martedì 10 maggio 2011

Scuola del Vangelo 2010/11 - XXII incontro (I del tempo di Pasqua)

Giovanni Paolo II: testimone della forza della Resurrezione





Riprendiamo dopo alcune settimane i nostri incontri di riflessione e confronto con la Scrittura, e lo facciamo in questo “tempo di Pasqua”. Mi sembra molto significativo questo modo di chiamare il tempo in cui ci troviamo. Infatti la Pasqua non è solo un giorno, una ricorrenza che passa, come gli anniversari di eventi storici o i compleanni, ma piuttosto la Pasqua è un evento che inaugura una nuova dimensione della nostra vita, un nuovo tempo caratterizzato da un nuovo modo di essere cristiani, cioè discepoli di Gesù risorto.
Non è la stessa cosa conoscere Gesù fino alla croce e conoscerlo risorto e in mezzo a noi.
Lo dicevamo già domenica scorsa: i Vangeli ci mostrano il grande paradosso dei discepoli che non riconoscono Gesù risorto che torna a visitarli. Eppure non ha cambiato sembianze, è in carne e ossa, come sottolinea Luca nell’episodio dei due discepoli ad Emmaus, “in persona”, e Tommaso incredulo lo tocca. Gesù mangia con loro il pesce pescato sul mare di Galilea. Insomma non è cambiato, e nemmeno loro sono diversi: sono sempre i discepoli di Gesù. Eppure non lo riconoscono, perché non hanno creduto nella sua resurrezione e ormai per loro Gesù è definitivamente legato all’immagine di un corpo morto, sfigurato dal dolore, di uno sconfitto dalla storia e fuori dalla vita. Tant’è che, forse con dolore, ma anche con molto realismo, i discepoli tornano a fare quello che facevano prima, i pescatori in Galilea: “Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla.” (Gv 21,3) Pietro e gli altri, increduli nella resurrezione di Gesù, anche loro sono dei vinti, tornano senza Gesù alla vita di prima, ma senza frutto.
È l’esperienza di ciascuno di noi: senza la fede nel risorto, cioè senza vivere il nostro “tempo di Pasqua” ma il tempo banale e senza resurrezione, siamo dei vinti: vinti dal timore, dalla rassegnazione, da un senso di impossibilità di fronte alle sfide della vita e della storia. Come dice S. Paolo: “Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede.” (1Cor 15,14). Ancora S. Paolo: “egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.” (2Cor 5,15). Cioè si è veramente vivi attraverso, confidando in Cristo risorto per noi, vivendo della sua resurrezione e non di noi stessi, delle nostre convinzioni e abitudini, anche buone che siano.
Ma che significa vivere nel tempo di Pasqua, compagni del risorto e risorti con lui? Come si può vivere la fiducia che non siamo condannati a vivere da vinti e rinunciatari davanti ad una realtà che sembra dura e immutabile?

Il beato Giovanni Paolo II testimone della forza della resurrezione.
Due domeniche fa Giovanni Paolo II è stato proclamato beato, e tutti noi ci siamo commossi davanti allo spettacolo di S. Pietro gremito di folla che si è stretta attorno alla sua memoria. Per quasi 27 anni ci ha accompagnato, fino al suo ultimo respiro, senza rinunciare mai, anche da vecchio e da malato, di dare la sua testimonianza di una fiducia incrollabile nella resurrezione del Signore. Sì, Giovanni Paolo II ha vissuto una fede pasquale, sempre in compagnia del risorto. In questo stia la straordinarietà della vita di questo papa che ha attraversato e segnato così profondamente la storia del secolo scorso e del passaggio al nuovo millennio.
Giovanni Paolo II infatti ha vissuto i momenti più significativi del ‘900, ne ricostruiamo alcuni, seguendo il filo rosso della sua fede.
Da bambino Karol Wojtyła ha ricevuto da suo padre l’eredità della I guerra mondiale, nella quale egli aveva combattuto come soldato dell’Impero Austro Ungarico. Quella prima guerra sanguinosa che Benedetto XV aveva chiamato “inutile strage” (Nota del 1 agosto 1917), la prima nella quale il numero dei morti civili aveva superato quello dei militari morti, rivelando forse in modo ancora più evidente l’assurdità di questo strumento nei rapporti fra Stati.

