sabato 2 maggio 2020

Sesta lettera su questo tempo di quarantena - 30 aprile 2020






Terni, 30 aprile 2020

Cari amici,
viviamo questo tempo liturgico pasquale animati da sentimenti di speranza, ancora con il cuore pieno della gioia della resurrezione di Cristo. Come dicevamo a Pasqua: “Nel buio di quelle giornate di violenza e morte Maria Maddalena e le donne hanno conservato la capacità di essere una luce di speranza, e di preoccuparsi di un altro, Gesù morto e sepolto. Per questo esse furono le prime testimoni della resurrezione del Signore, che cioè la sua vita non era finita, ma era stata resa più forte della morte dall’amore del Padre.”
Gli sviluppi di questi ultimi giorni ci fanno ben sperare circa l’evoluzione della pandemia, anche se dobbiamo continuare ad agire ancora con molta prudenza per evitare una recrudescenza del contagio. Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sul tempo che viviamo per provare a cogliere alcuni messaggi importanti che ci giungono da esso e, a partire da questi, interrogare la Scrittura perché illumini con la sua sapienza la nostra vita di oggi.

Tutto andrà bene!”
In queste settimane si è spesso sentito dire che niente tornerà ad essere come prima, che gli uomini hanno compreso il valore, prima dimenticato, delle relazioni umane e di una solidarietà più stretta, che il mondo che ci attende sarà migliore, come purificato dalla pandemia che starebbe svolgendo un ruolo rigeneratore degli animi.
È certamente vero che tanti esempi di sacrificio e dedizione ci hanno positivamente impressionato, ed hanno sviluppato in tanti una coscienza, prima smarrita, del fatto che eseguire coscienziosamente il proprio compito porta buoni frutti, i quali, se sono per il bene comune e non solo finalizzati esclusivamente a se stessi, aggiungono un valore superiore al proprio agire, direi religioso. È il caso, ad esempio, dell’ondata di simpatia e gratitudine per i medici, i sanitari ed altre categorie di lavoratori che si è ampiamente manifestata in questi giorni. Un motto diffuso e condiviso riassume questi e altri sentimenti ed è esposto su balconi e finestre: “Tutto andrà bene!”
È un’espressione sintetica delle nostre speranze, un augurio che incoraggia e ci aiuta ad affrontare le evidenti difficoltà dell’oggi.
Ma se questo augurio è certamente sincero e positivo, non bisogna allo stesso tempo illudersi che basti vivere una situazione di pericolo globale e forte crisi collettiva, come l’attuale, perché automaticamente l’uomo ne esca migliorato. Le esperienze passate ci hanno dimostrato come in tanti analoghi frangenti purtroppo non è stato così. Gli eventi storici di portata globale portano sì ad evoluzioni prima inimmaginabili, ma non sempre di segno positivo. Non dico questo per venare di pessimismo un panorama che sembra invece poter volgere al meglio, ma perché credo che la sapienza umana e quella della fede ci insegnano come la storia non proceda per meccanismi automatici o spontanee evoluzioni naturali, ma secondo le scelte e le decisioni degli uomini che la indirizzano. E se un tempo tali scelte erano nelle mani di poche persone influenti oggi, che siamo in un’epoca di globalizzazione e di facile e rapida diffusione delle informazioni, il comportamento dei singoli ha un’inedita rilevanza, in un senso come nell’opposto. Per questo l’azione e l’esempio anche di piccoli gruppi di persone influisce sul sentire e sui comportamenti di molti e lascia un segno notevole. Pensiamo al caso, noto a tutti, dell’appena adolescente Greta Thunberg e del processo globale di crescita della consapevolezza ambientalista che essa ha innescato. Ciò aumenta in modo considerevole la nostra responsabilità personale: cioè se “tutto andrà bene” dipende da noi, dalle nostre scelte e decisioni, dal comportamento che assumeremo da ora in poi, perché è sì una possibilità auspicabile, ma tutta da realizzare.
Direi che al motto “tutto andrà bene” bisognerebbe premettere: “Io scelgo che …” e aggiungere dopo “…, e perciò farò, questo, questo e questo.” A ognuno è affidato il compito di aggiungere il contributo concreto delle azioni e dei comportamenti che ciascuno vuole apportare.
Se eliminiamo questa premessa e la prosecuzione, quell’affermazione da sola verrebbe sconfessata da una realtà che, purtroppo, la nega a ogni piè sospinto.

