Meditazioni di Quaresima su Abramo
II incontro, 19 marzo 2025
Da Abramo a Israele, un'identità “migrante”
che genera prassi di accoglienza
Abramo un uomo in viaggio
Tra i diversi aspetti che caratterizzano
una figura così imponente come Abramo emerge quello della mobilità, intesa tanto come disponibilità a spostarsi da un luogo
all’altro quanto in senso figurato, ovvero come quella duttilità che si
concretizza nella disponibilità a rivedere i propri progetti, persino in modo
radicale, e a plasmare la propria volontà su quella di Dio, uscendo da
abitudini, tradizioni, convinzioni.
La vicenda di Abramo riportata nel libro
della Genesi può essere letta interamente sotto la cifra della migrazione e della mobilità nel senso appena specificato del termine, come appare
chiaro fin dalle prime battute che inquadrano una serie di spostamenti che
coinvolgono la famiglia paterna. Se ne può avere una percezione concreta guardando
con attenzione all’elenco dei discendenti di suo padre Terach: “Questa è la
discendenza di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran; Aran generò Lot. Aran
poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei
Caldei. Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la
moglie di Nacor Milca, che era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. Sarài
era sterile e non aveva figli. Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot,
figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài sua nuora, moglie di Abram
suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan.
Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. La vita di Terach fu di
duecentocinque anni; Terach morì a Carran.” (Gn 11,27-32).
Questo testo rompe lo schema tipico delle
genealogie, solitamente laconico ed essenziale, per introdurre diverse
informazioni sui personaggi citati. Tra queste informazioni, una risulta assai
rilevante ai fini della tematica che stiamo sviluppando: infatti al v. 31 viene
detto che Terach lasciò insieme alla sua famiglia la propria città di origine –
Ur dei Caldei – alla volta della terra di Canaan, anche se il viaggio sembra
arrestarsi nella città di Carran, tra il Tigri e l’Eufrate.
Che non si tratti di un dettaglio
secondario viene confermato dal fatto che la circostanza della migrazione della
stirpe di Terach viene rievocata da Dio stesso in un contesto solenne quale
quello dell’alleanza di Gn 15 come un fatto riconducibile alla sua sovrana
decisione: “Io ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei…” (v. 7); lo stesso concetto viene ripreso e ribadito da Dio nel
libro di Giosuè, sempre in un contesto di alleanza: “…Io trassi il vostro
padre Abramo di là dal fiume e lo feci andare per tutta la terra di Canaan…”
(24,3); ancora, l’accorata supplica dei leviti riportata in Ne 9 riconosce in Dio
l’ispiratore del viaggio di Abramo: “Sei tu, Signore, il Dio che ha scelto
Abramo e l’hai fatto uscire da Ur dei Caldei…” (9,7). Il racconto biblico,
dunque, presenta Dio come l’ispiratore di tale migrazione, attribuendovi in tal
modo un’importanza fondamentale: la decisione di Terach di dirigersi verso
Canaan con il proprio clan ha origine nel progetto divino sulla storia umana, e
tale decisione si configura come il primo passo del viaggio che Dio chiederà ad
Abramo di intraprendere.
Il resto della storia di Abramo si snoda
lungo una direttrice in cui il percorso geografico corrisponde a quello
interiore. Il primo incontro con Dio (cf. Gen 12,1-6) evidenza la sua capacità
di mettersi in discussione e di rendersi disponibile ad intraprendere – o a
riprendere, secondo quanto abbiamo detto – quel viaggio che lo porterà ad
abbandonare quella che era divenuta la sua patria, Carran, per dirigersi con
decisione risoluta verso una meta ignota, fidandosi unicamente delle parole di
un Dio che doveva ancora imparare a conoscere: “Il Signore disse ad Abram:
«Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò.
Farò di te una grande nazione
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione.
Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò,
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra».
Allora Abram partì, come gli aveva
ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni
quando lasciò Carran. Abram prese la moglie Sarài e Lot, figlio di suo
fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone
che lì si erano procurate e si incamminarono verso la terra di Canaan.
Arrivarono nella terra di Canaan e Abram la attraversò fino alla località di
Sichem, presso la Quercia di Morè. Nella terra si trovavano allora i Cananei.”
