giovedì 2 marzo 2017

“La Chiesa di papa Francesco” Itinerario di riflessioni, esperienze, preghiera per una Quaresima nella gioia del Vangelo - I incontro: Una Chiesa in uscita




Innanzi tutto vorrei fare una precisazione: ha senso parlare di gioia in tempo di Quaresima? Non sarebbero forse più adatti termini più “seri”, quali pentimento, sobrietà, mortificazione, ecc…
È vero, la Quaresima parte dalla constatazione della nostra piccolezza e fragilità (la cenere di oggi) e tiene conto della nostra vulnerabilità al male (le tentazioni di Gesù nel deserto, brano della prima domenica di Quaresima), ma lo fa perché ci rendiamo meglio conto del bisogno che abbiamo di andare oltre questa nostra condizione di partenza, per giungere all'incontro col Signore risorto, a Pasqua, che può colmare ogni nostra mancanza e rafforzarci nella nostra decisione di scegliere per il bene.
È come chi, riconosciuto che attraversa una regione buia e piena di pericoli, scorge in lontananza una luce che rischiara il cammino e gl’indica una prospettiva rassicurante. Certo, è il buio che lo avvolge a fargli sentire quella luce attraente, ma non si ferma compiaciuto a contemplare la tristezza del buio pieno di fantasmi spaventosi e insidie nel quale si trova. Piuttosto si incammina con decisione e fretta verso quella luce, pieno di speranza e fiducia, attratto da quella prospettiva, e man mano che avanza comincia a gustare la bellezza del chiarore che lo illumina e gli scalda il cuore e le membra, confermandogli che quello è veramente il cammino giusto.
Il rischio infatti è quello di subire un fascino perverso, quello della contemplazione della gravità della situazione presente, dei pericoli che corriamo, e della forza che esercita il male su di noi, senza gioire della possibilità che il Signore viene a darci di uscirne vittoriosi. Un fascino che a volte imprigiona in una gabbia di rassegnazione e tristezza impotente, che mette al riparo dalla responsabilità di uscirne. A volte ci abituiamo alle gabbie che ci sembrano comode e ci adattiamo a viverci alla meno peggio, come prigionieri rassegnati.
No, con gioia oggi riaffermiamo che il Signore è più forte della morte che ha cercato di imprigionarlo, e che ci vuole rendere impotenti e rassegnati davanti al male.  Questa potenza egli vuole comunicarcela tutta intera facendoci vivere con sé la Resurrezione.
In questo senso vogliamo fare nostra l’affermazione di Neemia che, dopo aver riscoperto e letto pubblicamente davanti a tutto il popolo la Parola di Dio rimasta a lungo silente, proclama: “non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza" (Neemia 8,10).
Sì, il cammino della Quaresima richiede forza e decisione per vincere la fatica del cammino e la tentazione di restare così come si è e la “gioia del Signore” è la forza di cui oggi abbiamo bisogno in questo tempo. 
Come sappiamo papa Francesco ha voluto inaugurare il suo pontificato con un documento programmatico che ci indica la fonte di questa gioia: il Vangelo!
Così inizia il papa: “ La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia.” (EG 1)
In questi nostri incontri durante il tempo di Quaresima vogliamo seguire papa Francesco alla scoperta di questa fonte inesauribile di gioia. Lo facciamo in un itinerario che segue le antiche e sagge indicazioni della Chiesa sul come vivere la Quaresima per ottenere i frutti spirituali che promette: digiuno, preghiera e carità.
Il digiuno che vogliamo vivere è la rinuncia a nutrirci della scontatezza del nostro modo di vivere come cristiani stanchi e abitudinari, per scoprire quella che abbiamo chiamato “la Chiesa di papa Francesco” cioè quella che nell’Evangelii gaudium egli ci indica come il luogo in cui poter ricevere e vivere la vera gioia del Vangelo.
Una Chiesa in uscita
Il primo aspetto che osserviamo di questa Chiesa come la sogna e desidera papa Francesco è il suo essere “in uscita”. Egli scrive:
Nella Parola di Dio appare costantemente questo dinamismo di “uscita” che Dio vuole provocare nei credenti [1]. Abramo accettò la chiamata a partire verso una terra nuova (cfr Gen 12,1-3). Mosè ascoltò la chiamata di Dio: «Va’, io ti mando» (Es 3,10) e fece uscire il popolo verso la terra promessa (cfr Es 3,17). A Geremia disse: «Andrai da tutti coloro a cui ti manderò» (Ger 1,7). Oggi, in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. … a uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie [2] che hanno bisogno della luce del Vangelo.
La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria. La sperimentano i settantadue discepoli, che tornano dalla missione pieni di gioia (cfr Lc 10,17). ... Questa gioia è un segno che il Vangelo è stato annunciato e sta dando frutto. Ma ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé [3], del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre. …
Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno [4]. Così l’annuncia l’angelo ai pastori di Betlemme: «Non temete, ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). L’Apocalisse parla di «un vangelo eterno da annunciare agli abitanti della terra e a ogni nazione, tribù, lingua e popolo» (Ap 14,6).
La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. [5]  …
La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! [6]  … La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. [7]  L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. [8] Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo, però il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. [9] Infine, la comunità evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia [10], la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi.” (EG 20-24, passim).
Vediamo alcuni elementi forti della descrizione che papa Francesco fa della vita dei cristiani in uscita:
1.     è qualcosa che riguarda tutti, non è un compito “istituzionale” di una struttura o di qualche specialista incaricato;
