mercoledì 8 giugno 2011

Scuola del Vangelo 2010/11 - XXV incontro (IV del tempo di Pasqua) : Gesù e i suoi familiari


Riprendiamo oggi il discorso sul rapporto di Gesù con i suoi familiari, sulla base di quello che abbiamo detto l’altra volta sull’idea di “mondo” che emerge dai Vangeli e da come Gesù vi si rapporta. Esso è infatti, dicevamo, una realtà complessa e multiforme, che abbraccia tutte le espressioni della vita umana e gli ambiti in cui essa si svolge, una di esse è, appunto, la famiglia. Non si può pertanto assumere un atteggiamento di esaltazione o condanna assoluta, come vorrebbe una certa tendenza, anche cristiana, fondamentalista e semplificata, ma il “mondo” va capito, amato e trasformato alla luce degl’insegnamenti evangelici.



La famiglia: fra natura e cultura
La famiglia è dunque innanzitutto una realtà naturale, cioè l’ambito di coloro che sono legati da un vincolo di sangue: padri, madri, figli, nipoti, fratelli, ecc… In questo significato “neutro” la famiglia è priva di accezioni negative o positive: è il portato del fatto naturale della creazione dell’uomo maschio e femmina e della generazione dei figli.
Ma sopra questa base naturale l’uomo ha costruito tutta una serie di convinzioni che, nel corso dei secoli, hanno risentito dei diversi contesti storici e geografici in cui si sono sviluppate, portando ad esiti differenti, a volte opposti. Ad esempio in mondi diversi si sono sviluppati il modello patriarcale o quello matriarcale; la monogamia o la poligamia, presente anche nel popolo d’Israele dell’Antico Testamento; tutto un sistema di leggi e valori, tradizioni e norme. Pensiamo alle leggi della vendetta trasversale (ancora in vigore in alcune regioni non sviluppate del Mediterraneo, come il Sud Italia o i monti dell’Albania) che prevedono che in seguito al ferimento o all’uccisione di una persona, scatti automaticamente da parte del parente più stretto della vittima il diritto-dovere di colpire con la stessa pena il parente più stretto del responsabile del fatto di sangue, anche se questi non ha nulla a che vedere con i motivi o la realizzazione dell’offesa. L’appartenenza ad un gruppo familiare rende automaticamente responsabili e potenziale oggetto legittimo della vendetta. L’idea di famiglia si è pertanto sviluppata assumendo dei significati che non gli sono propri: pensiamo ad esempio al fatto che le cosche mafiose si chiamano “famiglie”, anche se non sono composte solamente da membri di un nucleo familiare, ma anche di “affiliati”, esprimendo una certa idea di famiglia, come cioè società chiusa e omertosamente solidale all’interno, in contrapposizione ostile al mondo esterno. E così via.
Per arrivare al nostro tempo e al nostro contesto, la famiglia negli ultimi decenni ha conosciuto il processo disgregativo di cui abbiamo parlato altre volte, legato all’imporsi nelle società occidentali di un modello culturale individualista, caratterizzato da legami umani deboli, con una esagerata centralità dell’”io”, e conseguente utilitarismo nei rapporti, come anche il papa Benedetto XVI ha ricordato domenica scorsa 5 giugno a Zagabria. In seguito all’affermarsi di questa cultura si è verificato un processo contraddittorio: da un lato si è meno disposti a sottrarre risorse (tempo, fatica, denaro, preoccupazioni, ecc…) alla cura di se stesso per dedicarle all’altro (amici, colleghi, ma anche figli, genitori, parenti) e, di conseguenza, ci si ritrova più soli e infelici. Ma questa solitudine, paradossalmente, spinge l’uomo moderno a riversare proprio sulla famiglia un’aspettativa affettiva assai superiore all’investimento che si è disposti a fare in essa, causando squilibri e conflitti, sfocianti spesso nel fallimento e in un senso di delusione.