Il viaggio di Abramo non rappresenta
dunque solo uno spostamento fisico da un luogo all’altro ma assume i contorni
di una migrazione interiore, che lo conduce ad abbandonare il proprio
modo di pensare e di concepire i fondamenti della propria esistenza e del
proprio agire per rileggerli in una chiave completamente nuova, dettata dalla
volontà di Dio e caratterizzata dall’imprevedibilità del suo agire nelle vicende
umane. Le prime battute del racconto della chiamata di Abramo (Gn 12,1)
contengono numerosi elementi di riflessione: “Vattene dal tuo paese, dalla
tua famiglia e dalla casa di tuo padre…”. Egli è invitato ad abbandonare
tutto ciò che costituiva per lui una sicurezza. ciò che potremmo definire la protezione
familiare, la tradizione e la sua stessa identità ad essa legata, per
abbracciare un futuro dai contorni indefiniti e perciò minacciosi.
Ma è soprattutto l’episodio riportato in
Gn 22 noto come “il sacrificio di Isacco” a rappresentare l’apice del cammino
interiore che Abramo è chiamato a compiere: proprio nel momento in cui aveva
creduto di veder realizzata la più improbabile tra le promesse che Dio gli
aveva fatto, ovvero quella di una discendenza, gli viene ordinato di immolare l’unico
figlio.
Anche in questo caso la partenza per un
viaggio non indifferente per recarsi al luogo stabilito da Dio per il sacrificio
richiede uno spostamento fisico ma anche un ancor più impervio “viaggio
interiore”: “[Dio] Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami,
Isacco, va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che
io ti indicherò». Abramo si alzò di buon mattino, sellò l'asino, prese con sé
due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l'olocausto e si mise in
viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò
gli occhi e da lontano vide quel luogo.” (Gn 22,2-4) Dio gli ordina di
partire verso il territorio di Moria, e il racconto ci informa che il viaggio
si protrae per tre lunghi giorni di cammino. Abramo si dispose a compiere
quello che fu senza dubbio il comando più gravoso ricevuto da Dio: ma fu
proprio questa sua rinnovata disponibilità a lasciarsi condurre per l’impervio
sentiero, sia fisico che spirituale, dell’obbedienza a Dio che gli valse una
discendenza che non conosce numero.
La memoria della storia passata
costruisce l’identità del popolo
Dimenticare il passato è un motivo di perdita di
identità e di senso. Ce lo dice la Scrittura, fin dall’inizio della storia
d’Israele.
Ne è un esempio significativo la vicenda della
famiglia di Giacobbe, composta da una settantina di persone, le quali per
sfuggire a una pesante carestia si era trasferita in terra d’Egitto: “I tuoi
padri scesero in Egitto in numero di settanta persone; ora il Signore, tuo Dio,
ti ha reso numeroso come le stelle del cielo.” (Dt 10,22); lì
aveva trovato prosperità, promovendo peraltro la ricchezza economica del paese
ospitante: “Allora Giuseppe disse ai fratelli e alla famiglia del padre:
«Vado a informare il faraone e a dirgli: «I miei fratelli e la famiglia di mio
padre, che erano nella terra di Canaan, sono venuti da me. Questi
uomini sono pastori di greggi, si occupano di bestiame e hanno portato le loro
greggi, i loro armenti e tutti i loro averi». Quando dunque il
faraone vi chiamerà e vi domanderà: «Qual è il vostro mestiere?», risponderete:
«I tuoi servi sono stati gente dedita al bestiame; lo furono i nostri padri e
lo siamo noi dalla nostra fanciullezza fino ad ora». Questo perché possiate
risiedere nella terra di Gosen». Perché tutti i pastori di greggi sono un
abominio per gli Egiziani. … Giuseppe andò a informare il faraone
dicendogli: «Mio padre e i miei fratelli con le loro greggi e i loro armenti e
con tutti i loro averi sono venuti dalla terra di Canaan; eccoli nella terra di
Gosen». Intanto prese cinque uomini dal gruppo dei suoi fratelli e li presentò
al faraone. Il faraone domandò loro: «Qual è il vostro mestiere?». Essi
risposero al faraone: «Pastori di greggi sono i tuoi servi, lo siamo noi e lo
furono i nostri padri». E dissero al faraone: «Siamo venuti per soggiornare
come forestieri nella regione, perché non c'è più pascolo per il gregge dei
tuoi servi; infatti è grave la carestia nella terra di Canaan. E ora lascia che
i tuoi servi si stabiliscano nella terra di Gosen!».