La guerra e l’occupazione nazista
Ma poi da giovane studente e seminarista aveva conosciuto il nazismo che nel 1939, quando Karol aveva appena 19 anni, si annetté gran parte della Polonia. Negli anni dell’occupazione nazista il giovane Karol seminarista fa esperienza personale del dolore della guerra e della scomparsa improvvisa di tanti suoi amici coetanei: i compagni di scuola ebrei che vengono deportati ed eliminati, alcuni suoi amici e compagni di studio. Dal 1940 al ‘44 lavora in una cava di pietra e poi nella fabbrica chimica Solvay, mentre sperimenta la clandestinità negli studi ecclesiastici, a partire dal 1942, nel seminario segretamente tenuto a Cracovia dal Cardinal Sapieha. Per avere un’idea di come fosse la situazione nella Polonia di quegli anni, nel 1942 il Cardinale di Cracovia così scrive al papa:
La nostra situazione è estremamente tragica. Siamo privati di quasi tutti i diritti umani; siamo esposti alla crudeltà di uomini i quali, per massima parte sono privi di qualsiasi parvenza di sentimenti umani; viviamo nel perpetuo e orribile timore di dover perdere tutto in una fuga, nella deportazione o nell’incarcerazione nei cosiddetti campi di concentramento, dai quali pochi tornano vivi. In questi campi migliaia e migliaia dei nostri uomini migliori vengono detenuti senza processo e senza motivi. Tra questi vi sono molti preti, sia secolari che religiosi. Siamo privati per legge di quasi tutto ciò che è necessario per vivere, perché le razioni autorizzate non sono sufficienti … Ed ora c’è anche il tifo il cui contagio si diffonde sempre più, dato che non vengono date né medicine né altri rimedi, e le autorità si accontentano di vuote promesse di mettere brutalmente in quarantena coloro che ne sono infetti.”
Pensiamo che nei campi di sterminio nazisti morirono circa 1.800.000 polacchi, più tutti gli ebrei dello stesso Paese. Questo è uno squarcio del tipo di vita che si faceva in Polonia e di come la Chiesa avesse a soffrire sotto il giogo nazista. In questo contesto nasce la vocazione sacerdotale di Karol. Come mai? Lo dice il papa stesso.
Del grande e orrendo theatrum della seconda guerra mondiale mi fu risparmiato molto. Ogni giorno avrei potuto essere prelevato dalla casa, dalla cava di pietra, dalla fabbrica per essere portato in campo di concentramento. A volte mi domandavo: tanti miei coetanei perdono la vita, perché non io? Oggi so che non fu un caso. Nel contesto del grande male della guerra, nella mia vita personale tutto volgeva in direzione del bene costituito dalla vocazione.”
Il giovane Karol avverte un senso del debito che ha per essere stato preservato dall’essere inghiottito dal mostro della guerra e del nazismo, e anche per questo matura il desiderio di rimborsare questo debito col dono della sua vita nella vocazione sacerdotale, vissuta pertanto sotto il segno del dono totale di sé agli altri. È una visione pasquale della vita: sacrificio di sé, per salvare gli altri e non se stesso, in cambio della vita ricevuto in dono.

La Polonia sotto il comunismo
Terminata la guerra Karol fa esperienza di un altro regime, altrettanto totalitario e persecutorio nei confronti della Chiesa: il comunismo. Per trent’anni (dieci come prete e venti come vescovo) Wojtyła vive sotto un regime particolarmente duro che cerca di asfissiare la vita dei cristiani togliendo loro l’ossigeno della libertà. Il primo incarico del giovane prete è come vice parroco in un villaggio di campagna, che così egli descrive:
Hai addosso la tonaca, il mantello, il camice e il berretto, e con tutto questo devi aprirti un cammino nella neve, la neve si attacca al fondo della tonaca,… Poi uscendo il tessuto bagnato ghiaccia e, attorno alle gambe, si forma una specie di campana rigida, che pesa sempre più e ti impedisce di camminare. La sera trascini i piedi, ma bisogna proseguire, perché la gente attende tutto l’anno l’incontro con te.”
Il primo impatto col comunismo è duro. Dice il futuro papa: “Per me, allora, fu subito chiaro che il loro dominio sarebbe durato per lungo tempo, molto più lungo di quello nazista.” Karol Wojtyła sente che in una situazione in cui il campo per l’azione pubblica era ridotto al minimo per la Chiesa, la vera sfida per i cristiani polacchi era quella di tenere aperto, in una situazione di mancanza di libertà politica e sociale, lo spazio della libertà interiore, approfondendo le radici della propria fede. Per fare questo Wojtyła sceglie la via di un incontro personale significativo e paterno. Dapprima si impegna nella pastorale giovanile, con gli universitari e gli altri giovani di Cracovia, poi come vescovo ausiliare della stessa città.
