo sguardo e verso cui andare. Questo modello oggi ancora una volta è la croce di cui oggi facciamo memoria. Sì, la croce può essere anche per noi il segno di un nuovo modo di vivere: non solo per se stessi, non più accaniti per il proprio vantaggio a scapito degli altri, non più all’inseguimento di un benessere a tutti i costi, tutti comportamenti cioè che ci hanno portato a trovarci nella nostra situazione, ma bensì un nuovo modo di pensare a sé e alla vita. Un nuovo modo che si fonda su un senso di solidarietà, di attenzione ad una crescita che non lasci indietro chi è più debole e miri solo all’arricchimento personale, che non pensi che bisogna saper sfruttare al massimo l’oggi disinteressandosi del domani. È il modo con cui Gesù ha vissuto fino alla croce, segno estremo di un amore altruista pronto a scarificare se stesso per il bene di tutti gli altri.


Questo nuovo modo di vita non riguarda solo chi è ricco e potente, i politici e gli economisti che controllano le borse, ma ciascuno di noi, perché solo sulla base di una nuova cultura e un nuovo modo di vivere si potrà fondare una società più giusta e umana, che prepara il futuro e condivide il benessere in modo equo.


Il nostro oggi è un momento delicato, lo dicono in molti. Per questo abbiamo tutti noi una grande responsabilità. Non volgiamoci nostalgici al passato, né ripieghiamoci su noi stessi a difendere quello che è rimasto dopo le tempeste. Se faremo così ci condanneremo a vivere senza un futuro migliore, come Israele, e dimenticando la storia di amore con cui Dio ci ha accompagnato finora.


Ma “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” dice l’evangelista Giovanni.


Sì la croce di Gesù ci salva perché ci libera dalla schiavitù dell’egocentrismo e ci rende capaci di vivere la compassione per l’altro e il desiderio di condividere e alleviarne il dolore. E’quello che Gesù fece sulla croce: amare i suoi tanto da affrontare la morte per non abbandonarli a se stessi, ed è quello che sperimentarono Francesco d’Assisi, Padre Pio e tutti quelli che fissando il loro sguardo sulla croce ne assunsero il dolore fin nella carne stessa, attraverso i segni delle stimmate. Da queste essi furono liberati dalla schiavitù dell’autocommiserazione e dell’egocentrismo e ricevettero il dono della salvezza di un amore grande e largo per tutti i crocefissi che incontravano: il lebbroso, gli umili, i poveri, i malati, i senza padre e madre, ecc...  Impararono, come Gesù, a farne proprio il dolore compatendo e sollevandoli da un peso che da soli è insopportabile. Si caricarono del giogo soave sollevando le vite abbattute dei fratelli e delle sorelle e scoprirono che alla fine è Gesù che se ne assume il peso.


Facciamoci anche noi segnare dalle stimmate del dolore dei crocefissi che incontriamo in carne e ossa in chi sta peggio è vive con più dolore il peso di questa nostra crisi. Le nostre stimmate sono lo sporco che si incrosta nelle mani di chi si dà da fare nelle situazioni difficili, di chi non si tira indietro quando c’è da impegnarsi per il bene di tutti, anche di chi non conosciamo o non è nostro parente. Le nostre stimmate fanno un po’ male, richiedono sacrificio e fatica, ma con esse ci ritroveremo non tristi e appesantiti, lamentosi e nostalgici di un passato non bello, ma liberi dall’angustia dell’orizzonte ristretto del mio io, con la prospettiva di un futuro diverso per cui lottare, con la gioia di una passione che vuol dire sì sofferenza, ma anche sentimenti caldi e profondi.


Cari fratelli e care sorelle, per questa festa abbiamo voluto adornare la croce con il verde dei rami ed il rosso dei fiori proprio per significare che il legno della croce non è segno di sconfitta, ma porta in sé il germoglio di una vita rinnovata, che chi si accosta ad esso diviene capace di far sbocciare nuovi sentimenti e nuova generosità. Dove verdeggiano le foglie si apre un futuro di speranza, dove c’è aridità l’erba dissecca e vince la morte.


Preghiere  


O Signore che hai donato tutto te stesso per la nostra salvezza, accogli dalla croce noi peccatori e bisognosi del tuo perdono, perché anche noi sappiamo legarci al giogo soave di una vita spesa per gli altri.


Noi ti preghiamo


 Signore Gesù, che sei venuto a portarci con la croce la libertà dalla schiavitù del peccato, insegnaci a non vivere nel lamento, ma a compatire i fratelli nel dolore e a lavorare per il loro bene.


Noi ti preghiamo


 O Padre buono che hai mandato il tuo unigenito per salvare il mondo, fa’ che il vangelo della morte e resurrezione del Cristo giunga presto a tutti.


Noi ti preghiamo


Accogli con amore o Dio la nostra preghiera quando ci facciamo carico del male e del dolore degli altri. Fa’ che per la forza del tuo amore la loro vita sia salvata e il nostro cuore riempito di gioia.


Noi ti preghiamo


 Guarda con bontà o Dio del cielo il mondo intero, sconvolto da calamità e guerre. Dona pace e salvezza a tutti.


Noi ti preghiamo


 Guarisci o Padre buono tutti coloro che alzano lo sguardo da sé per invocare il tuo perdono. Fa’ che come nel deserto siano anch’essi salvati dal morso velenoso del maligno che dà la morte.


Noi ti preghiamo.
 
Guida e proteggi o Dio tutti i tuoi figli ovunque dispersi, perché ispirati dal tuo amore sappiamo essere testimoni autentici del Vangelo.


Noi ti preghiamo


Soccorri o Padre buono tutti i poveri, perché possano trovare in te la consolazione ad ogni sofferenza e nei fratelli e le sorelle il sostegno che salva dal naufragio.


Noi ti preghiamo