La tempesta
Papa Francesco nella preghiera del 27 marzo sul sagrato deserto di San Pietro paragonava la situazione del mondo di oggi all’esperienza dei discepoli descritta nel Vangelo di Marco: “Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.” (4,37)
Il papa, come già ricordavo, ha commentato così il brano: “Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.”
Francesco cioè ha voluto sottolineare con forza come la pandemia ha messo a nudo una realtà che facevamo finta di non vedere, e cioè che le nostre esistenze personali individuali sono correlate e interdipendenti con quelle di chi ci è accanto, ed anche, direi, di tutta l’umanità. Ciò significa che la mia salvezza non può prescindere e fare a meno della salvezza dell’altro: sulla barca o ci si salva tutti o si affonda tutti, nessuno può vantare una condizione privilegiata rispetto agli altri. Allo stesso modo gli sforzi per restare a galla non possono fare a meno dell’impegno di nessuno: nei momenti critici ognuno deve remare, o svuotale la barca dell’acqua, o gettare a mare la zavorra inutile, ecc…; ciascuno ha un compito necessario e la negligenza di uno mette in pericolo la salvezza di tutti, così come le energie ben spese da uno recano vantaggio a tutti.
Purtroppo il modo di affrontare l’attuale grave crisi sanitaria non è sempre stato secondo questo auspicio. Pensiamo al caso dell’altissimo numero di morti fra gli anziani delle case di riposo ed RSA. Le cronache dei giornali hanno evidenziato la scelta con la quale si è deciso deliberatamente di esporre proprio gli anziani, già così indifesi e fragili, al pericolo del contagio il quale, come era prevedibile, ha mietuto fra loro un numero altissimo di vittime. È nota infatti la scelta di trasferire proprio nelle RSA moltii pazienti covid-19 dimessi dagli ospedali, per liberare i letti e l’attenzione dei sanitari nelle sovraccariche strutture ospedaliere, a vantaggio dei pazienti covid-19 più giovani che vi affluivano numerosissimi.
Il fenomeno non è stata dunque una tragica fatalità: lo testimoniano i casi di strutture che hanno rifiutato questa proposta, accompagnata dalla possibilità ovviamente di fare profitto, e così facendo hanno preservato la vita dei propri anziani, mantenendoli al riparo dal contagio.
In sintesi si è pensato che una parte dei passeggeri della barca potesse essere lasciata affondare perché più debole e indifesa, a vantaggio dei restanti passeggeri. Ma con quelle schiere di anziani morti, e per aggiunta morti male, perché isolati, senza il conforto dei parenti e senza poter accedere ai Sacramenti, è andato a fondo anche il senso di umanità di una società che deliberatamente scarta e lascia morire i propri padri e madri, invece di circondarli della cura e protezione delle quali, a rigor di logica, dovrebbero godere i familiari più fragili. Una parte importante di ciascuno di noi è morto con loro: una società che non solo non sa mettere al sicuro i propri vecchi, ma anzi li espone deliberatamente al pericolo di morte in nome del profitto e della precedenza dei più giovani e forti è una società che seppellisce con loro la propria umanità.
Le cronache ci riportano di indagini in corso sulle responsabilità di quanti hanno permesso che tutto ciò avvenisse, ma forse ancor prima andrebbe messo in discussione il fatto stesso che le persone anziane invece di trovare nelle proprie famiglie il luogo in cui invecchiare e morire con dignità, circondate dagli affetti e dalla protezione che esse sanno garantire a chi è amato, vengano confinati in strutture governate dalle leggi economiche del mercato che, come abbiamo visto anche in questo caso, valutano la vita delle persone in base ai criteri del guadagno che ne può ricavare. È l’idea che le vite delle persone anziane, isolate in strutture spersonalizzanti per trascorrere gli ultimi anni della propria vita, valgono di meno, e i tanti che oggi si mostrano sdegnati per la fine che hanno fatto i propri cari si dovrebbero interrogare sulla propria scelta di non prendersene cura personalmente, certo a costo di sacrifici e rinunce, ma facendo sì che sarebbero state risparmiate le morti evitabili di tanti padri e madri.
Ecco allora che si potrebbe declinare una prima forma del motto già prima ricordato: “Io voglio che in futuro tutto vada bene, per questo non lascerò che gli anziani invecchino e muoiano nella solitudine degli istituti.”
Analogo discorso si potrebbe fare per tante altre categorie di persone fragili e isolate, le quali già prima della pandemia erano al di fuori dei circuiti della protezione sociale e comunitaria, persone che non hanno diritti da rivendicare né forme di solidarietà spontanea e diffusa a proprio sostegno. Pensiamo ai senza casa, agli immigrati, specie se irregolari, ai lavoratori in nero e occasionali, ai nomadi. Gruppi lasciati andare alla deriva, neanche considerati membri dell’equipaggio e dei quali pochi o nessuno si è preso cura.
Sì, c’è una lezione da imparare da questa pandemia: sulla stessa barca ci siamo tutti e tutti ci salviamo, sennò tutti periremo. Quando qualcuno viene scartato e lasciato morire, un pezzo di noi muore con lui, anche se non ci accorgiamo: è la parte migliore di noi che viene meno, corrosa dall’abitudine al male.