Da vescovo ad esempio rinnova la pratica della visita pastorale nelle parrocchie, come racconta lui stesso:
Avevo elaborato un mio modello di attuazione di quell’adempimento pastorale. Esisteva infatti un modello tradizionale … Non mi soddisfaceva l’impostazione piuttosto giuridica della visita e volevo introdurvi più contenuto pastorale.”
Così si svolgevano le sue visite pastorali: dopo il benvenuto il vescovo si reca in chiesa e prende contatto con la gente. Il giorno dopo si mette nel confessionale per ricevere le confessioni e poi celebra la messa. Successivamente visita le case dei parrocchiani, specialmente dei malati. Nel marzo 1969 durante la visita nella parrocchia del Corpus Domini di Cracovia si reca in visita in molte case di malati. Dedica ben due giorni a questo impegno, girando casa per casa, anche quelle più povere. La suora che lo accompagna racconta:
Il Cardinale voleva sedersi vicino al letto di ogni malato e parlare con loro con paterna gentilezza... in una casa di un’anziana malata c’erano molti altri membri più giovani della famiglia. Ognuno espose i propri problemi. Dopo una conversazione con l’anziana e con altra gente sofferente sopraggiunta, il cardinale fu invitato a tavola. Non si rifiutò. C’era una sincera atmosfera di famiglia. Ogni persona era importante per lui, per ciascuno aveva una parola gentile e qualche gesto di compassione.”
Poi il vescovo si incontra con le altre categorie di cristiani: i giovani, gli insegnanti, gli operatori parrocchiali, gli sposi, poi incontra separatamente i preti e discute con loro. In questo modo concreto e paziente Wojtyła non si arrende davanti all’impossibilità di fare pastorale sulle piazze o con grandi manifestazioni pubbliche, o con la scuola e dentro l’Università, come tradizionalmente si faceva prima, ma costruisce un forte senso di comunità e di unione fra i cristiani e approfondisce la loro fede nel dialogo personale e nell’incontro in piccoli gruppi.
Ancora una volta Karol Wojtyła dimostra la sua incrollabile fiducia nella forza dell’amore di Cristo, attraverso il servizio paterno ai cristiani, e nella debolezza della situazione bloccata nella morsa del regime comunista, vince il male che vorrebbe spegnere nel suo popolo la luce della fede con la forza della sua fiducia nell’incontro umano, paziente e caldo. È un segno della fiducia nella resurrezione di un popolo dalla schiavitù della dittatura materialista alla libertà dello spirito.

Il papato
Il 16 ottobre 1978 Karol Wojtyła è eletto papa. Nei 27 anni successivi l’orizzonte di Giovanni Paolo II si allarga a dismisura, fino ad abbracciare il mondo intero, ma resta uguale l’approccio, se vogliamo ingenuo, di una fiducia infinita nella forza del Risorto nel vincere ogni forma di male.
Lo grida nella messa di apertura del suo pontificato:
Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà! Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera! Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa! Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna.”
Giovanni Paolo usa l’immagine post-pasquale dei discepoli chiusi per paura dei Giudei e invita il mondo cristiano, forse troppo spaventato e timido, a non tenere chiuso fuori il risorto. È il programma di tutto il suo pontificato. Non accetta logiche di politica prudente nel confronto con il mondo della politica, della cultura e delle società. Giovanni Paolo II non pensa di dover limitare il proprio campo di azione al mero ambito “religioso” ma coglie la necessità di affrontare a testa alta le sfide delle società del Nord ricco, in fase di progressiva secolarizzazione, e di un Sud alla deriva, in preda a enormi problemi di miseria e ingiustizia.
Con questo spirito affronta i temi politici ed economici, rifiutando sia l’ideologia comunista che il capitalismo selvaggio, proclamando che economia e politica devono essere al servizio dell’uomo e del suo sviluppo e non renderlo schiavo.
Continua la sua azione pastorale incontrando folle di persone nei suoi innumerevoli viaggi per il mondo (oltre 140) e si può dire che tutti i cristiani hanno di lui un ricordo personale, per averlo visto, ascoltato, pregato con lui almeno una volta nella loro vita.
Compie le visite pastorali nelle parrocchie romane, da buon vescovo della città. Non si nega a nessuno che desidera incontrarlo.