Infatti la famiglia è considerata l’ambito “naturale” dell’affettività, dove siamo “in diritto” di essere amati e dove è più facile volersi bene, perché ritenuto fatto spontaneo e quasi istintivo (si parla ad esempio di istinto materno come una forma di amore). Conseguenza di questa idea è che la famiglia, in quanto ambito circoscritto di coloro che hanno vincoli di sangue, goda di una sorta di priorità naturale nelle preoccupazioni dell’uomo e concentri in sé tutte le persone nei confronti delle quali ciascun individuo è tenuto a osservare certi obblighi di solidarietà e amore. Quest’ultima idea, già smentita dalla realtà, se pensiamo agli anziani e a tutti i membri problematici della famiglia che, inspiegabilmente, sono esclusi da questa sorta di garanzia naturale e vengono espulsi come se non fossero a pieno titolo membri della stessa, viene anche pesantemente messa in discussione, come vedremo in seguito, dall’insegnamento e dalla prassi di Gesù.
A questo si accompagna poi una convinzione fortemente radicata nel nostro contesto di cultura egocentrica, e cioè che per essere felici bisogna essere amati. La famiglia diventa pertanto il luogo naturale da cui ci si aspetta che provenga la propria realizzazione, cioè in cui si possa essere certi di ricevere amore, attenzioni, avere cioè un ruolo protagonista. In realtà è vero il contrario: la gioia vera è avere qualcuno che si ama. Chi non ama (e non chi non è amato) è triste e infelice. Gesù è il prototipo dell’uomo felice, incarnazione delle beatitudini evangeliche: lui fu poco amato, ma ha amato molto. Da tutto questo consegue che in genere si pensa alla famiglia come l’ambito in cui “naturalmente” si riceve il massimo dell’amore, e di conseguenza in cui si può essere felici.
Quando dico “scarso investimento affettivo”, si badi bene, non intendo poco tempo speso o poco affanno riversato, ma significa che il nostro intervento è indirizzato a ottenere la massima soddisfazione per sé con il minimo impegno per il bene dell’altro. L’amore vero infatti non è spontaneo o istintivo, ma è frutto di attenta ricerca, riflessione, fatica, tentativi e correzioni, richiede innanzitutto il cambiamento di sé. Ad esempio, voler creare e mantenere, a volte fino all’assurdo, la dipendenza dell’altro da me, così sarà sempre costretto a dimostrarmi affetto, oppure sviluppando un senso quasi ossessivo di protezione per quelli dai quali posso aspettarmi qualcosa in futuro (i bambini) e invece abbandonando a se stessi quelli che non mi potranno ormai dare più molto (gli anziani).
Questi atteggiamenti “culturali” ci vengono trasmessi dalla società, dai mass media, dal sapere comune, ecc…, ma spesso si rivelano delle vere e proprie trappole che imprigionano l’uomo in destini perversi di infelicità. Pensiamo, ad esempio, le crisi per i figli che crescono e “pretendono” di avere una loro autonomia decisionale, fatto naturale e anzi da favorire, ma che spesso è avvertita dal genitore come un fallimento e dimostrazione d’ingratitudine da parte del figlio. Oppure l’incapacità ad assumersi la responsabilità di un ruolo paterno o materno, con tutto quello che ne consegue anche in possibilità di errore e fallimento, preferendo un rapporto “alla pari” in cui è il figlio che decide, o sceglie per il proprio bene, cosa che sembra porre il genitore al riparo dalla possibilità di errore o dalla necessità di imporre qualcosa di non gradito al figlio. È il caso, ad esempio, del dilagante fenomeno dei genitori che non battezzano i propri figli alla nascita, lasciando ad essi la possibilità che da grandi scelgano se farlo o meno. È evidente che i primi a non essere in grado di fare una scelta e di assumersene la responsabilità in questo caso sono i genitori stessi, per una cosa di cui evidentemente non avvertono l’importanza. Anche perché se così fosse dovrebbero lasciare ai propri figli anche la libertà di andare a scuola o meno, di assumere farmaci in caso di malattia o meno, di imparare a parlare o di esprimersi a grugniti, di andare al bagno o di fare i propri bisogni dove gli capita, ecc…
Insomma la famiglia è oggi un ambito nel quale si rivela in modo evidente la crisi dell’uomo e della donna moderni. La scelta sempre più frequente di preferire legami di tipo debole, come la convivenza, o basati sull’esasperazione di alcuni aspetti della vita di coppia, quali il sesso o la passione istintiva, come nelle unioni omosessuali e non solo, rivela l’immaturità affettiva di chi la compie e l’indisponibilità a costruire legami solidi che si fondino non solo ed esclusivamente sulla ricerca della propria soddisfazione immediata e dunque transitoria.
