lunedì 3 aprile 2017

II incontro con i genitori dei ragazzi del catechismo - sabato 1 aprile 2017




Incontro di Pasqua con i genitori dei bambini del catechismo

Sabato 1 aprile 2017

Cari amici mi fa molto piacere poter vivere questo momento di incontro con voi e vi ringrazio di avere accolto il nostro invito.
Ci troviamo a vivere nel tempo di Quaresima che è preparazione e attesa della Resurrezione di Gesù, a Pasqua. 
Domenica delle palme, ricorderemo Gesù entrare nella città di Gerusalemme tra due ali di folla esultante;
poi giovedì santo ricorderemo l’ultima cena, quando Gesù lavò i piedi ai discepoli e offri loro il suo corpo e sangue come nutrimento della loro vita. Alla fine della cena Gesù fu arrestato e imprigionato;
venerdì ricorderemo la condanna che Pilato e i sommi sacerdoti pronunciarono sul di lui e la sua crocifissione e sepoltura. Fino a domenica un gran silenzio scenderà sul mondo: Gesù è nella tomba e la sua voce è messa a tacere,
ma a Pasqua risuonerà forte l’annuncio della Resurrezione.
Cari amici oggi vorrei soffermarmi proprio sul contrasto così stridente fra il rumore del tumulto della folla che circonda le vicende di Gesù dall’ingresso trionfale a Gerusalemme fino alla condanna e morte, e la pace del cenacolo il giovedì santo, perché mi sembra che oggi viviamo una condizione simile.
Anche oggi infatti siamo sopraffatti da un grande trambusto di voci che urlano. 
Urlano le notizie dei telegiornali, con tutta la forza del sensazionale che viene cercato a tutti i costi. 
Urla la pubblicità, sempre più accattivante e invadente. 
Urla la politica che vuole persuaderci non tanto con il ragionamento pacato e convincente ma, appunto, con l’urlo che colpisce ed emoziona, facendo leva sulle paure e la “pancia” delle persone. 
Urliamo tante volte anche noi, nelle nostre relazioni sociali, non tanto nel senso del tono della voce, ma con quel desiderio di prevalere sull'altro che la società ci suggerisce, come vivendo in un continuo talk show nel quale per imporsi bisogna prevaricare più che ragionare. È il modo di proporsi televisivo che spesso ha così successo nel modo di fare comune.
Anche nelle vicende della Passione di Gesù c’è un grande trambusto di urla. Racconta il Vangelo di Luca: 
Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: "Mi avete portato quest'uomo come agitatore del popolo. Ecco, … egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà". Ma essi si misero a gridare tutti insieme: "Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!". Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: "Crocifiggilo! Crocifiggilo!". Ed egli, per la terza volta, disse loro: "Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà". Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano.” (Lc 23,13-23).
Quando Pilato compie il debole tentativo di salvare Gesù, perché si era reso conto che era innocente vittima di una congiura dovuta all'invidia dei capi del popolo, la folla grida a Pilato “Crocifiggilo!”; quando Pilato propone di liberarlo come gesto di clemenza, la folla grida “No, libera Barabba!” Il grido è il modo normale di esprimersi della folla. Sì, perché in essa ci si sente forti dell’anonimato e dell’impersonalità: si grida non con la propria voce isolata, ma si partecipa ad un grido collettivo. Per questo viene così facile preferire un delinquente a Gesù. Ci si sente forti, approvati, euforici. Eppure Gesù non ha fatto niente di male, non ha commesso reati né è un violento, è evidente a tutti e Pilato lo dice con forza. È un poveraccio innocente, eppure la folla grida contro di lui.
Quando si è nella folla è normale gridare, è normale prendersela con chi è un poveraccio, ed è altrettanto normale preferire chi si propone come un forte e un prepotente, come Barabba, piuttosto che un perdente, come Gesù. È la dinamica normale della folla. È il modo di agire normale di chi sta nella folla.
Lo vediamo oggi in tanti Paesi europei e negli Stati Uniti. Le folle gridano contro gli immigrati, i poveracci, contro chi è senza diritto di curarsi, come negli USA, e contro chi non ce la fa ad andare avanti. A me ha colpito molto, per fare esempio, sapere che in molte città, come Roma, è stato applicato il reato di “furto di immondizia” contro quelli che frugano nei cassonetti per cercare quello che possono rimediare di utile. Ai poveri è negata persino la possibilità di usare quello che i ricchi buttano via. Pochi giorni fa il Corriere della Sera, il giornale più diffuso in Italia, ha fatto un ampio reportage su questo "scandalo" dei ladri di immondizia, reclamando che venga represso questo malcostume. È il grido della folla che non sopporta nemmeno la vista dei poveri, anche quando non fanno niente di male.
Allo stesso tempo vediamo che la folla invoca a gran voce i forti: Trump negli USA, Le Pen in Francia, Orban in Ungheria, Kacinsky in Polonia, ecc… proprio come la folla di Gerusalemme grida di liberare Barabba, capopopolo violento.
