“La Chiesa di papa Francesco”
Itinerario di riflessioni, esperienze, preghiera
per una Quaresima nella gioia del Vangelo
La dimensione sociale
dell’evangelizzazione
“Vorrei
condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale
dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa dimensione non viene
debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato
autentico e integrale della missione evangelizzatrice”[1] afferma papa Francesco all’inizio del IV capitolo della
Evangelii Gaudium, dedicato proprio a
questo argomento.
È evidente dunque l’importanza che viene
data a questa dimensione. Essa è in linea con quanto dicevamo nel primo
incontro, ricordando la dimensione “in uscita” della Chiesa secondo Francesco,
cioè una Chiesa che ha il suo punto di interesse e di attenzione primaria al di
fuori di se stessa.
La
dimensione personale della fede
Noi spesso siamo portati a dare rilievo
soprattutto alla dimensione “personale” della fede. Questo aspetto è importante
e risponde ad una esigenza, molto sentita qualche decennio fa, di uscire da un
ritualismo esteriore e senza coinvolgimento personale. La Chiesa del pre-Concilio
infatti proponeva ai fedeli degli schemi e modelli che avevano portato a questa
situazione. Vediamone alcuni aspetti:
1.
La impossibilità,
e quindi la non necessità, di comprendere la liturgia, perché celebrata in
latino.
2.
La sostituzione
di questa con pratiche devozionali ripetitive e meccaniche, come la recita di
giaculatorie, litanie, ecc…; il rosario ad esempio rientra in questo genere.
3.
L’assenza della
Bibbia dall’orizzonte del credente, al quale era vietato leggerla.
4.
Il carattere
individuale dell’itinerario ascetico proposto ai fedeli.
5.
uno schema
“militante”, da esercito: da una parte ci sono i capi che hanno il ruolo di analizzare
la realtà e decidere il da farsi, dall’altra la truppa alla quale è richiesto
solo di obbedire ciecamente, senza porsi domande.
6.
Il forte
moralismo come adesione a modelli precostituiti e scrupolosa osservanza di
norme di comportamento precostituite.
7.
Una fissità
a-storica della fede, concepita come un deposito immutabile e senza evoluzione
storica.
Questi elementi favorivano una
ripetitività esteriore, senza capire e senza sentire la necessità di un
rapporto personale con Dio, diretto e nutrito di Bibbia e liturgia.
A questo stato di cose la Chiesa nel
post-Concilio propose una serie di correzioni:
1.
Innanzitutto la
liturgia in lingua volgare consentiva la partecipazione attiva del popolo, che anzi
gli era richiesta.
2.
La diffusione di
nuove forme di preghiera, meno individuali e ripetitive, comunitarie e nutrite
di letture bibliche, come ad esempio la lectio divina, le ore recitate
comunitariamente, ecc...
3.
L’invito rivolto
a tutti a leggere e studiare la Bibbia, che apriva orizzonti inediti per un
rapporto diretto e personale con Dio che cercava un dialogo con ciascuno.
4.
Il nuovo
protagonismo di tutti i fedeli, chierici e laici, con pari dignità e
responsabilità, anche se con ruoli diversi, nel gestire l’azione pastorale
nelle parrocchie, nei movimenti, e in generale nella Chiesa.
5.
Il nuovo modello
di Chiesa come “popolo di Dio” che
dava un’inedita importanza alle relazioni interpersonali, al senso comunitario,
al camminare insieme e non individualmente.
6.
Lo sviluppo di un
senso forte della coscienza personale che, nutrita del Vangelo, dei sacramenti
e della vita di fede, deve orientare le scelte dei fedeli; questi devono
pertanto maturare una forte autonomia morale difronte alle sfide complesse e
multiformi che di volta in volta gli si presentano.
7.
La
storicizzazione dell’evoluzione delle forme e anche di alcuni contenuti della
fede e del modo di comunicarli.
Si sviluppò pertanto quello che si può
definire un forte “personalismo”, cioè la crescita di un valore ricco e ampio
della persona, del suo protagonismo, del coinvolgimento di tutte le sue facoltà
intellettuali, di fede, morali, culturali, ecc… per lo sviluppo di una partecipazione
sentita e coinvolta alla vita della Chiesa: liturgia, sacramenti, pastorale,
preghiera, ecc… Fu una grande rivoluzione.
Come però in tutti i casi di reazione
culturale e innovamento, essi provocarono a volte uno sbilanciamento eccessivo nella
direzione opposta, sviluppando il personalismo in quello che possiamo chiamare
un eccessivo intimismo di tipo sentimentale e individualistico.
Esso è particolarmente evidente, ad
esempio, nella celebrazione liturgica. Mentre prima i fedeli erano spettatori
passivi, l’evoluzione successiva ha enfatizzato una partecipazione sì più
sentita e coinvolta, ma che a volta da valore solo al proprio sentire e al
ripiegamento su di sé piuttosto che al sintonizzarsi in un’azione comunitaria,
portando alla fine all’isolamento individuale. Per molti infatti conta solo
quello che sento io dentro di me, perdendo così la dimensione di comunità che
celebra assieme, secondo il senso originario della liturgia.
