Da Giovanni XXIII a
Paolo VI, perché un Concilio?
Il
Vaticano II e la sua eredità
Il Concilio: perché oggi
occuparsi di un avvenimento di oltre 50 anni fa’?
Si potrebbe ritenere che il Concilio sia un episodio chiuso
della storia della Chiesa, una specie di capitolo di un libro che è ormai
andato avanti. A volte le immagini stesse del Concilio ci fanno vedere un mondo
che non esiste più: il papa sulla sedia gestatoria, i flabellarii e i lunghi strascichi dei mantelli cardinalizi, i volti
ieratici, l’uso del latino come lingua comune, ecc… Sembra un evento di un
mondo morto e sepolto.
In realtà esistono numerosi motivi che ci invitano a non
considerare il Concilio un capitolo chiuso della nostra storia.
Innanzitutto, è vero, esso ha ancora le forme e il volto di
una Chiesa antica e oggi superata, ma questo volto è proprio quello che il
Concilio ha cercato di rinnovare, rendendolo più giovane e meno arcigno, più
essenziale e meno barocco, più amichevole e vicino alla vita degli uomini comuni.
Allora capire in che modo, attraverso quali passaggi e quali decisioni tutto
ciò è avvenuto è il modo migliore per non restare alla superficie del fenomeno
di profondo aggiornamento che la Chiesa ha intrapreso a partire del Vaticano II
e per non farne solo una questione di “moda” passeggera. Molto più che
l’abbigliamento o le forme è cambiato tutto un mondo di idee, di modi di vivere
e sentirsi cristiani, di vedere e giudicare il mondo e gli uomini, ma tutto ciò
va capito in profondità perché divenga un patrimonio anche della nostra
generazione e di quelle successive.
In secondo luogo i Concili nella storia della Chiesa sono stati
eventi di portata epocale, che hanno condizionato profondamente la vita e il
modo di credere dei cristiani in tutti i tempi. Essi sono paragonabili alla
spina dorsale dello sterminato corpo della Chiesa, che su di essi poggia il
peso bimillenario della sua storia e della vita attuale. Un peso enorme, ma che
si muove in una articolazione complessa e ricca che il mondo di oggi richiede
ancora con maggior urgenza. Allora conoscere e rendersi conto dell’impalcatura
che sorregge tutte le membra del corpo ecclesiale ci aiuta a renderci conto delle
fondamenta su cui poggia la vita di una comunità universale, come quella
cattolica, di cui anche noi siamo parte.
Infine il Concilio è stato innanzitutto un evento in cui
possiamo avvertire con potenza il soffio dello Spirito. Si è trattato di una
primavera ricca di promesse e di buoni frutti spirituali e concreti, di cui
noi, appena 50 anni dopo, godiamo con abbondanza: pensiamo al nostro rapporto
con la Scrittura, alla liturgia rinnovata, al rapporto con il mondo, all’ecumenismo,
ecc… Potremmo dire che non siamo che all’inizio di un processo lungo e ancora
in buona parte poco esplorato. Ripercorrere il Concilio allora serve a
immetterci in questa corrente fortemente animata dallo Spirito e vivere anche
noi questa giovanile primavera spirituale, evitando così il rischio, sempre in
agguato, di rinchiuderci in un clima di pessimismo o ripiegamento su di sé.
È quello che ha voluto esprimere nel suo testamento il beato
Giovanni Paolo II, che si definiva un vescovo e un papa del Concilio:
“Stando sulla soglia
del terzo millennio «in medio Ecclesiae», desidero ancora una
volta esprimere gratitudine allo
Spirito Santo per il grande
dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l'intera Chiesa — e
soprattutto con l'intero episcopato — mi sento debitore. Sono convinto che
ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che
questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato
all'evento conciliare dal primo all'ultimo giorno, desidero affidare questo
grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a
realizzarlo. Per parte mia ringrazio l'eterno Pastore che mi ha permesso di
servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio
pontificato.”
Questo mi sembra lo spirito giusto con cui oggi provare a
capire e conoscere meglio il Concilio ecumenico Vaticano II, come qualcosa che
ci riguarda e ci interroga, come comunità e, personalmente, come singoli credenti.