Insomma la folla si esprime gridando, per zittire gli altri, per evitare la fatica di ragionare e capire, per sentirsi forti e sfogare le proprie frustrazioni, per esorcizzare le paure.
Io oggi vorrei chiedermi con voi: io dove sono? Ciascuno di noi dov’è? Non mi nascondo anche io nella folla? Non grido come lei e con lei le parole d’ordine che tutti urlano? Quando mi riferisco a urla e grida evidentemente non mi riferisco tanto al tono della voce, ma all’atteggiamento del proprio modo di vivere e giudicare.
Per smettere di urlare c’è bisogno di uscire dalla folla, ma come è possibile?
Come sappiamo la tradizione della Chiesa il giovedì santo, dopo la celebrazione della Messa in Cœna Domini spoglia gli altari e apre le chiese alla preghiera davanti a quello che si chiama impropriamente “il sepolcro”. Non lo è, perché Gesù non è ancora morto, piuttosto lo possiamo immaginare come la sala dell’ultima cena, nella quale Gesù vuole restare con i dodici per dimostrargli tutto il suo amore e prepararsi così al momento più duro della sua Passione.
Quella sera Gesù non grida la sua rabbia, eppure ne avrebbe avuto motivo. Stava per essere condannato a morte ingiustamente. Neppure urla il suo disprezzo per gli apostoli, eppure ne avrebbe avuto motivo, visto che di lì a poco due lo avrebbero tradito apertamente, Giuda e Pietro, e gli altri dieci lo avrebbero abbandonato nel momento di maggior bisogno.
No, Gesù non grida, ma tira fuori i suoi dalla folla, li chiama in disparte e parla loro con pacatezza e semplicità le parole del suo amore. Poche parole, soprattutto gesti: lava loro i piedi, offre loro il suo Corpo e Sangue, tutto se stesso.
Racconta il Vangelo di Giovanni: “Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù … si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto.” (Gv 13, 1-5)
Ebbene anche a noi Gesù rivolge lo stesso invito: uscire dalla folla che urla, che rivendica il proprio diritto a lamentarsi, che se la prende con i poveracci, che vuole prevalere sugli altri, per ascoltare le sue semplici, pacate parole che ci parlano di amore e di vita buona e per lasciarci lavare i piedi e nutrire col suo Corpo e Sangue.
Lo faremo Giovedì santo, ma lo facciamo qui ogni domenica. La Messa domenicale è sostanzialmente questo: uscire dal coro delle grida quotidiane, quelle della televisione, dei politici, delle pubblicità, degli arrivisti e dei prevaricatori. Smettere anche noi di gridare nel tentativo disperato di sovrastare il frastuono nel quale nessuno sta a sentire nessuno ma cerca solo di imporsi. Farci in disparte con Gesù che ci parla e ci ascolta, che insegna a rivolgerci agli altri con affetto e ad ascoltarli, ma anche che realizza con i suoi gesti concreti quello che dice e ci insegna a fare anche noi altrettanto: ci lava dal male che incrosta la nostra vita, ci nutre con il suo volerci bene così come siamo fatti, con i difetti e le mancanze.
Qualcuno potrebbe pensare che per uscire dalla folla basta starsene in disparte, isolarsi, farsi i fatti propri. Ma non basta questo, perché la folla è nella nostra testa e nel nostro cuore, ci pervade con il suo modo di ragionare e giudicare gli altri. Per uscire dalla folla invece c’è bisogno di farsi chiamare per nome, cioè così come siamo fatti, senza fingere di essere come non siamo e senza nasconderlo, da qualcuno che ci vuol bene proprio per come siamo fatti. Questo qualcuno non può che essere Gesù, l’unico che ha convocato in disparte i dodici, li ha chiamati per nome e li ha amati fino alla fine, senza recriminare, senza giudicarli, senza chiedere il contraccambio, ma con amore gratuito e disinteressato, che è l’unico vero amore. Chi altro farebbe altrettanto?
Questo è quello che cerchiamo di comunicare ai vostri figli e che vorremmo offrire anche a voi, a tutti.
Oggi vi chiedo di pensare bene a cosa è importante desiderare per i vostri figli, per il loro bene e per il loro futuro. Certo, giustamente penserete ad una loro sistemazione lavorativa e affettiva, ma io vi chiedo oggi, volete gettarli nella folla che urla, dove non è possibile ragionare e capire, dove non importa ascoltare e farsi conoscere, dove non conta chi sono io e come so costruire il bene per me e per chi mi è accanto? Oppure preferite aiutarli a uscire da quella folla che urla, a non sentirsi giustificati di fare come tutti solo perché lo fanno tutti, anche se è sbagliato, anche se è male?
Io vi consiglio di accompagnarli assieme a noi in quella stanza del Giovedì santo, dove Gesù ci prende in disparte, ci ascolta, ci parla e ci vuol bene, dove impariamo ad uscire dalla folla, ma non per starcene per conto nostro e disinteressarci degli altri, ma per essere veramente uomini e donne, capaci di costruire il proprio bene perché interessati al bene di tutti.


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