Sviluppa un rapporto di simpatia con il popolo italiano, a cominciare dall’anziano Presidente Pertini, con il quale organizza gite semiclandestine sulla neve.
È un papa giovane e forte, ha solo 58 anni! Dopo i tempi della contestazione del ’68, il dilagare della cultura marxista in Europa, la caduta verticale del numero dei preti, dei seminaristi e dei religiosi cattolici nel mondo, il nuovo papa propone una fede popolare, semplice ma salda, fatta di preghiera, devozione mariana, amore per i santi (che proclama in numero straordinario), rosario, pellegrinaggi, santuari, ma paradossalmente, è anche il papa che dà grande valore alla memoria dei nuovi martiri, che ama Mons. Romero con venerazione filiale, che richiama alla necessità di applicare il Concilio Vaticano II, di cui è stato un giovane protagonista, ridà ossigeno all’ecumenismo e al dialogo interreligioso, è il primo papa che entra in moschea, che incontra gli ebrei nella sinagoga, a Roma, dà fiducia ai giovani senza giudicarli; in un tempo di realismo cinico in cui riprende vigore l’idea della guerra come inevitabile strumento nei rapporti fra Stati (vedi la dottrina Bush della “guerra preventiva”) si fa paladino della pace a ogni costo e in questo suo atteggiamento è visto con ammirazione da tutto il popolo pacifista (che in maggioranza era di ispirazione di sinistra e marxista). Sempre dimostra una grande speranza nel futuro che appare incerto.
Con la sua azione pastorale il papa con la sua incrollabile fiducia nella forza del Vangelo della resurrezione scardina i vecchi schemi con cui si giudica (anche nella Chiesa) chi è di destra o di sinistra, conservatore o progressista: è un uomo di fede e di preghiera, e ciò basta.
Per questo Giovanni Paolo II è un papa dalle grandi visioni. In una sua poesia del 1952 aveva scritto: “credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione”: è la vita con le porte chiuse di cui ha parlato fin dall’inizio, esortando tutti ad aprirle. Ad esempio divenuto papa Giovanni Paolo II aveva detto che l’Europa era unita dall’Atlantico agli Urali. Sembrava un visionario fuori della realtà: non teneva conto della situazione della cortina di ferro, della guerra fredda, della divisione netta in due dell’Europa, Est e Ovest. In realtà sì, Giovanni Paolo II era un visionario, ma perché guardava al mondo con la fiducia nella resurrezione dei popoli e della storia. Credeva nella presenza di correnti sotterranee dello Spirito che erano capaci di cambiare la storia. Per questo chi credeva con estremo realismo che tutto dovesse restare così come era, che i blocchi politici, ideologici ed economici in cui il mondo era diviso fossero granitici e ineluttabilmente permanenti si sbagliava rispetto alla previsione visionaria, che si è infine realizzata. La forza della sua fede e del persistenze incoraggiamento rivolto popoli perché difendessero la propria libertà civile e religiosa portò alla caduta del muro di Berlino e alla riunificazione dell’Europa.

La vecchiaia del papa, forza interiore nella debolezza del corpo
Ma forse per quanto sia stato un lavoratore infaticabile nella prima fase più giovanile del suo pontificato, forse quella che ha lasciato l’impronta più forte negli occhi e nei cuori di cristiani e non cristiani nel mondo intero è stata la sua vecchiaia, fino alla morte. Una vecchiaia non nascosta, non temuta ma vissuta, ancora una volta, con una forza interiore straordinaria. Mai un papa aveva continuato a parlare, incontrare e comunicare con così tanta forza anche quando non poteva più muoversi e parlare.
L’esibizione del suo corpo malato diede fastidio a molti. Rappresentanti della cultura laica, ma anche molti cristiani vedevano in questa ostinazione a non volersi fare da parte una specie di fissazione senile che andava contro la decenza e il buon senso: ad una certa età, quando si è deboli e malati bisogna farsi da parte e rinunciare ai propri impegni. Si discusse a lungo sulla possibilità che un papa fisicamente impedito a governare si dovesse dimettere, come si fa in tutti i campi delle attività umane. Il realtà il papa dimostrò con la sua forza spirituale che né la malattia, né la vecchiaia, né i limiti fisici sono un ostacolo alla predicazione del Vangelo che, proprio perché vissuto fra sofferenze e fatiche indicibili, è reso ancora più credibile e convincente. Dimostrò che mai la vita è da buttare via o inutile, anche quando è ridotta ad un flebile respiro. Un padre non va in pensione e non smette di esserlo perché vecchio e malato. La gente ha capito benissimo questo messaggio profondo. Lo dimostra l’affetto delle folle per quel vecchio, la forza attrattiva sulle masse di giovani alle GMG, la tenerezza suscitata in tanti, anche non cristiani, che lo consideravano un patriarca di tutti i credenti nel bene, nella pace e nell’amore. Forse non era mai avvenuto che un’intera generazione di giovani cristiani sia cresciuta e si sia rafforzata alla scuola di un vecchio inerme ma forte nello spirito, come si è verificato con Giovanni Paolo II.