Sul Concilio sono state scritte biblioteche di libri e non
basterebbe un anno intero di conferenze per approfondirne solo i principali
aspetti. Stasera, senza pretendere di essere esaustivi, vogliamo entrare in
contatto con questo Spirito di primavera conciliare delineando:
·
prima
di tutto il quadro della Chiesa e del mondo in cui si colloca il Vaticano II;
·
poi
descrivendo come si è svolto il Concilio e i suoi protagonisti principali;
·
infine
provare a coglierne l’eredità e gli interrogativi che ancora oggi ci pone.
Che bisogno c’era di un Concilio?
Il primo annuncio di un progetto di Concilio avviene il 25
gennaio 1959 in un incontro di Giovanni XXIII con alcuni cardinali della Curia
romana a S. Paolo fuori le mura. L’annuncio viene accolto con molta freddezza e
qualche timore. Non se ne avvertiva la necessità, anzi sembrava un progetto
avventato e foriero di possibili rischi. Il 18 luglio 1870 era stato proclamato il
dogma dell’infallibilità del papa ex
cathedra, cioè nelle sue proclamazioni di verità di fede, e questo si
pensava avesse reso inutile il Concilio che, nei secoli passati, era servito
proprio a ratificare solennemente e ufficialmente i dogmi di fede ritenuti
vincolanti per tutti i cattolici. L’atteggiamento e lo spirito
con cui tale annuncio fu accolto si può facilmente capire dal fatto, ad esempio, che l’Osservatore Romano,
organo ufficiale della S. Sede che ha fra i suoi compiti istituzionali proprio
quello di essere portavoce fedele delle parole del papa, il giorno successivo
nemmeno riportò le parole con cui Giovanni XXIII ne aveva dato notizia:
“Pronunzio innanzi a
voi certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di
proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione di un Sinodo
diocesano per l’Urbe e di un Concilio generale per la Chiesa universale”
Giovanni XXIII era stato eletto pochi mesi prima (il 28
ottobre 1958) come papa di transizione, anziano e umile era stato considerato
come un uomo che avrebbe portato avanti l’ordinaria amministrazione della vita
della Chiesa senza scossoni per poco tempo e senza grandi novità.
Primo elemento da sottolineare è il fatto che Giovanni XXIII
concepisce e annuncia il Concilio quando ha l’età di quasi 80 anni, smentendo
l’idea che ci si era fatti di lui. Di umilissime origini, proviene da una famiglia
di poveri contadini del bergamasco, diviene prete e sperimenta a Bergamo, come
segretario del vescovo, le durezze della vita operaia coinvolta in quegli anni
in dure lotte sindacali. Per la prima volta la Chiesa sta rendendosi conto in
quegli anni che la ricerca della giustizia la obbliga a non stare sempre dalla
parte che tradizionalmente aveva preso, cioè quella delle classi nobili o
benestanti, ma a prendere in più seria e partecipata considerazione le
aspirazioni di giustizia e libertà delle classi più umili, rurali e operaie. È
il tempo in cui si sviluppa una dottrina sociale cattolica che cerca di
delineare un progetto di società più giusta. Poi don Angelo Roncalli diviene
cappellano militare e condivide il dramma delle masse di poveri soldati mandati
al macello sul fronte della I guerra mondiale. Intraprende la carriera
diplomatica e lavora prima nel mondo difficile dell’Oriente (in Turchia) e poi
a Parigi, subito dopo la II guerra mondiale. È un uomo dalla spiritualità
profonda, di formazione tradizionale, incarna la figura del prete all’antica,
ma ha la straordinaria capacità di entrare in comunicazione “simpatica” con i
mondi e le persone con cui viene in contatto. Ha un vero e proprio culto dei
rapporti e vive la fiducia che attraverso di essi si spossa intervenire sul
corso della storia dei singoli e dei popoli. Una volta divenuto papa, Giovanni
mantiene vivo il suo spiccato senso ottimistico della storia e la fiducia di
poter vincere con la forza del bene le manifestazioni del male.
Ne è un esempio, fra i tanti, la decisione presa di ricevere la
figlia e il genero di Krusciov in visita a Roma. Si era in piena guerra fredda,
il mondo era spaccato in due fra il blocco sovietico e quello occidentale.
