Innanzi tutto vorrei fare una
precisazione: ha senso parlare di gioia in tempo di Quaresima? Non sarebbero
forse più adatti termini più “seri”, quali pentimento, sobrietà,
mortificazione, ecc…
È vero, la Quaresima parte dalla
constatazione della nostra piccolezza e fragilità (la cenere di oggi) e tiene
conto della nostra vulnerabilità al male (le tentazioni di Gesù nel deserto,
brano della prima domenica di Quaresima), ma lo fa perché ci rendiamo meglio
conto del bisogno che abbiamo di andare oltre questa nostra condizione di
partenza, per giungere all'incontro col Signore risorto, a Pasqua, che può
colmare ogni nostra mancanza e rafforzarci nella nostra decisione di scegliere
per il bene.
È come chi, riconosciuto che attraversa
una regione buia e piena di pericoli, scorge in lontananza una luce che
rischiara il cammino e gl’indica una prospettiva rassicurante. Certo, è il buio
che lo avvolge a fargli sentire quella luce attraente, ma non si ferma compiaciuto
a contemplare la tristezza del buio pieno di fantasmi spaventosi e insidie nel
quale si trova. Piuttosto si incammina con decisione e fretta verso quella
luce, pieno di speranza e fiducia, attratto da quella prospettiva, e man mano
che avanza comincia a gustare la bellezza del chiarore che lo illumina e gli
scalda il cuore e le membra, confermandogli che quello è veramente il cammino
giusto.
Il rischio infatti è quello di subire un
fascino perverso, quello della contemplazione della gravità della situazione
presente, dei pericoli che corriamo, e della forza che esercita il male su di
noi, senza gioire della possibilità che il Signore viene a darci di uscirne
vittoriosi. Un fascino che a volte imprigiona in una gabbia di rassegnazione e
tristezza impotente, che mette al riparo dalla responsabilità di uscirne. A
volte ci abituiamo alle gabbie che ci sembrano comode e ci adattiamo a viverci alla
meno peggio, come prigionieri rassegnati.
No, con gioia oggi riaffermiamo che il
Signore è più forte della morte che ha cercato di imprigionarlo, e che ci vuole
rendere impotenti e rassegnati davanti al male. Questa potenza egli vuole comunicarcela tutta
intera facendoci vivere con sé la Resurrezione.
In questo senso vogliamo fare nostra
l’affermazione di Neemia che, dopo aver riscoperto e letto pubblicamente davanti
a tutto il popolo la Parola di Dio rimasta a lungo silente, proclama: “non vi rattristate, perché la gioia del
Signore è la vostra forza" (Neemia 8,10).
Sì, il cammino della Quaresima richiede
forza e decisione per vincere la fatica del cammino e la tentazione di restare
così come si è e la “gioia del Signore”
è la forza di cui oggi abbiamo bisogno in questo tempo.
Come sappiamo papa Francesco ha voluto
inaugurare il suo pontificato con un documento programmatico che ci indica la
fonte di questa gioia: il Vangelo!
Così inizia il papa: “ La gioia del
Vangelo riempie il cuore e
la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano
salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore,
dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia.” (EG 1)
In questi nostri incontri durante il
tempo di Quaresima vogliamo seguire papa Francesco alla scoperta di questa
fonte inesauribile di gioia. Lo facciamo in un itinerario che segue le antiche
e sagge indicazioni della Chiesa sul come vivere la Quaresima per ottenere i
frutti spirituali che promette: digiuno, preghiera e carità.
Il digiuno che vogliamo vivere è la rinuncia
a nutrirci della scontatezza del nostro modo di vivere come cristiani stanchi e
abitudinari, per scoprire quella che abbiamo chiamato “la Chiesa di papa
Francesco” cioè quella che nell’Evangelii
gaudium egli ci indica come il luogo in cui poter ricevere e vivere la vera
gioia del Vangelo.
Una Chiesa in uscita
Il primo aspetto che osserviamo di
questa Chiesa come la sogna e desidera papa Francesco è il suo essere “in
uscita”. Egli scrive:
“Nella
Parola di Dio appare costantemente questo dinamismo di “uscita” che Dio
vuole provocare nei credenti [1].