Come uscire da questo stallo? Innanzitutto c’è bisogno sempre più di distinguere bene fra ciò che vi è di naturale e di culturale. Spesso infatti si contrabbandano abitudini o idee che provengono dalla cultura dominante nel mondo come qualcosa di ìnsito nella natura e (altra idea falsa) per questo di per sé buona. In realtà ciò che di buono può esserci viene solo se lo costruiamo attraverso un paziente lavoro basato sull’ascolto del vangelo.
Si sente fare a volte un richiamo nostalgico ai tempi antichi. Di sicuro la situazione era molto diversa, ma siamo sicuri che fosse migliore di oggi? Pensiamo alla condizione della donna nella famiglia, schiava e sottomessa, ai matrimoni d’interesse e combinati, al costume della dote necessaria ad un matrimonio dignitoso, l’onta dell’essere figli illegittimi, o “di N.N”, ecc… Non mi sembra insomma di poter dire che un ritorno al passato sarebbe un reale miglioramento della situazione attuale della famiglia.
La soluzione migliore è interrogare il Vangelo per capire come Gesù pensa e vuole la famiglia e come vivere, di conseguenza, il rapporto con i propri familiari.





Fra natura e cultura, la terza possibilità: conversione al regno di Dio
Gesù non fa una trattazione sistematica di questo tema, come d’altronde per molti altri, ma getta delle basi su cui noi possiamo costruire le nostre esperienze confidando su un fondamento solido. Ne vorrei evidenziare tre principali.
Il primo concetto base che emerge dalla lettura del Vangelo è che accanto alla famiglia di sangue, cioè naturale, esiste anche un’altra famiglia, quella dei figli di Dio:
“A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.” (Gv 1,12-13).
Esiste una famiglia di coloro che accolgono il Signore e così facendo diventano fratelli e sorelle fra loro, perché tutti figli di Dio. Questa parentela non deriva dal vincolo di sangue, ma è frutto della benevolenza di Dio che la concede. S. Paolo chiama questa possibilità di divenire figli di Dio una vera e propria “adozione”, cioè un’iniziativa di un padre che assume come figli quelli che per natura non lo sarebbero. Da parte dell’adottato è chiesto di riconoscere il proprio nuovo Padre, facendone la volontà e assumendone il modo di fare, diverso da quello del mondo degli idoli:
“Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.” (Gal 4, 4-7)
La seconda idea è che nella famiglia di Dio figli si diventa e non si nasce. Questa è una grande differenza dalla famiglia di sangue. La famiglia di Dio è frutto della scelta di chi ne vuole fare parte, è infatti aperta a tutti quelli che dimostrano la disponibilità a cambiare vita secondo l’insegnamento del Vangelo. Non ha confini di tipo genetico, etnico o geografico, è proposta a tutti indistintamente: “Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.” (Gal 3,26-29). Per questo è una famiglia da costruire, vivendo come vuole Dio, operando la conversione del mio cuore verso di lui e verso i fratelli che ci ritroviamo donati. Infatti l’amore che lega i familiari secondo Dio non è un legame naturale o istintivo, etnico o di affinità sociale e culturale, ma qualcosa di nuovo che va appreso dal Vangelo e costruito pazientemente.
Il terzo concetto è che la famiglia di Dio resta per sempre, quella dell’uomo passa, e per questo la prima ha un’importanza e un valore di gran lunga superiore. La transitorietà della seconda non solo è dovuta alla natura mortale dell’uomo, ma perché il suo fondamento non è duraturo: è la natura e la cultura, tutte e due cose che passano. È quello che ci insegnano i brani del Vangelo che ci sconcertano, proprio perché negano un’idea “naturale” della famiglia e dei rapporti al loro interno, per restituircene invece una nuova, basata su un fondamento totalmente diverso:
“Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero le sue parole.” (Lc 2,48-49)
Sulla famiglia di sangue e sui doveri che ci legano ad essa prevale il dovere di “occuparsi delle cose del Padre”. Se c’è conflitto, la priorità è fuori discussione, va a Dio. È qualcosa d’innaturale, apparentemente, tanto che con la logica del mondo non la si capisce.