Giovanni però avverte che la Chiesa non può schiacciarsi su posizioni filo-
occidentali fino a confondersi con le posizioni politiche degli USA, i
principali sostenitori del blocco anti-comunista. Sa che nell’Est Europa la
Chiesa è ferocemente perseguitata, ma sa anche che le contrapposizioni muro
contro muro non offrono possibilità di superamento delle impasse. Rischia e punta tutto sul rapporto personale, non fugge né
si chiude a riccio. È un esempio di come intendeva il suo apporto con il mondo:
pur essendo stato fortemente sconsigliato, riceve quegli emissari del capo del
nemico numero uno della fede, il Partico Comunista sovietico, e gioca il suo
colloquio su un’amabilità paterna, pur non nascondendo il dolore per la
persecuzione della Chiesa.
La Chiesa che Giovanni XXIII ha ricevuto in eredità da Pio
XII è fortemente caratterizzata da elementi di pessimismo. Su questi certamente
influenzò anche la personalità di papa Pacelli, che in vecchiaia vive in un
clima di cupa amarezza. In gioventù, da nunzio a Berlino aveva visto il sorgere
e rafforzarsi del regime nazista, imperialista, razzista e anticristiano; poi a
Roma come Segretario di Stato aveva fatto esperienza dell’accerchiamento della
Chiesa stretta dall’aggressione dei regimi comunisti in Europa dell’Est, ma
anche in Italia. Poi l’occupazione nazista di Roma lo minaccia personalmente e
lo rende prigioniero in una città offesa e umiliata. È ancora recente e aperta
la ferita della cosiddetta “questione romana” (risolta nel 1929 con i “Patti
lateranensi”) con una Chiesa ridimensionata nella sua sovranità e autonomia ad
un territorio minuscolo, la Città del Vaticano, nel quale il papa vive ancora
come recluso, con rarissime uscite e pochi contatti con l’esterno. Anche al suo
interno la Chiesa vive un momento di grande tensione: all’inizio del secolo
alcuni tentativi di un nuovo approccio allo studio della Sacra Scrittura che
tenga conto dei nuovi metodi scientifici di indagine storica e letteraria,
approccio iniziato e sviluppato in ambiente protestante, vengono stroncati con
durezza, con l’accusa di voler stravolgere la fede sottoponendola al vaglio
della scienza. Si tratta della cosiddetta “crisi modernista”. Si crea per
reazione un forte movimento di diffidenza verso le espressioni della cultura
profana (storia, scienza, filologia, sociologia, psicologia, ecc…) che non
possono essere applicate alle questioni legate alla vita di fede. Si crea una
sorta di complesso di accerchiamento a cui la Chiesa reagisce con ripetute
condanne, riaffermazioni dei principi immutabili e certi della fede,
allontanamento e diffidenza verso le espressioni della cultura che non si
richiamano espressamente alla dottrina cattolica e non si sottopongono al
controllo della Chiesa. Nel 1864, ad esempio, era stato stilato il Sillabo, elenco
di ottanta proposizioni condannate come errori, che spaziavano nei diversi
campi della fede, della politica, della morale, ecc...
In
questo clima Giovanni XXIII rappresenta una novità sconvolgente. La sua fede
profonda e all’antica si fonde con il senso di curiosità e simpatia per le
espressioni umane che caratterizzano il suo approccio con tutti gli
interlocutori.
Egli
così si esprime a questo proposito nel discorso di apertura del Concilio:
“Spesso infatti avviene … che ci
vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la
religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente
giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di
vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si
confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino
al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia,
che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto
procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta
libertà della Chiesa.
A Noi sembra di dover risolutamente dissentire
da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi
incombesse la fine del mondo.
Nello stato presente degli eventi umani, nel
quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da
vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi
successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro
aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane,
per il bene della Chiesa.”
Il sogno di papa Giovanni di un Concilio e la difficoltà a
realizzarlo
Giovanni XXIII desidera convocare tutta a Chiesa del mondo
per riflettere insieme sulla realtà presente e, innanzitutto, coglierne “i
segni dei tempi”, espressione molto significativa che utilizza nella bolla di
indizione del Concilio:
“Queste dolorose cause
di ansietà si configurano alla nostra considerazione come un motivo per
richiamare la necessità di vigilare e rendere ognuno cosciente dei suoi doveri.