Un altro aspetto è lo sviluppo di una
idea di fede che riguarda e coinvolge solo la sfera dei miei sentimenti
personali, fino a ritenere che la fede sia autentica solo se mi emoziona e
risponde alla ricerca di un appagamento psicologico che dia serenità e calma
interiore, una sorta di “yoga cristiano”.
Lo sviluppo di simili atteggiamenti è
del tutto corrispondente all’ampliarsi dell’individualismo come tratto
culturale dell’uomo moderno, che perde la dimensione sociale, intesa come complesso
di legami forti e durevoli con gli altri che inseriscono l’individuo in un
contesto da cui non può prescindere per definire chi è. Oggi sempre più spesso,
al contrario, l’uomo si presenta come avulso dal contesto, definito solo dalle
proprie caratteristiche personali, esaltate nella loro unicità che isola e
individua; allo stesso modo il credente fatica a trovare una sua collocazione armoniosa
dentro una comunità.
Ecco che dunque, partendo da questo dato
storico, comprendiamo meglio l’importanza del fatto che papa Francesco esprime
la sua preoccupazione per un modo di vivere la propria fede senza una forte
connessione con una comunità di fede e con la realtà sociale che ci circonda:
“Lo
stesso mistero della Trinità ci ricorda che siamo stati creati a immagine della
comunione divina, per cui non possiamo realizzarci né salvarci da soli.[2] … Leggendo le Scritture risulta peraltro
chiaro che la proposta del Vangelo non consiste solo in una relazione personale
con Dio[3].”
La
ricerca del “Regno di Dio”
Per rendere pienamente questa esigenza
papa Francesco usa il tema della “ricerca
del Regno di Dio” per descrivere la
vita del credente.
“«Cercate
anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno
date in aggiunta» (Mt 6,33). … La proposta è il Regno di
Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella
misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno
spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque,
tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze
sociali.”[4]
Questo tema ha molte implicazioni.
Questa dimensione infatti va ben oltre quella personale, anche se la coinvolge
profondamente. Bisogna infatti da un lato essere ciascuno cittadino di quel
Regno, cioè sudditi di una signoria che è quella di Gesù e non del mondo con le
sue leggi e regole, ma questo non basta, bisogna altresì anche operare perché anche la realtà attorno a noi
si adegui a questa signoria:
“Non
si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che
esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la
felicità dei suoi figli anche su questa terra[5] … Una
fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un
profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare
qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra[6].”
Francesco usa un’espressione felice
individuando un tratto distintivo delle comunità cristiane che mostrano la loro
maturità, e cioè la capacità di “generare
storia”:
“La vera speranza cristiana, che cerca il
Regno escatologico, genera sempre storia.”[7]
Comunità cioè di fedeli che non si
accontentano di essere protagonisti di eventi interiori, di movimenti
dell’anima o di crescite personali, ma che aspira a che il proprio agire incida
a livello sociale, della realtà esterna, cioè “generi storia” e che storia personale e storia sociale si mescolino
e abbiano l’una incidenza sull’altra. È segno di fedeltà al principio
dell’incarnazione che chiede di riverificare in ogni esperienza di fede il
tratto di ingresso nella storia, di concreta partecipazione ai suoi processi
per la trasformazione del mondo.
Il papa evidenzia due campi in cui è
necessario sviluppare la ricerca del Regno di Dio: uno è “l’inclusione sociale dei poveri”, l’altro “la pace e il dialogo sociale.”[8]
Del primo aspetto abbiamo già parlato
l’altra volta, vediamo ora il secondo.
Pace
e dialogo
La pace, dice papa Francesco, non è
semplice assenza di conflitto. Infatti questa può verificarsi anche nel caso in
cui i potenti impongono un loro ordine per conservare il proprio privilegio impedendo
ai poveri di cambiarlo. La vera pace è invece frutto della giustizia, cioè si
realizza quando tutti gli uomini in una società possono svilupparsi in modo
armonioso e senza diseguaglianze.
Perché questo si realizzi c’è bisogno
che la società viva la dimensione del popolo:
“diventare
un popolo è qualcosa di più, … . È un lavoro lento e arduo che esige
di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura
dell’incontro in una pluriforme armonia.”
E aggiunge:
“Per
avanzare in questa costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità, vi
sono quattro principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà
sociale.”[9]
Questi quattro principi sono:
“Il tempo è superiore allo spazio; L’unità prevale sul conflitto; La realtà è più importante
dell’idea; Il tutto è superiore
alla parte.”
Il
tempo è superiore allo spazio
Il filosofo ebraico Heschel nell’esporre
il significato del Sabato nella spiritualità ebraica[10] mette bene in luce questo tema, che papa Francesco
riprende. Egli afferma che non è un caso che Dio chieda agli uomini di
dedicargli un tempo, piuttosto che uno spazio. Lo spazio infatti nella
sensibilità e prassi umana suscita un istinto di dominio: lo spazio va
occupato, posseduto, conquistato. Il tempo invece non lo permette, e per questo
è il luogo della presenza di Dio.