2.     bisogna sentire l’attrazione che il mondo esercita sui cristiani, specialmente le periferie lontane;
3.     chiede di uscire da sé per trovare il proprio baricentro di equilibrio non all’interno di se stessi o della propria cerchia ristretta, ma fuori di sé, forte richiamo nell’estroversione;
4.     tutti i luoghi e le persone sono “adatti” al vangelo, non c’è un ambito o una situazione o persone privilegiate, altre estranee o impermeabili per natura;
5.     la gioia è legata all’uscire dai circuiti abituali e nel vedere che il Vangelo, se seminato con sincerità e generosità, nasce e fruttifica anche dove non si credeva possibile;
6.     avere sperimentato la misericordia del Signore ci rende capaci di comunicarla agli altri e audaci nel farlo senza timore;
7.     vive assieme alla gente, accompagna, cioè è vicino, ne condivide sofferenze, aspirazioni, delusioni e speranze, avendo la pazienza di veder fruttificare il seme del Vangelo gettato, senza fretta. Non si tratta di insegnare e dire agli altri cosa devono fare, ma essere insieme, condividere cammini ed esperienze;
8.     non si lamenta né si vittimizza per le fatiche e gli ostacoli (la zizzania) ma accetta la gradualità e la parzialità delle realizzazioni;
9.     suscita simpatia e amicizia attorno a sé;
10.         esprime gioia e vitalità nella liturgia celebrata nella bellezza non esteriore e formale, ma che nasce dall’essere preghiera vissuta e partecipata da tutto il popolo.
Sono elementi nuovi e decisivi.
La comunità dei credenti non è una struttura che deve avere al suo centro la preoccupazione di organizzarsi, conservarsi, gestirsi, amministrarsi e sviluppare la propria influenza. Muore se parla sempre di sé e della propria organizzazione e non del mondo che attende che gli porti il Vangelo: “Siate ovunque portatori della Parola di vita nei nostri quartieri, nei luoghi di lavoro e dovunque le persone si ritrovino e sviluppino relazioni. Voi dovete andare fuori. Io non capisco le comunità cristiane che sono chiuse, in parrocchia. … Nel Vangelo è bello quel brano che ci parla del pastore che, quando torna all’ovile, si accorge che manca una pecora, lascia le 99 e va a cercarla, a cercarne una.. Ma, fratelli e sorelle, noi ne abbiamo una; ci mancano le 99! Dobbiamo uscire, dobbiamo andare da loro! In questa cultura – diciamoci la verità – ne abbiamo soltanto una, siamo minoranza! E noi sentiamo il fervore, lo zelo apostolico di andare e uscire e trovare le altre 99? ... È più facile restare a casa, con quell’unica pecorella! È più facile con quella pecorella, pettinarla, accarezzarla… ma … il Signore ci vuole pastori, non pettinatori di pecorelle; pastori! E quando una comunità è chiusa, sempre tra le stesse persone che parlano, questa comunità non è una comunità che dà vita. È una comunità sterile, non è feconda. La fecondità del Vangelo viene per la grazia di Gesù Cristo, ma attraverso noi, la nostra predicazione, il nostro coraggio, la nostra pazienza.” (Discorso al convegno ecclesiale Diocesi di Roma, 17 giugno 2013).
Cerca non la sicurezza di essere nel giusto, ma accetta il rischio di sbagliare, pur di essere segno di novità e portatrice di Vangelo: “Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!  Pensate anche a quello che dice l’Apocalisse. Dice … che Gesù è alla porta e chiama, chiama per entrare nel nostro cuore (cfr Ap 3,20). Questo è il senso dell’Apocalisse. Ma fatevi questa domanda: quante volte Gesù è dentro e bussa alla porta per uscire, per uscire fuori, e noi non lo lasciamo uscire, per le nostre sicurezze, perché tante volte siamo chiusi in strutture caduche, che servono soltanto per farci schiavi, e non liberi figli di Dio?” (discorso alla veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013).
La Chiesa non è il posto dove ci troviamo bene fra noi, ma dove sempre si sente la mancanza di chi non c’è ancora. “In questa “uscita” è importante andare all’incontro; questa parola per me è molto importante: l’incontro con gli altri. Perché? Perché la fede è un incontro con Gesù, e noi dobbiamo fare la stessa cosa che fa Gesù: incontrare gli altri.” (discorso alla veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013)
La commozione di Gesù fa uscire all’aperto
Per concludere vorrei aggiungere una notazione: dove si trova la forza di propulsione che spinge ad uscire e affrontare il “mare aperto” del mondo per gettare le reti del Vangelo. Non basta solo una decisione e la forza di volontà, né aver capito e progettato tutto bene. Non si tratta di fare di più e meglio.
Matteo racconta che Gesù: “Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore.” (Mt 9,36). È la compassione e la commozione di Gesù che ci permette di vedere e comprendere la necessità di uscire per andare incontro agli altri. Il Vangelo di Giovanni dice che è Gesù stesso che ci spinge a uscire: “egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori.” (Gv 10,2). Ci chiama ciascuno per nome, cioè sapendo chi siamo, come siamo fatti, ciascuno con i suoi difetti e debolezze, ma non per questo rinuncia a mandarci in giro per renderci conto di come la gente vive e per volergli bene proprio per questo. Gesù non sceglie quella gente perché piena di buona volontà o ricca di capacità, ma proprio perché stanca e sfinita, disorientata, problematica, poveraccia e bisognosa.
L’uscita allora è una vocazione di Gesù a sentire compassione per i più poveracci, periferici e messi male, come i poveri,  ma anche a saper riconoscere dietro le facciate decorose di chi sta bene tanta umanità sofferente e debole, infragilita dalla vita senza senso, svuotata di sentimenti autentici.

È solo la compassione che rende pastoralmente intelligenti, organizzati, cioè capaci di comunicare il Vangelo. Non i piani fatti a tavolino né i progetti pastorali ben organizzati, nemmeno una cultura o abilità personali, ma un cuore sensibile e vulnerabile nell’incontro con tutti. 

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