Sappiamo che la visione di questi mali deprime talmente gli animi di alcuni al
punto che non scorgono altro che tenebre, dalle quali pensano che il mondo sia
interamente avvolto. Noi invece amiamo riaffermare la Nostra incrollabile
fiducia nel divin Salvatore del genere umano, che non ha affatto abbandonato i
mortali da lui redenti. Anzi, seguendo gli ammonimenti di Cristo Signore che ci
esorta ad interpretare "i segni dei tempi" (Mt 16,3), fra tanta tenebrosa caligine scorgiamo indizi non
pochi che sembrano offrire auspici di un’epoca migliore per la Chiesa e per
l’umanità.”
A partire da questi segni Giovanni vuole ripartire per ridare
fiducia e speranza al mondo annunciando ad esso il Vangelo nel modo in cui esso
lo possa ricevere e accogliere per riaprire una speranza e una prospettiva per
il futuro dell’umanità intera:
“Noi, fin da quando abbiamo
iniziato il supremo Pontificato … abbiamo reputato nostro impellente dovere di
rivolgere il pensiero, riunendo le forze di tutti i Nostri figli, a fare in
modo che la Chiesa si dimostrasse sempre più idonea a risolvere i problemi
degli uomini contemporanei. Per questo motivo, come obbedendo ad una voce interiore
e suggerita da una ispirazione venuta dall’alto, abbiamo giudicato essere ormai
maturi i tempi per offrire alla Chiesa cattolica e a tutta la comunità umana un
nuovo Concilio Ecumenico che continuasse la serie dei venti grandi Concili, che
hanno ottimamente contribuito nel corso dei secoli all’incremento della grazia
celeste negli animi dei fedeli e al progresso del cristianesimo.”
All’inizio dei lavori, preparati lungamente da commissioni di
studio, sembrò prevalere il desiderio di limitare il ruolo del Concilio ad una rapida
e acritica accettazione degli schemi di documenti precedentemente preparati
dagli esponenti della Curia romana. In essi si era cercato di presentare una
sintesi delle condanne delle dottrine da rifiutare e una riaffermazione dei
principi sempre validi della tradizione. Si desiderava che il Concilio fosse
una ratifica più autorevole di quanto già durante i pontificati immediatamente
precedenti si era andato affermando in quanto a dottrine e condanne.
Dopo un primo periodo di disorientamento prevalse una linea
diversa. I vescovi convenuti da tutto il mondo pretesero e ottennero di poter
discutere ampiamente e liberamente i temi che ritenevano centrali per la vita
della Chiesa universale, giungendo ad un rifiuto integrale degli schemi
precedentemente elaborati e alla creazione di nuovi testi frutto di un ampio
dibattito, espressione del contributo di tutti.
Questo orientamento rispondeva all’esigenza esposta fin
dall’inizio da Giovanni XXIII:
“Lo scopo principale di
questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della
dottrina… Per questo non occorreva un Concilio… E’ necessario che questa
dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia
approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo.”
La celebrazione del Concilio:
Il Concilio fu un evento di una eccezionalità storica. Di per
sé esso è uno strumento di governo della Chiesa che riveste un ruolo di suprema
importanza: è l’organo più autorevole esistente e le sue decisioni sono
universalmente valide. Esso è convocato dal Papa e raccoglie tutti i vescovi.
Al Vaticano II, ventesimo Concilio della bimillenaria storia della Chiesa,
parteciparono per la prima volta anche uditori non cattolici (i delegati
fraterni ortodossi e protestanti), laici anche donne, oltre a esperti teologi,
fra i quali anche l’attuale papa Benedetto XVI, che allora era un giovane
teologo. Per la prima volta convenivano a Roma vescovi da tutto il mondo. Erano
oltre 2000, di nazioni e popoli precedentemente mai presenti in un Concilio.
Era l’immagine concreta della realtà universale della Chiesa. Per i vescovi
stessi fu un’esperienza sconvolgente. Per lo più abituati ad una dimensione
locale, si trovavano proiettati in una dimensione realmente cattolica, a farne
esperienza, a doversi misurare con la complessità e molteplicità delle culture
e dei riti, delle lingue e delle sensibilità, uscendo dall’autoreferenzialità
tipica di chi si muove in un mondo piccolo. Dovettero imparare a dialogare con
modi di vedere la chiesa e il mondo molto diversi, a mettere in discussione i
propri giudizi accettando di confrontarsi con realtà ed esperienze pastorali
diversissime fra loro. Questo ha dato luogo a reazioni diverse e contrastanti,
ma ormai la complessità e la molteplicità erano dimensioni entrate a far parte
della dialettica interna della Chiesa in modo irreversibile. Le differenze sperimentate
hanno fatto scoprire il modo per divenire complementari e non più conflittuali,
non era più possibile pensare alla Chiesa ignorando l’altro.