Abramo accettò la chiamata a partire verso una terra nuova
(cfr Gen 12,1-3). Mosè ascoltò la chiamata di Dio: «Va’, io ti mando»
(Es 3,10) e fece uscire il popolo verso la terra promessa
(cfr Es 3,17). A Geremia disse: «Andrai da tutti coloro a cui ti
manderò» (Ger 1,7). Oggi, in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli
scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e
tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. … a uscire dalla
propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie [2] che hanno bisogno della luce del
Vangelo.
La
gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia
missionaria. La sperimentano i settantadue discepoli, che tornano dalla
missione pieni di gioia (cfr Lc 10,17). ... Questa gioia è un segno
che il Vangelo è stato annunciato e sta dando frutto. Ma ha sempre la
dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé [3], del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre.
…
Fedele
al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il
Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza
repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non
può escludere nessuno [4]. Così
l’annuncia l’angelo ai pastori di Betlemme: «Non temete, ecco, vi annuncio una
grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). L’Apocalisse
parla di «un vangelo eterno da annunciare agli abitanti della terra e a
ogni nazione, tribù, lingua e popolo» (Ap 14,6).
La
Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono
l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e
festeggiano. [5] …
La
comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha
preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il
primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i
lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive
un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver
sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo
un po’ di più di prendere l’iniziativa! [6]
… La comunità evangelizzatrice si
mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le
distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita
umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori
hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità
evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti
i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe
attese e la sopportazione apostolica. [7]
L’evangelizzazione usa molta
pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore,
sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai
frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non
perde la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la
zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. [8] Trova il modo per far sì che la
Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova,
benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa
offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù
Cristo, però il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la
Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. [9] Infine, la comunità
evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni
piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione
gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far
progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza
della Liturgia [10], la quale è
anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato
impulso a donarsi.” (EG 20-24, passim).
Vediamo alcuni elementi forti della descrizione
che papa Francesco fa della vita dei cristiani in uscita:
1.
è qualcosa che
riguarda tutti, non è un compito “istituzionale” di una struttura o di qualche
specialista incaricato;
2.
bisogna sentire
l’attrazione che il mondo esercita sui cristiani, specialmente le periferie
lontane;
3.
chiede di uscire
da sé per trovare il proprio baricentro di equilibrio non all’interno di se
stessi o della propria cerchia ristretta, ma fuori di sé, forte richiamo nell’estroversione;
4.
tutti i luoghi e
le persone sono “adatti” al vangelo, non c’è un ambito o una situazione o
persone privilegiate, altre estranee o impermeabili per natura;
5.
la gioia è legata
all’uscire dai circuiti abituali e nel vedere che il Vangelo, se seminato con
sincerità e generosità, nasce e fruttifica anche dove non si credeva possibile;
6.
avere
sperimentato la misericordia del Signore ci rende capaci di comunicarla agli
altri e audaci nel farlo senza timore;
7.
vive assieme alla
gente, accompagna, cioè è vicino, ne condivide sofferenze, aspirazioni, delusioni
e speranze, avendo la pazienza di veder fruttificare il seme del Vangelo
gettato, senza fretta. Non si tratta di insegnare e dire agli altri cosa devono
fare, ma essere insieme, condividere cammini ed esperienze;
8.
non si lamenta né
si vittimizza per le fatiche e gli ostacoli (la zizzania) ma accetta la
gradualità e la parzialità delle realizzazioni;
9.
suscita simpatia
e amicizia attorno a sé;
10.
esprime gioia e
vitalità nella liturgia celebrata nella bellezza non esteriore e formale, ma che
nasce dall’essere preghiera vissuta e partecipata da tutto il popolo.
Sono elementi nuovi e decisivi.