Allora il faraone disse a Giuseppe: «Tuo padre e i
tuoi fratelli sono dunque venuti da te. Ebbene, la terra d'Egitto è a tua
disposizione: fa' risiedere tuo padre e i tuoi fratelli nella regione migliore.
Risiedano pure nella terra di Gosen. Se tu sai che vi sono tra loro uomini
capaci, costituiscili sopra i miei averi in qualità di sorveglianti sul
bestiame». Quindi Giuseppe introdusse Giacobbe, suo padre, e lo presentò al
faraone, e Giacobbe benedisse il faraone. Il faraone domandò a Giacobbe:
«Quanti anni hai?». Giacobbe rispose al faraone: «Centotrenta di vita
errabonda, pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita e non hanno
raggiunto il numero degli anni dei miei padri, al tempo della loro vita
errabonda». E Giacobbe benedisse il faraone e si allontanò dal faraone.” (Gen 46,31-34; 47,1-10).
Ma le cose sono destinate a mutare: «sorse in
Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe» (Es 1,8). Con
il passare degli anni si perse la memoria di quell’immigrato che aveva
arricchito tutti con la sua speciale sapienza. Dalla dimenticanza
scaturiscono sentimenti malvagi e azioni vergognose.
Gli egiziani percepiscono la presenza degli ebrei come
una minaccia; chi aveva ricevuto lo statuto sacro dell’ospite si trasforma in
nemico. Il timore di essere sopraffatti ha una qualche giustificazione, a causa
del numero crescente di coloro che continuano a essere definiti stranieri e
perciò pericolosi; allora la paura diventa cattiva consigliera. Il faraone
suggerisce di prendere dei provvedimenti prudenziali che impediscano il
proliferare del presunto avversario: “Cerchiamo di essere avveduti nei suoi
riguardi per impedire che cresca, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai
nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese.” (Es 1,10).
Un tale decisione prese la forma di norme che
imponevano agli immigrati condizioni crescenti di servitù, con maltrattamenti e
umiliazioni, fino all’eliminazione fisica della vita nascente: “Perciò
vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati, per opprimerli con
le loro angherie, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè
Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava
e cresceva, ed essi furono presi da spavento di fronte agli Israeliti. Per
questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d'Israele trattandoli con durezza. Resero
loro amara la vita mediante una dura schiavitù, costringendoli a preparare
l'argilla e a fabbricare mattoni, e ad ogni sorta di lavoro nei campi; a tutti
questi lavori li obbligarono con durezza.
Il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle
quali una si chiamava Sifra e l'altra Pua: «Quando assistete le donne ebree
durante il parto, osservate bene tra le due pietre: se è un maschio, fatelo
morire; se è una femmina, potrà vivere». Ma le levatrici temettero Dio: non
fecero come aveva loro ordinato il re d'Egitto e lasciarono vivere i bambini. Il
re d'Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e
avete lasciato vivere i bambini?». Le levatrici risposero al faraone: «Le donne
ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da
loro la levatrice, hanno già partorito!». Dio beneficò le levatrici. Il popolo
aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli
diede loro una discendenza.
Allora il faraone diede quest'ordine a tutto il suo
popolo: «Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà, ma lasciate vivere
ogni femmina».” (Es 1,11-22).
Il fiume d’Egitto diventò allora la tomba dei neonati degli ebrei, come il
Mediterraneo è oggi diventato un immenso cimitero per migliaia di
profughi, fra cui tanti bambini.
Forse proprio per evitare il processo di
dimenticanza-disumanizzazione, nella Scrittura è espresso l’invito a ripetere
la formula: «Mio padre era un arameo errante e divenne un emigrato in terra
d’Egitto» (Dt 26,5). È una formula che esprime una identità profonda del
popolo e viene ripetuta spesso nei momenti di preghiera, e allo stesso tempo la
Bibbia chiede agli israeliti di fare memoria, assumendo spiritualmente lo
statuto dell’immigrato, perché in esso si consegna un mistero di grazia e una
via di sapiente giustizia. Lo stesso invito possiamo sentirlo rivolto a noi,
con le stesse motivazioni.
In questo modo Israele racconta la sua
storia di popolo «diverso» anche per la coscienza che il bene scaturisce
dall’accoglienza del diverso, dello straniero, dell’altro che non mi
assomiglia, non parla la mia lingua, non pratica i miei costumi, non venera la
mia divinità, come hanno sperimentato i padri in passato.