Anche al mondo esterno la Chiesa ha mostrato un volto
inedito. Per la prima volta si conoscevano realtà lontane e se ne è potuto
apprezzare lo spessore cristiano e umano. Si sono riscoperte, ad esempio, le
realtà assai poco note delle Chiese Orientali, che nel Concilio hanno giocato
un ruolo decisivo, offrendo un contributo importante per la riforma liturgica,
l’ecumenismo e i rapporti con le altre religioni. Per anni i giornali hanno
parlato delle questioni dibattute nel Concilio rendendo più familiari, o almeno
noti, temi di cui prima il grande pubblico ignorava perfino l’esistenza.
L’immagine ha avuto un grande impatto, anche per l’uso della televisione, in
tutti i paesi del mondo.
Il Concilio è durato tre anni (ottobre 1962-dicembre 1965),
in quattro diverse fasi intercalate da intervalli durante i quali i vescovi
tornavano nelle loro diocesi, per un totale di 168 assemblee di circa 1000 ore
di lavoro complessive. Sono stati prodotti i seguenti documenti:
·
Quattro Costituzioni (Sacrosanctum Concilum sulla
liturgia, Lumen Gentium sulla Chiesa,
Dei Verbum sulla Rivelazione, Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo);
·
nove Decreti
(sui mass media, sulle Chiese Orientali, sull’ecumenismo, sui vescovi, sui
religiosi, sulla formazione sacerdotale, sui laici, sulle missioni, sui
presbiteri);
·
tre Dichiarazioni (sull’educazione cristiana, sulle religioni non cristiane, sulla libertà
religiosa)
·
alcuni Messaggi al mondo.
L’eredità del Concilio
È molto difficile, forse impossibile, fare un bilancio del
Concilio. Come tutti i grandi eventi storici solo con il passare del tempo se
ne colgono meglio le luci e le ombre, gli aspetti positivi e quelli negativi.
Ma è anche impossibile giudicare con criteri puramente sociali o politici la
portata di un evento che ha avuto principalmente una dimensione spirituale e di
fede. In questo senso ne sono state fatte ricostruzioni e tirati giudizi molto
diversi: pensiamo ad esempio al sorgere di movimenti integralisti che hanno
fatto proprio del rifiuto del Concilio Vaticano II la loro bandiera
identitaria, come nel caso del movimento ultraconservatore dei lefebvriani.
La celebrazione del Concilio è stata contrassegnata da un
clima di entusiasmo e passione. Si è sognato molto, in senso positivo, si è
sperimentata la forza della Chiesa che, quado è unita e coraggiosa, può
superare anche gli ostacoli apparentemente più insormontabili e proiettare lo
sguardo e il cuore molto lontano, guardando al futuro con fiducia e speranza.
Si è sperimentata la forza della preghiera e della fede che anima la storia e
la trasforma dal di dentro.
La prima grande eredità dunque è stata forse proprio questa: la vittoria sul
pessimismo, introverso e autoreferenziale, per scoprire l’ottimismo
dell’estroversione di una realtà che proprio perché si riscopre più umana e
quindi più debole, ha più fiducia nell’affidarsi alla forza del Vangelo per combattere
i mali del mondo e proporre la fede. Si è riscoperto il bisogno che i cristiani
scendano in profondità nella loro esperienza di fede scoprendosi fragili e
indifesi da strutture e corazze, ma, proprio per questo, testimoni molto più
efficaci dell’annuncio dei salvezza del Signore. Prima, difronte al mondo, si
era abituati a diffidare e condannare, a difendersi aggredendo, ora lo si conquista
con la forza dell’amore, della simpatia e dell’amabilità.