Naufrago per amore
Il breve libro del profeta Giona (vi invito a leggerlo tutto, sono appena 4 capitoli: https://www.bibbiaedu.it/CEI2008/at/Gn/1/) narra le vicende di un uomo ribelle e bizzoso. Anche in esso si racconta di una nave colta dalla tempesta. Giona vi era salito per fuggire verso “Tarsis, lontano dal Signore” il quale lo aveva chiamato ad annunciare la sua Parola alla grande città di Ninive. Ribelle all’invito, Giona cerca salvezza su una nave che lo porti lontano, al riparo da quell’impresa faticosa e rischiosa in una città straniera, ostile, dove la malvagità degli abitanti era “salita fino a Dio”.
Tutti noi all’inizio di questa pandemia abbiamo avvertito come anche le nostre città, come Ninive, fossero divenute all’improvviso straniere e ostili. Dietro le persone e i luoghi che prima ci erano familiari si annidava ora la nuova minaccia oscura del contagio. La città di cui eravamo abituati a frequentale le strade e le piazze ha così assunto un aspetto diverso, capace di incuterci timore. È stato immediato e naturale cercare riparo, porci al sicuro da questa nuova e inedita minaccia. Fuggire lontano, salire come Giona sulla nave che in un viaggio da fermi ci traghettasse al sicuro in un tempo migliore nel quale il pericolo fosse passato.
Le nostre case sono diventate queste navi e spesso al loro interno le uniche voci che giungono sono quelle di internet e della TV, piene di notizie allarmanti e ansiogene, di immagini che, alla ricerca di audience, puntano a suscitare emozioni forti e scalpore. Sì perché i media da un lato ci illudono di avvicinarci alla realtà, mostrandocene a volte con crudezza gli aspetti più scabrosi e intimi, ma allo stesso tempo rendono tutto lontano, quasi irreale, facente parte di un universo dove le nostre mani non possono giungere e per i quali sappiamo già in partenza che non possiamo fare nulla. La TV infatti non punta a suscitare sentimenti, i quali possono generare azioni concrete, ma piuttosto emozioni, che rimangono nel limbo artificiale del proprio spazio psichico, scatenando tempeste emotive che si svolgono però tutte al nostro interno. Lo schermo, per sua definizione, è un diaframma che pur mostrando separa e allontana la realtà che rappresenta.
Così è accaduto che anche le nostre navi, che dovevano metterci al sicuro, si sono trovare, al pari di quella di Giona, sbattute dalla tempesta: “il Signore scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare una tempesta così grande che la nave stava per sfasciarsi.
A questo punto il libro di Giona ci offre uno squarcio inaspettato dell’animo del profeta. Egli si rende conto che la causa della tempesta nella quale lui, assieme ai compagni di viaggio, si trova è nel suo tentativo di fuga. A nulla gli è valso cercare di porsi al sicuro, lontano dalla responsabilità affidatagli da Dio di combattere con le armi del Signore, cioè l’annuncio della sua Parola, la battaglia contro il male nella grande città. Il male infatti per sua natura è pervasivo, capace di minacciare ovunque le vite di tutti, non c’è luogo sicuro e libero dal suo influsso. Giona sceglie allora di assumersi la responsabilità di una lotta che sembra impari e disperata: “Egli disse loro: Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia." Che speranza ha di salvarsi da solo nel mare in tempesta? Pressoché nulla, ma ora la priorità di Giona è diventata un’altra: mettere in salvo gli altri, e non se stesso.
Proprio per questo, all’improvviso, tutto cambia: “Quegli uomini … Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia. Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti. Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio.”
La scelta di Giona di porre fine alla sua fuga e di assumersi la responsabilità della lotta contro il male in favore degli altri impone una svolta alla situazione: la tempesta cessa, l’equipaggio della nave è salvo, ma anche Giona, pur restando nel mezzo delle onde, sperimenta la protezione avvolgente di Dio. Stando in alto mare, in una condizione non ancora del tutto serena, la scelta di Giona presa di slancio nell’urgenza del pericolo incalzante diventa più consapevole e matura basi solide nel dialogo con Dio fatto di preghiera. Si apre così una nuova fase della vita di Giona che diviene annunciatore della Parola di Dio e messaggero del suo perdono, capace di suscitare la conversione a vita nuova dell’intera città di Ninive, “città molto grande, larga tre giornate di cammino.” Per Giona è il gettarsi nelle acque in tempesta il punto di partenza dal quale si inaugura un tempo nuovo per sé e per un grande popolo, il quale ritrova le vie per tornare al Signore: “Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.”