Benedetto XVI nell’omelia della liturgia per la sua beatificazione ha detto:
E poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una “roccia”, come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno. Così egli ha realizzato in modo straordinario la vocazione di ogni sacerdote e vescovo: diventare un tutt’uno con quel Gesù, che quotidianamente riceve e offre nella Chiesa.
Al momento del suo inizio di pontificato il Primate della Polonia, il Cardinale Stefan Wyszyński, gli disse: “Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio”. Sembrava una previsione avventata e irrealistica: mancavano ancora 22 anni!
Invece Giovanni Paolo II si assunse questo compito con una straordinaria serietà, attraversando la porta del millennio che si apriva a mani nude, senza segni di potere o di forza mondana, con il solo Vangelo in mano. Scrisse in quell’occasione: “il programma c'è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in Lui la vita trinitaria, e trasformare in Lui la storia fino al suo compimento... È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e delle culture tiene conto per un dialogo vero ed una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio" (Enciclica Novo Millennio Ineunte, 29).
Un altro aspetto della sua vita che ha fatto emergere con evidenza la sua fede pasquale è stata la forza della sua preghiera. Giovanni Paolo II è stato da tutti riconosciuto come un mistico, cioè un uomo capace di un rapporto intimo e personale con Dio attraverso la preghiera. Da giovane, uomo pratico, energico e forte, si è affidato innanzitutto alla debolezza della preghiera; da anziano, debole e malato, si è identificato nella preghiera col Cristo della passione imitandolo nel dare tutto se stesso per gli altri. Basti pensare all’immagine indimenticabile della sua partecipazione dalla cappella privata in Vaticano all’ultima via crucis del venerdì santo, alla quale finché ha potuto non aveva mai mancato di prendere parte al Colosseo. Il suo corpo sembrava sopportare lo stesso peso della passione di Cristo che veniva rievocata. Nella debolezza fisica risaltava ancora più forte la sua forza spirituale.
Un altro esempio della forza della sua preghiera e dell’identificazione con Cristo ci giunge da una testimonianza di un suo stretto collaboratore sul suo ultimo viaggio in Terra Santa:
Volle sfidare la sua stessa infermità pur di pregare sul Golgota. In occasione del grande Giubileo del 2000, ci chiese infatti di tornare in Terra Santa. Era in condizioni di salute piuttosto critiche e aveva grandi problemi di mobilità, quindi dovemmo tenere in considerazione il suo stato fisico nella preparazione del viaggio. D’accordo con don Stanislao, quando si pensò di fare la visita al Santo Sepolcro, escludemmo che potesse salire sino al Golgota poiché la scala di accesso è talmente stretta e ripida da non consentire l’aiuto a una persona che abbia delle difficoltà. Nelle condizioni del Papa dunque era impossibile. La visita si sviluppò lungo nove densissime e faticose giornate. Al momento di … partire per Roma, mi accorsi che, nonostante la testa del corteo si fosse mossa, la macchina che aveva a bordo Giovanni Paolo II era ferma. Don Stanislao mi chiamò per dirmi che il Papa chiedeva di poter tornare al Santo Sepolcro e di andare a pregare sul Golgota. Per le rigidissime forze di sicurezza israeliane non c’erano dubbi: era impossibile e da escludere assolutamente perché tutte le misure di protezione erano state rimosse, i negozi della città vecchia erano riaperti e i pellegrini avevano già invaso quella parte della città. Dunque non c’erano assolutamente le condizioni per realizzare quel desiderio. Lo spiegai a don Stanislao e al Pontefice. A quel punto Papa Wojtyła prese il braccio del segretario e disse: «Se non vado a pregare sul Golgota, non posso partire da Gerusalemme». Dal suo sguardo capii che non c’erano alternative … Lo feci presente alle autorità competenti. Dovevano scegliere: o avere il Papa fermo in mezzo alla strada per chissà quanto tempo o puntare sulla sorpresa e portarlo al Golgota. Con grande difficoltà