Una seconda grande conquista è stata il superamento della falsa
contrapposizione fra conservatori e progressisti. Ancora oggi si vive la
tentazione di vivere questa logica nella Chiesa. Il Concilio ha dimostrato che
il vero conservatore, colui cioè che vuole non perdere nulla dell’annuncio di
salvezza del Vangelo e della tradizione, non può nascondere per paura il
talento ricevuto ma deve spenderlo, rischiando di vivere nel mondo e per il
mondo, confrontandosi con la novità e il cambiamento assunti come elementi
positivi e di vitalità e non come pericoli da rifuggire. Non a caso il papa
Paolo VI che condusse la seconda parte dello svolgimento del Concilio, dopo la
morte di Giovanni XXIII, e il dopo Concilio parlava di “aggiornamento della
Chiesa” come dell’atteggiamento positivo da adottare nei confronti delle novità
del mondo moderno. D’altro canto il vero progressista o innovatore non è colui
che segue le mode del mondo o insegue il consenso, ma colui che si àncora alla
solida base della Scrittura e della tradizione della Chiesa per vivere con
libertà la fantasia dell’amore che libera dalla paura e dalle chiusure a
riccio. Insomma il Concilio ha rinnovato profondamente la Chiesa, ma dandole un
volto più antico, che, paradossalmente, assomiglia di più a quello di Gesù e
degli apostoli proprio perché si incarna nell’uomo e nella donna di oggi in
ricerca di salvezza.
Infine forse l’elemento più decisivo recuperato dal Concilio è stato far
rientrare la storia nella vita della Chiesa. Per troppo tempo infatti si era
vissuti nell’illusione di poter fisare in un tempo e in una certa civiltà, come
ad esempio quella medioevale, l’esempio di perfetta realizzazione della civiltà
cristiana (un fenomeno che nel XIX secolo prese il nome di “cattolicesimo
intransigente”, in contrapposizione con quello “liberale”). Questo aveva
portato ad una idealizzazione di quel tempo e della sua forma di società, dei
rapporti fra potere politico e religioso, delle espressioni devozionali, della
filosofia, della teologia, della morale. Tutto il tempo successivo era visto
come una progressiva decadenza. A parte il fatto che è tutto da dimostrare che
il medioevo rappresenti un esempio di perfetta società cristiana e, più in
generale, se una certa epoca possa essere mai assunta a modello di perfezione,
di certo un tale presupposto portava a vivere con disprezzo e antipatia il
progresso storico che proponeva nuovi modelli sociali, di comportamento e nuovi
strumenti di pensiero e scientifici. Sono evidenti le conseguenze di un tale
atteggiamento: arroccamento in un bastione difensivo, rifiuto della modernità,
condanna e disprezzo per l’uomo contemporaneo, attaccamento quasi morboso a
schemi anacronistici e superati, anche nel modo di pensare e di riflettere sul
mondo e sulla fede.
Il Concilio ha spazzato via questi atteggiamenti, rimettendo
al centro la dimensione storica della fede, vissuta prima da un popolo chiamato
in una certa epoca storica e nei modi allora possibili, e della salvezza,
annunciata da un Dio fattosi uomo e che quindi ha assunto la dimensione storica
inseparabile dalla vita umana. Questo recupero della dimensione storica ha
restituito alla Chiesa la possibilità di incidere profondamente nella realtà
dei popoli e degli individui e di entrare in un dialogo proficuo con le civiltà
e le culture, anche quelle lontane dalla fede, per annunciarvi il Vangelo.
Paolo VI si trovò di fronte il difficile compito di
accompagnare la Chiesa a vivere l’eredità del Concilio, con esiti a volte
straordinari e a volte problematici.
Questa però non è solo storia del passato. Anche noi ci
troviamo di fronte tutte intere queste sfide, anche perché sono le sfide di
come essere discepoli del Signore e testimoni del Vangelo all’uomo di oggi:
·
vincere
il pessimismo autoreferenziale con l’ottimismo della fede vissuta nella
libertà;
·
vincere
una falsa ricerca di essere moderni e “accettati” o, al contrario, di giudicare
sentendosi saccentemente distaccati e superiori;
·
porsi
il problema della mediazione e trasmissione della fede nel contesto storico in
cui viviamo, nei rapporti, nella cultura, nel modo di vivere e sentire dei
nostri vicini, per passare dall’autoreferenzialità all’incontro.
Sono sfide epocali, sempre valide, anche per noi. Coglierne
la portata e assumercene la responsabilità ci permette di vivere anche noi la
primavera dello Spirito che il Concilio ecumenico Vaticano II ha inaugurato per
la Chiesa del nostro tempo.