“«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre».” (Mc 3,33-35)
Gesù afferma non solo che i veri familiari sono coloro che diventano figli di Dio compiendo la sua volontà, ma anche che hanno la prevalenza sui membri della famiglia di carne. Vediamo la situazione in cui si collocano queste parole di Gesù, così sconvolgenti a prima vista (Gesù rifiuta addirittura di vedere sua madre e i suoi fratelli ! ): il vangelo ci dice che i parenti arrivano da fuori e lo chiamano. Essi pertanto non si erano fatti ascoltatori e discepoli di Gesù, se ne stavano per i fatti loro a fare la loro vita, ma poi, ad un certo punto, arrivano da lui e pretendono di esercitare il loro “diritto parentale” e di incontrare Gesù quando serve a loro. A questa mancanza di discepolanza e pretesa superiorità egli contrappone il vincolo parentale che si sostanzia nel “fare la volontà di Dio”. In quella situazione fare la volontà di Dio consisteva nello state accanto a lui ad ascoltarlo, lo dice Gesù indicando la gente che lo circonda, cosa che i parenti di sangue si guardavano bene dal fare! I parenti di sangue non sono esclusi dalla famiglia di Dio, sono loro che con il loro atteggiamento di estraneità e superiorità se ne allontanano. Potremmo parafrasare le parole di Gesù con le seguenti espressioni: “Se vorreste essere veramente i miei fratelli e genitori stareste qui ad ascoltarmi, invece ritenete che siano sufficienti i vincoli di sangue ad assicurarvi il diritto di dirvi tali.”
Per analogia possiamo ricordare le parole di Gesù circa l’essere discendenza di Abramo secondo la carne, come rivendicano con orgoglio i giudei, o piuttosto secondo lo spirito, cioè facendosene discepoli. È chiarissimo che per Gesù la vera figliolanza in Abramo risiede non nel vincolo di sangue o etnico (esclusivismo), ma nell’adesione alla fede di Abramo in Dio (universalismo):
“Gli risposero: "Il padre nostro è Abramo". Disse loro Gesù: "Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo.” (Gv 8,39, vedi tutto il capitolo)
Questa duplice possibilità di ruolo familiare lo si evince anche dal brano delle nozze di Cana. Anche qui troviamo una risposta piuttosto seccata di Gesù alla madre:
“E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora».” (Gv 2,4)
In questo caso si evidenziano due fatti: il primo è che i tempi di Dio prevalgono sui tempi della famiglia e dei suoi doveri sociali. Secondo, che desiderare il bene degli altri (gli sposi e gli invitati di Cana) pone Maria al di là del suo ruolo di madre di sangue, per farne un membro della famiglia di Dio, e pertanto la sua insistente richiesta, dopo un primo diniego, è ascoltata da Gesù. Non per una presunta “tenerezza filiale” (vincolo di sangue), ma per il bene di quella comunità (gratuità dell’amore).
Gesù non solo parla della famiglia di Dio, ma vive lui stesso in una nuova famiglia fondata non sul sangue ma sul volere di Dio: il gruppo dei discepoli. Questi se ne sono accorti, ma allo stesso tempo restano ancorati a vecchie concezioni:
“Pietro allora disse: «Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito». Ed egli rispose: «In verità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà».” (Lc 18,28-30)
A questo punto è necessario sottolineare che Gesù non rifiuta la famiglia tradizionale per imporre un altro modello più “moderno”, ma vuole affermare la priorità di Dio su tutte le istituzioni sociali e culturali umane: davanti all’alternativa, la famiglia va indubbiamente lasciata in secondo piano rispetto al Regno di Dio. La famiglia non di sangue infatti è quel “molto di più” che si ottiene vivendo la dimensione sovvertita del Regno, come dicevamo l’altra volta, è qualcosa che riguarda l’eternità e ci immette in essa, attesta Luca.
