“La Chiesa di papa Francesco”
Itinerario
di riflessioni, esperienze, preghiera
per
una Quaresima nella gioia del Vangelo
III
incontro
"Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio"
Compiamo oggi il terzo “passo” del
nostro cammino di Quaresima, dopo il primo incontro il mercoledì delle ceneri
in cui abbiamo riflettuto sulla “Chiesa in uscita” di papa Francesco e il
secondo, sabato scorso, in cui abbiamo incontrato i poveri alla stazione di
Terni.
Oggi ci vogliamo soffermare su quello
che abbiamo vissuto sabato scorso, riflettendo sul nostro rapporto con i
poveri.
Papa Francesco con quella sua famosa
espressione pronunciata in uno dei suoi primissimi interventi pubblici, tre
giorni dopo la sua elezione, che si può definire come programmatica del suo
papato: “Come mi piacerebbe una Chiesa
povera e per i poveri!”[1] ha voluto esprimere la necessità di ristabilire
quella centralità dei poveri e della povertà che il Concilio aveva con forza
evidenziato.
Bisogno di chi?
Il 18 maggio 2013 papa Francesco così
diceva durante la veglia di Pentecoste in piazza San Pietro: “Quando io andavo a confessare nella diocesi
precedente, venivano alcuni e sempre facevo questa domanda: «Ma, lei dà l’elemosina?»
«Sì, padre!». «Ah, bene, bene». E gliene facevo due in più: «Mi dica, quando
lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui dà l’elemosina?»
«Ah, non so, non me ne sono accorto». Seconda domanda: «E quando lei dà
l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la
moneta?». Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo,
prendere su di noi questo dolore per i poveri.”[2]
Con questa semplice affermazione, che
sembra solo un raccontino da parroco di campagna, Francesco metteva in evidenza
alcune cose significative sul tema su cui oggi ci soffermiamo.
1.
Il papa opera una
inversione di prospettiva. Quando si parla di poveri nella Chiesa si pensa ad
essi come ad un problema sociale di cui essa si prende cura. Il volontariato cioè
darebbe una risposta alle emergenze sociali e in qualche modo supplisce alle carenze
dell’assistenza pubblica italiana. Senza entrare nelle polemiche se questo sia
giusto, opportuno o meno, insomma si evidenzia come il volontariato cristiano è
il modo con cui alcuni volenterosi cercano di rispondere ai grandi bisogni dei
poveri.
Francesco capovolge la
prospettiva: il rapporto con i poveri nasce da un bisogno dei cristiani.
È innanzitutto la risposta al loro bisogno di entrare in un rapporto stretto,
“carnale” con Cristo. Siamo noi ad avere bisogno di un rapporto con essi per
non essere estranei a Cristo.
È un po’ come se dicessimo
che fare la comunione è necessario perché sennò che facciamo di tutte quelle
ostie consacrate? Qualcuno dovrà pure mangiarle! In realtà sappiamo bene che
siamo noi ad aver bisogno di nutrirci del corpo e del sangue di Cristo, e la nostra
vita spirituale deperisce se non lo facciamo. È essenzialmente il nostro
bisogno a motivare la celebrazione del sacramento dell’Eucarestia, e non il
bisogno del corpo di Cristo di essere mangiato!
2.
Il nostro
rapporto con i poveri è qualificante del giudizio di Dio sulla nostra vita. Non è un caso che il racconto del papa si colloca
all’interno della confessione, cioè del momento delicato in cui sciogliamo il
nostro peccato davanti a Dio perché lo perdoni. Francesco evidenzia che
comunemente il modo con cui noi ci rapportiamo con i poveri non viene tenuto in
considerazione nel fare il “bilancio” della propria vita davanti a Dio. Il papa
non fa che attualizzare il testo di Mt 25: “ero
affamato e non mi hai dato da mangiare, nudo e non mi hai vestito…” aggiungendo
“ho un corpo, e tu non te ne sei nemmeno
accorto…”
3.
Il vero incontro
con i poveri non può che essere un rapporto personale; graduale, come tutti i rapporti personali, che ha
bisogno di essere iniziato, costruito, coltivato, goduto. Questo esprime la
gradualità dei termini del racconto: prima dare una elemosina, poi guardare
negli occhi, e infine toccare la carne. È il cammino del cristiano che entra in
intimità con Cristo, cioè l’incontro con i poveri è una porta che dà accesso a
Cristo, non l’unica, ma nemmeno una secondaria, se consideriamo che su questo
saremo giudicati. Si veda Evangelii
Gaudium: “Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, … ad essere loro amici, ad
ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole
comunicarci attraverso di loro”.[3]
4.