La comunità dei credenti non è una
struttura che deve avere al suo centro la preoccupazione di organizzarsi,
conservarsi, gestirsi, amministrarsi e sviluppare la propria influenza. Muore se parla sempre di sé e della propria
organizzazione e non del mondo che attende che gli porti il Vangelo: “Siate ovunque portatori della Parola di
vita nei nostri quartieri, nei luoghi di lavoro e dovunque le persone si
ritrovino e sviluppino relazioni. Voi dovete andare fuori. Io non capisco le
comunità cristiane che sono chiuse, in parrocchia. … Nel Vangelo è bello quel
brano che ci parla del pastore che, quando torna all’ovile, si accorge che
manca una pecora, lascia le 99 e va a cercarla, a cercarne una.. Ma, fratelli e
sorelle, noi ne abbiamo una; ci mancano le 99! Dobbiamo uscire, dobbiamo andare
da loro! In questa cultura – diciamoci la verità – ne abbiamo soltanto una,
siamo minoranza! E noi sentiamo il fervore, lo zelo apostolico di andare e
uscire e trovare le altre 99? ... È più facile restare a casa, con quell’unica
pecorella! È più facile con quella pecorella, pettinarla, accarezzarla… ma … il
Signore ci vuole pastori, non pettinatori di pecorelle; pastori! E quando una
comunità è chiusa, sempre tra le stesse persone che parlano, questa comunità
non è una comunità che dà vita. È una comunità sterile, non è feconda. La
fecondità del Vangelo viene per la grazia di Gesù Cristo, ma attraverso noi, la
nostra predicazione, il nostro coraggio, la nostra pazienza.” (Discorso al
convegno ecclesiale Diocesi di Roma, 17 giugno 2013).
Cerca non la sicurezza di essere nel
giusto, ma accetta il rischio di sbagliare, pur di essere segno di novità e
portatrice di Vangelo: “Ma io vi dico: preferisco mille volte una
Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per
chiusura! Uscite fuori, uscite! Pensate anche a quello che dice
l’Apocalisse. Dice … che Gesù è alla porta e chiama, chiama per entrare nel nostro
cuore (cfr Ap 3,20). Questo è il senso dell’Apocalisse. Ma fatevi
questa domanda: quante volte Gesù è dentro e bussa alla porta per uscire, per
uscire fuori, e noi non lo lasciamo uscire, per le nostre sicurezze, perché
tante volte siamo chiusi in strutture caduche, che servono soltanto per farci
schiavi, e non liberi figli di Dio?” (discorso alla veglia di Pentecoste,
18 maggio 2013).
La Chiesa non è il posto dove ci
troviamo bene fra noi, ma dove sempre si sente la mancanza di chi non c’è
ancora. “In questa “uscita” è importante andare all’incontro; questa parola
per me è molto importante: l’incontro con gli altri. Perché? Perché la fede è
un incontro con Gesù, e noi dobbiamo fare la stessa cosa che fa Gesù:
incontrare gli altri.” (discorso alla veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013)
La commozione di Gesù fa uscire all’aperto
Per concludere vorrei aggiungere una
notazione: dove si trova la forza di propulsione che spinge ad uscire e
affrontare il “mare aperto” del mondo per gettare le reti del Vangelo. Non
basta solo una decisione e la forza di volontà, né aver capito e progettato
tutto bene. Non si tratta di fare di più e meglio.
Matteo racconta che Gesù: “Vedendo le folle, ne sentì compassione,
perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore.” (Mt
9,36). È la compassione e la commozione di Gesù che ci permette di vedere e
comprendere la necessità di uscire per andare incontro agli altri. Il Vangelo
di Giovanni dice che è Gesù stesso che ci spinge a uscire: “egli chiama le sue pecore, ciascuna per
nome, e le conduce fuori.” (Gv 10,2). Ci chiama ciascuno per nome, cioè
sapendo chi siamo, come siamo fatti, ciascuno con i suoi difetti e debolezze,
ma non per questo rinuncia a mandarci in giro per renderci conto di come la
gente vive e per volergli bene proprio per questo. Gesù non sceglie quella
gente perché piena di buona volontà o ricca di capacità, ma proprio perché
stanca e sfinita, disorientata, problematica, poveraccia e bisognosa.
L’uscita allora è una vocazione di Gesù
a sentire compassione per i più poveracci, periferici e messi male, come i
poveri, ma anche a saper riconoscere
dietro le facciate decorose di chi sta bene tanta umanità sofferente e debole,
infragilita dalla vita senza senso, svuotata di sentimenti autentici.
È solo la compassione che rende pastoralmente
intelligenti, organizzati, cioè capaci di comunicare il Vangelo. Non i piani
fatti a tavolino né i progetti pastorali ben organizzati, nemmeno una cultura o
abilità personali, ma un cuore sensibile e vulnerabile nell’incontro con tutti.
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