Da questi pochi, semplici, ma solidi elementi tratti dal Vangelo, risulta chiaro come la famiglia sia un ambito dei tanti in cui viviamo (un pezzo di mondo) e in cui siamo chiamati dal Signore ad operare la trasformazione della nostra vita e di quella degli altri, vivendo secondo il volere di Dio, la sua legge e le sue logiche, trasformandola in uno squarcio di Regno.
Per tornare allora al concetto espresso prima, la famiglia non è il luogo in cui si è naturalmente amati e in cui si è spontaneamente portati ad amare, ma è uno dei tanti ambiti nei quali siamo chiamati a imparare a voler bene agli altri come Gesù insegna e a farli diventare nostri familiari, cioè veri fratelli, e non solo fratelli di sangue, vere sorelle, e non solo sorelle di sangue, veri padri, vere madri, veri figli, e questo avviene fondando la nostra vita nel fare la volontà di Dio e nel proporre loro di fare altrettanto.





La libertà di farsi adottare
Già in un incontro precedente dicevamo che Gesù usa il termine “fratello” solo per due categorie di uomini e donne: i discepoli, cioè quelli che fanno la volontà del Padre, come abbiamo visto nel brano di prima, e i poveri:
“In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.” (Mt 25,40)
Entrare a far parte e costruire la famiglia di Dio allora ci dà una libertà enorme, poiché ci libera dalla grande paura del fallimento familiare. Nonostante i nostri sforzi e tutta la buona volontà che ci mettiamo, infatti, questo resta comunque un possibile esito. Pensiamo, per fare un esempio, l’evoluzione del rapporto di S. Francesco con la sua famiglia man mano che la sua conversione di evolve verso una scelta di adesione radicale al Vangelo. La convivenza coi genitori diventa via via sempre più impossibile e conflittuale. È un tipico fallimento familiare a cui fa seguito l’abbandono reciproco. Ma, nonostante questo rischio, non siamo condannati all’infelicità qualora le cose non vadano bene e i nostri familiari non accettino una prospettiva evangelica. Non c’è fallimento o delusione familiare, per quanto dolorosi essi possano umanamente essere, che ci condanni ad essere infelici, perché abbiamo una schiera infinita di persone a cui possiamo voler bene: innanzitutto i poveri, e i fratelli e le sorelle a cui proporre di diventare assieme famiglia di Dio, vivendo, secondo la sua volontà, un vincolo parentale ancora più stretto (e gratificante) di quello di sangue. Come già abbiamo detto negli incontri in cui abbiamo analizzato il rapporto di Gesù con i poveri, questi infatti sono una grande schiera di persone che non aspettano altro che adottarci come padri, madri, fratelli e figli, ce lo dimostrano con la loro insistenza, la domanda affettiva di prenderci cura di loro che rivolgono a volte in modo spudorato e immediato. Essere adottato da un povero come figlio (pensiamo agli anziani in istituto che non aspettano altro che un figlio da aspettare e da cui farsi accudire) o come padre (pensiamo ai tanti bambini o ragazzi trascurati) o come fratello (pensiamo a chi vive per strada) è facilissimo, basta che diciamo di sì alla loro domanda. In qualche modo possiamo dire che i poveri ci aiutano a diventare familiari di Dio facendosi ministri, intermediari, di quell’adozione di Dio che ci fa diventare loro parenti perché suoi figli ed eredi.
In conclusione possiamo dire che la missione di Gesù risulta essere proprio quella di fondare e ampliare al massimo questa famiglia dei figli di Dio, che è la Chiesa, perché abbracci l’umanità intera, ovviamente anche i familiari di sangue, come tutti gli altri, a patto che accettino la “nuova legge”. È quello che afferma il Vangelo di Giovanni, sottolineando l’inconciliabilità fra la nuova famiglia di Dio e la concezione di famiglia tradizionale, di cui il sommo sacerdote si fa portavoce:
“«Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.” (Gv 11,49-53)

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