Infine il papa
dice: “Questo è il problema: la carne di
Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i
poveri.” Cioè “toccare” il corpo dei poveri, ovvero non fermarsi ad un
rapporto superficiale e sbrigativo ma personale e profondo restituisce ai
poveri, e ce la fa scoprire, tutta la dimensione umana dei poveri, che è
fisica (toccare la carne) e spirituale (il dolore dei poveri). In qualche
modo voler bene alle loro necessità fisiche è la chiave d’accesso all’universo
umano e spirituale dell’uomo. In un mondo in cui o si enfatizza la dimensione
materiale, per cui vale solo ciò che ha valore, si compra, è quotato in borsa,
ecc.. , o si vede solo la dimensione spirituale, per cui tutto è psicologia,
sentirsela, sentimento, passione, ecc… i poveri ci introducono a maturare una
dimensione equilibrata e vera dell’uomo: corpo e spirito, bisogni fisici e
necessità spirituali.
Il posto dei poveri nella Chiesa
Ma poi papa Francesco mette in luce
anche un altro aspetto del rapporto dei cristiani con i poveri. Quanto detto
infatti prima a livello personale, vale altrettanto se lo proiettiamo a livello
comunitario-ecclesiale. Cioè non solo la Chiesa fa un servizio per i poveri, ma
riceve da loro molto di più. In che senso?
Un altro famoso Papa santo, Giovanni
XXIII, in un suo discorso a un mese dall’apertura del Concilio disse: “La Chiesa si presenta quale è, e vuol
essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri.”[4] Che la Chiesa sia “di tutti”, se vogliamo, è già
contenuto nel termine cattolica, cioè universale, ma proprio per questo Giovanni
sente il bisogno di sottolineare che la Chiesa senza i poveri non è completa.
Essi occupano un posto al suo interno indispensabile e insostituibile. La
Chiesa senza i poveri è menomata, parziale, come una chiesa senza bambini, o
senza anziani, o senza uomini, solo per le donne.
Francesco ha chiaro che bisogna
restituire ai poveri il posto che disattenzione e dimenticanza gli hanno sottratto,
relegandoli al posto di clienti, fruitori di servizi, invece che fratelli a
pieno titolo, anzi privilegiati.
Per essere di tutti, la Chiesa
deve comprendere i poveri, anzi essi sono la garanzia che essa non è settaria,
parziale, elitaria. Se in essa i poveri si trovano a loro agio, se essi hanno
un posto privilegiato, ebbene vuol dire che veramente la Chiesa è universale,
sennò è un club di amici, destinata a scomparire, come dice Francesco: “Qualsiasi
comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza
occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con
dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della
dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente
finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con
pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti.”[5]
Anzi per Francesco il posto dei poveri
nella Chiesa ha un fondamento cristologico: “Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che
Egli stesso «si fece povero (2 Cor 8,9).”[6] Escluderli dal suo interno significa fare fuori Gesù,
come dei figli che si vergognano delle umili origini del proprio padre.
Il fatto che i poveri abbiano un posto
al centro e non a fianco della Chiesa significa che essi devono essere inclusi
nelle dinamiche e attività ecclesiali. Anche essi cioè vanno coinvolti, evangelizzati, resi
partecipi della celebrazione liturgica, catechizzati, responsabilizzati
dell’annuncio, ecc…: “Desidero affermare
con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la
mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede
una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo
tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola,
la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione
nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente
in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.”[7] Possiamo in sintesi dire, sempre usando un’espressione cara a
papa Francesco, che le periferie devono trovare un posto al centro.
Ma non è solo questo. La centralità dei
poveri nella vita della Chiesa significa anche un’altra cosa, e cioè che il
servizio di aiuto ai poveri non è qualcosa di meramente sociale o burocratico,
ma ha un forte valore sacramentale. È servizio al corpo di Cisto, è presenza di
Dio, il luogo del servizio ai poveri è terra santa nella quale vanno tolte le
scarpe, come Mosè davanti al roveto ardente (Es 3,5). Per questo non possiamo
applicare criteri sociologici, politici, economici, ecc.. ma solo la logica
della misericordia e dell’amore di Dio, che a volte è così contraddittoria e
paradossale: “Per la Chiesa l’opzione per
i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o
filosofica. Dio concede loro «la sua prima misericordia». Questa preferenza
divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani,
chiamati ad avere «gli stessi sentimenti di Gesù» (Fil 2,5). Ispirata da
essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri intesa come
una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della
quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa».”[8] Possiamo dire in questo caso che avviene così un
movimento di senso opposto a quello indicato prima, e cioè che è il centro che
si sposta e va in periferia, sì perché il centro della Chiesa è Cristo, e
Cristo è uomo di periferia, nato, vissuto e morto fuori dalla capitale, socialmente
umile, estraneo ai circoli di quelli che contavano e decidevano le sorti politiche,
sociali e culturali del tempo. I poveri spingono i cristiani a questo movimento
di “esodo” da quelli che sono considerati i “centri” che contano per scoprire il vero
centro della vita di fede, cioè la periferia.