raggiungemmo il Santo Sepolcro. Lì ho vissuto un momento che mai dimenticherò. Il Papa non camminava quasi più, si teneva a malapena in piedi e non riusciva a procedere da solo. Lì davanti a quella scala, però, raccolse tutte le sue poche forze residue e si aggrappò ai corrimano. Cominciò a salire lentamente. Lo precedevo camminando all’indietro per controllarlo. ... Ho visto il volto di Giovanni Paolo II trasfigurarsi per la sofferenza a mano a mano che saliva. Non ebbi la percezione del tempo che impiegammo a salire quei venticinque gradini. Mi sembrò un’eternità. In cima non c’era neanche un inginocchiatoio. Appena giunto crollò in ginocchio sul lastricato per la stanchezza. Era ai piedi dell’altare di marmo del Golgota. Rimase in quella posizione a lungo, assorto nella preghiera. Non dimenticherò mai quell’immagine mai. Anzi, ogni volta che arriva il periodo di Pasqua e penso alla Passione di Cristo, rivedo il volto di Wojtyła mentre sale le scale del Golgota. È stato impressionante. Dopo aver pregato disse: «Adesso possiamo andare».”
Un ultimo esempio di questa forza del vecchio papa ci viene dal discorso che Wojtyła rivolse al corpo diplomatico il 13 gennaio 2003, all’età di ben 83 anni, Quando disse:
Sono impressionato dal sentimento di paura che dimora sovente nel cuore dei nostri contemporanei. Il terrorismo subdolo che può colpire in qualsiasi istante e ovunque; il problema non risolto del Medio Oriente, con la Terra Santa e l’Iraq; gli scossoni che scompigliano il Sud America, particolarmente l’Argentina, la Colombia e il Venezuela; i conflitti che impediscono a numerosi Paesi africani di dedicarsi al proprio sviluppo; le malattie che propagano il contagio e la morte; il problema grave della fame, in modo speciale in Africa; i comportamenti irresponsabili che contribuiscono all’impoverimento delle risorse del pianeta: ecco altrettanti flagelli che minacciano la sopravvivenza dell’umanità, la serenità delle persone e la sicurezza delle società. Ma tutto può cambiare. Dipende da ciascuno di noi. Ognuno può sviluppare in se stesso il proprio potenziale di fede, di probità, di rispetto altrui, di dedizione al servizio degli altri.”
Un papa vecchio e amareggiato dalla brutta piega che prende la situazione storica mondiale non è vinto da un senso di fallimento o di ineluttabilità, non si accontenta del molto che ha già fatto, ma ripropone, ancora una volta, il messaggio pasquale di un cambiamento sempre possibile, se si fa entrare il risorto nella propria vita, come aveva detto all’inizio del suo pontificato.



Davanti alla beatificazione di Giovanni Paolo II, avvenuta in tempo di Pasqua, anche noi oggi siamo interrogati dalla testimonianza della sua fede pasquale nella forza invincibile del risorto.
È la forza di un amore che non si arrende davanti a nessun ostacolo, tenace ma sempre benevolo; pieno di energia ma debole come è la preghiera; tenero con tutti e inflessibile con se stesso; capace di cambiare la storia del mondo attorno a sé cominciando dalla trasformazione del proprio cuore; curioso degli altri e attento a tutti meno che alle proprie paure e resistenze a lasciarsi andare; amante della pace perché sicuro della pace donata dal risorto ai discepoli nel cenacolo; forte dello Spirito invocato e accolto.
La Pasqua prima della sua morte Giovanni Paolo II ha detto:
A noi il Signore chiede di rinnovargli l'espressione della nostra piena docilità e della totale dedizione al servizio del suo Vangelo. Carissimi Fratelli e Sorelle! Se talora questa missione può apparirvi difficile, richiamate alla mente le parole del Risorto: "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Certi della sua presenza, non temerete allora nessuna difficoltà e nessun ostacolo.”
Oggi facciamo nostra questa invocazione, di incontrare il Risorto e riconoscerlo vivo accanto a noi a incoraggiare la timidezza del nostro amore, a darci la fiducia necessaria per riuscire a passare dalla cruna di un ago, a spostare le montagne e a voler bene come seppe fare Giovanni Paolo II.

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