La vicenda di Giona ci offre alcune indicazioni utili per leggere anche il nostro tempo. Come accennavo la fuga è la reazione che è venuta spontanea a tutti noi quando abbiamo sentito forte la minaccia del male. Nel nostro caso la fuga non è individuabile nelle misure di sicurezza per contenere il contagio; sarebbe sciocco e irresponsabile crederlo. È doveroso da parte nostra mettere in atto tutto ciò che è utile ad impedire la diffusione del virus. Ma la nostra fuga è innanzitutto dalla responsabilità verso gli altri. Dio non aveva chiesto a Giona di compiere un’azione disperata e di mettere a repentaglio la sua vita. Gli aveva chiesto di fare qualcosa che era per lui possibile: parlare alla gente a suo nome. Ciò che la Scrittura mette in luce infatti è che Giona non si senta interrogato dal bisogno di “centoventimila persone” minacciate dalla forza distruttiva del male che le ha contagiate e che mette in pericolo la loro sopravvivenza. Il cuore di Giona non sa avere pietà di prospettive più larghe del piccolo orizzonte della propria comodità e convenienza.
Così a noi cristiani in questo tempo di pandemia non è chiesto di sfidare il pericolo del contagio con azioni irresponsabili, ma di usare la fantasia dell’amore che può esercitare solo chi si sente responsabile di un orizzonte più largo del proprio piccolo appartamento-nave in cui è imprigionato. Ci sono misure di sicurezza che permettono di continuare ad incontrare chi ha bisogno del nostro sostegno, con i mezzi che abbiamo a disposizione, mettendo le nostre forze e capacità al servizio degli altri. Un cuore che vuole bene trova mille soluzioni pratiche intelligenti per assumersi la responsabilità di chi sta male. Un cuore affettivamente pigro invece non vuole e non sa trovare risposte nuove a situazioni nuove.
Grazie a Dio ci sono persone che hanno fatto propria questa intelligenza geniale e creativa dell’amore e hanno superato barriere apparentemente invalicabili. Pensiamo ad esempio a chi ha continuato a distribuire cibo e sostegno a chi vive per strada in città desertificate, utilizzando le opportune protezioni, o a chi addirittura si è trasferito a vivere nell’istituto per anziani nel quali lavora per non rischiare di essere portatore del contagio al suo interno. Pensiamo a quanti hanno raggiunto anziani o disabili nelle loro case per portare viveri o medicine, o a quanti hanno continuato a esprimere il loro sostegno a chi era in qualche modo affidato a sé, come ad esempio i bambini del catechismo, vicini e conoscenti soli o anziani, malati psichici, detenuti, trovando nuove forme di vicinanza, anche utilizzando i mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione. Non è stato poco, soprattutto è stato possibile, perché qualcuno ha sentito la responsabilità di chi aveva di fronte, affinché non soccombesse sotto i colpi del male che corrode, disumanizza, impoverisce nell’isolamento.
Rifiutare questa responsabilità è la fuga dei tanti Giona che ignorano la chiamata del Signore a superare se stessi, le proprie paure e pigrizie per rinascere nell’amore ad una fraternità più larga, capace di sconfiggere la forza del male.
Assumersi questa responsabilità davanti a chi sta male rende il nostro cuore più simile a quello di Dio, il quale a Giona profeta capriccioso e ribelle così descrive il proprio sentire davanti alla città che rischiava di perdersi: “io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?
Facciamo nostro lo sdegno del Signore e sentiamo anche noi impossibile “non avere pietà di Ninive”, città desertificata dal male. Se lo facciamo il Signore ci concederà la protezione e l’intelligenza per superare il muro dell’impossibilità e per far vincere sull’istinto di fuga la pace del cuore che pone in lui la sua speranza.

     Don Roberto

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