I poveri sono maestri, ma non nel senso
di comunicazione di una sapienza mondana. In questo senso essi non sono
migliori di noi, spesso imbevuti di pregiudizi e false idee. Ma sono maestri
perché portatori di una sapienza spirituale che la loro stessa realtà comunica:
“[I poveri] con le proprie sofferenze
conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo
evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la
forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della
Chiesa.”[9]
Il servizio ai poveri non è una
professione o una specializzazione solo di alcuni, chi è portato o chi è incaricato
o chi è formato a questo scopo. È piuttosto l’esercizio ordinario della pratica
di fede, tanto quanto andare a messa, fare la comunione, pregare o leggere la
Scrittura. Non sono cose solo per esperti, ma esercizio dell’ordinaria vita
cristiana: “Nessuno dovrebbe dire che si
mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare
più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti
accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. … nessuno
può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia
sociale.”[10]
Infine il rapporto
con i poveri è in qualche modo una verifica dell’autenticità evangelica della
vita di una chiesa o comunità cristiana: “Quando
san Paolo si recò dagli Apostoli a Gerusalemme per discernere se stava correndo
o aveva corso invano (cfr. Gal 2,2: “Quattordici anni dopo, andai
di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Bàrnaba, portando con me anche
Tito: vi andai però in seguito a una rivelazione. Esposi loro il Vangelo
che io annuncio tra le genti, ma lo esposi privatamente alle persone più
autorevoli, per non correre o aver corso invano.”), il criterio-chiave di autenticità che gli indicarono fu che non si
dimenticasse dei poveri (cfr. Gal 2,10: riconoscendo la grazia a
me data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba
la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i
circoncisi. Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello
che mi sono preoccupato di fare.)."[11]
I poveri sono decisivi nella missione che definisce l'essenza della Chiesa: "La bellezza stessa del Vangelo non sempre può essere adeguatamente manifestata da noi, ma c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via.”[11] In questa espressione troviamo un grande suggerimento per la missione. Infatti troppo spesso si pensa ad essa come a qualcosa per la quale bisogna fare affidamento sulle “doti attrattive” di qualcuno: la simpatia, la capacità di parlare e intrattenere, le doti di cantare, suonare strumenti, organizzare e gestire eventi, ecc… In realtà Francesco sa che non sono queste doti a contare, cioè ad essere attrattive e affascinanti, quanto piuttosto il fatto che una comunità lascia trasparire il proprio amore per i poveri, l’umanità piena della vita cristiana che tiene conto e privilegia proprio i più deboli e fragili e se ne prende cura come fratelli e sorelle. In fondo tanto dell’affetto e della stima per papa Francesco, anche in ambienti non cristiani o non favorevoli alla Chiesa, deriva proprio da questo suo atteggiamento di amore privilegiato per i poveri. È una preziosa indicazione missionaria che richiama non un uso strumentale dei poveri ma il fatto che, come già detto prima, essi sono la prova dell’autenticità della vita evangelica di una comunità cristiana.
I poveri sono decisivi nella missione che definisce l'essenza della Chiesa: "La bellezza stessa del Vangelo non sempre può essere adeguatamente manifestata da noi, ma c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via.”[11] In questa espressione troviamo un grande suggerimento per la missione. Infatti troppo spesso si pensa ad essa come a qualcosa per la quale bisogna fare affidamento sulle “doti attrattive” di qualcuno: la simpatia, la capacità di parlare e intrattenere, le doti di cantare, suonare strumenti, organizzare e gestire eventi, ecc… In realtà Francesco sa che non sono queste doti a contare, cioè ad essere attrattive e affascinanti, quanto piuttosto il fatto che una comunità lascia trasparire il proprio amore per i poveri, l’umanità piena della vita cristiana che tiene conto e privilegia proprio i più deboli e fragili e se ne prende cura come fratelli e sorelle. In fondo tanto dell’affetto e della stima per papa Francesco, anche in ambienti non cristiani o non favorevoli alla Chiesa, deriva proprio da questo suo atteggiamento di amore privilegiato per i poveri. È una preziosa indicazione missionaria che richiama non un uso strumentale dei poveri ma il fatto che, come già detto prima, essi sono la prova dell’autenticità della vita evangelica di una comunità cristiana.
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