Dice papa Francesco:
“Uno
dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste
nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare
priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento
presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di
autoaffermazione. ... Dare priorità al tempo significa occuparsi di
iniziare processi più che di possedere spazi. … privilegiare le azioni che
generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che
le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici.”[11]
Occupare spazi dà risultati immediati e
crea diseguaglianza, invece innescare processi vuol dire portare a cambiamenti
che avranno rilevanza nel futuro e i cui frutti sono duraturi e si vedranno
nella lunghezza dei tempi.
Lo spazio non “genera storia”, il tempo sì, e il cristianesimo è religione della
storia, non del potere su un luogo. Ogni volta che la Chiesa si è illusa di
esercitare la propria influenza “occupando” spazi di potere si è illusa di dominarli,
in realtà ha creato una caricatura di sé. Quando invece si è posta come un
lievito che facesse fermentare la cultura, la mentalità, il modo di agire di un
popolo, nella lunghezza del tempo e con processi che non davano immediati
frutti evidenti, allora sì che è stata feconda:
“La
parabola del grano e della zizzania (cfr Mt 13, 24-30) descrive un
aspetto importante dell’evangelizzazione, che consiste nel mostrare come il
nemico può occupare lo spazio del Regno e causare danno con la zizzania, ma è
vinto dalla bontà del grano che si manifesta con il tempo.”[12]
L’unità
prevale sul conflitto
Questo secondo principio è abbastanza
evidente: bisogna spendere le proprie energie per superare i conflitti. Spesso
essi sono generati dalla diversità, assunta come un elemento di incompatibilità
fra le persone o i gruppi sociali. Lo vediamo nel fenomeno degli stranieri o
delle persone di altra cultura e religione: istintivamente essi sono visti come
antitetici o nemici.
Bisogna superare questo senso
conflittuale della differenza, scoprendo che essa possa essere integrata
nell’unità delle diversità.
La
realtà è più importante dell’idea
Scrive il papa:
“L’idea
staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al
massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la
realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale
all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così come si
sostituisce la ginnastica con la cosmesi.”[13]
Spesso ci si innamora delle idee, perché
chiare e mie, ma si rinuncia a confrontarle con la realtà, da essa bisogna
partire per dare un fondamento al pensare e progettare.
Il
tutto è superiore alla parte
In un’epoca di globalizzazione si corre
il rischio, afferma papa Francesco di cadere in due pericoli opposti. Da un
lato quello di “affogare” nel mare della globalità che tutto racchiude ma fa
perdere identità; dall’altro quello di reagire esaltando il proprio particolare
come se potesse esistere e conservarsi così come è sempre stato, come in un
museo avulso dalla realtà che cambia.
“Bisogna
prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità
quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale,
che ci fa camminare con i piedi per terra.”[14]
“Il tutto è
più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si
dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna
sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà
benefici a tutti noi. ... Allo stesso modo, una persona che conserva la sua
personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra
cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per
il proprio sviluppo.”[15]
Il dialogo
Infine papa Francesco indica il dialogo come lo
strumento privilegiato per portare avanti la costruzione della società. Questa
diviene sempre più complessa: la dimensione scientifica e tecnologico, quella
delle culture diverse, le religioni, gli Stati e gli organismi internazionali.
Sono tutti ambiti nei quali i cristiani non possono restare estranei. Non si
possono ignorare perché ci si sente superiori, come detentori di una verità che
annulla l’altro, né confondersi perdendo la propria identità. Il dialogo è la
via perché la propria identità si rafforza nel confronto con l’altro, il
diverso.
Spesso si ha paura del dialogo, come se esso
manifestasse debolezza. Al contrario esso è la vera forza, perché manifesta che
non si ha paura di mettersi in questione e di rendere ragione del proprio modo
di pensare e di essere. Dal dialogo la nostra identità esce rafforzata e
arricchita. A volte si ha un’idea del possesso della verità come un’esclusiva
cattolica, essa invece è frutto dell’azione dello Spirito, di una relazione
feconda con una persona, Gesù, che la rivela tutta intera, ma in modo personale
e non astratto e dottrinale. La verità va cercata e scoperta nel dialogo che fa
emergere il meglio di ciascuna parte, se sincero e rispettoso della dignità
altrui.
Viviamo la
dimensione di “uscita” e “sociale” del nostro essere cristiani
Quanto abbiamo detto in questi nostri incontri di
Quaresima ci interpellano come singoli e come comunità. Come vivere la
dimensione di “uscita” e “sociale” del proprio essere cristiani?
Il tempo che ci attende deve essere caratterizzato
dall’estroversione perché il messaggio della Pasqua sia un lieto annuncio da comunicare
a tutti.
Cominceremo questa domenica con la distribuzione
delle palme in strada. È un’occasione
significativa per vivere quanto detto sulla Chiesa di papa Francesco.
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