Alla visione statica di Gen 10, dove
ogni gruppo etnico è confinato nel suo proprio territorio (“Questa è la
discendenza dei figli di Noè: Sem, Cam e Iafet, ai quali nacquero figli dopo il
diluvio. I figli di Iafet: Gomer, Magòg, Madai, Iavan, Tubal, Mesec e Tiras. I
figli di Gomer: Aschenàz, Rifat e Togarmà. I figli di Iavan: Elisa, Tarsis, i
Chittìm e i Dodanìm. Da costoro derivarono le genti disperse per le isole, nei
loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie,
nelle rispettive nazioni. I figli di Cam: Etiopia, Egitto, Put e Canaan. I
figli di Etiopia: Seba, Avìla, Sabta, Raamà e Sabtecà. I figli di Raamà: Saba e
Dedan. Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. Egli
era valente nella caccia davanti al Signore, perciò si dice: «Come Nimrod,
valente cacciatore davanti al Signore». L'inizio del suo regno fu Babele, Uruc,
Accad e Calne, nella regione di Sinar. Da quella terra si portò ad Assur e
costruì Ninive, Recobòt-Ir e Calach, e Resen tra Ninive e Calach; quella è la
grande città… Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro
genealogie, nelle rispettive nazioni.”), si sovrappone ora, con Abramo che
attraversa le frontiere, per fare della sua diversità il fermento di una
benedizione universale, e le successive vicende citate, una prospettiva
dinamica e relazionale, come via per la concordia universale. Questa dimensione
e identità migrante e dinamica si contrappone anche radicalmente all’immagine
imperialista di Babele, smentita nel suo progetto unificatore dal suo clamoroso
insuccesso (Gen 11).
Identità migrante non solo subita, ma come scelta di
identità
Abramo è messo in movimento dal Signore, che gli dice:
«Va’ dalla tua patria […] alla terra che io ti indicherò» (Gen 12,1).
È vero che la migrazione era iniziata con suo padre Terach (Gen 11,31),
ma questo processo diventa una vera e propria «vocazione» solo quando viene
assunto personalmente da Abramo nella fede, come decisione apportatrice di
bene. Va notato che Abramo non lascia la Mesopotamia per ristrettezze
economiche: viene infatti segnalato che era ricco in bestiame e oro (Gen 13,2).
Nemmeno risulta che egli subisse vessazioni o minacce nel paese di origine; non
è quindi un profugo che fugge da zone di guerra e miseria. E non abbandona la
sua patria per allontanarsi dall’idolatria, dato che la terra verso cui è
indirizzato è abitata dai cananei (Gen 12,6), seguaci di divinità pagane.
Abramo è così presentato come la figura esemplare del
puro migrante, nella quale tutti i
migranti possono riconoscersi al di là delle loro specifiche motivazioni; ed è
figura non di un migrante costretto suo malgrado, ma per scelta e per ottenere
il frutto della benedizione divina. Per questo la relazione con gli altri
(popoli e individui) rimane determinata fortemente da questa notazione identitaria
migrante, in un senso come nell’altro: “Renderò grande il tuo nome e possa
tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti
malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della
terra.” (Gen 12,2-3) Il destino degli abitanti del mondo,
secondo la Bibbia, dipende dalla figura di questo migrante, Abramo, che accetta
di rinunciare al titolo di cittadino stanziale e sovrano, che acconsente a
rischiare la vita assumendo lo statuto dell’immigrato. Con lui il Signore fa
alleanza (Gen 15,7-20; 17,1-8) e accetta che attraverso di lui
riesca a determinare anche il futuro dei popoli della terra, fino alla nostra
generazione e per il futuro a venire.
I patriarchi sono figure fondative dell’identità del
popolo d’Israele, e vengono descritti come pastori alla costante ricerca di
pascoli, soggetti quindi a ripetute transumanze. Non sono però dei “nomadi”,
ma dei forestieri che si stabiliscono, dove e come possono, in un paese
straniero (di volta in volta Canaan, Aram, Egitto) in qualità di “immigrati”.
Così viene presentata l’origine di Israele, da Abramo, Isacco e Giacobbe fino
ai loro discendenti, che per quattrocentotrent’anni dimorarono in Egitto (Es 12,40).
Anzi, stando al libro del Levitico, anche quando il popolo di Dio prese
possesso del paese di Canaan venne chiamato dal Signore a concepirsi come “ospite”
in una terra che Dio rivendicava come sua proprietà: gli Israeliti erano
infatti presso di lui “immigrati e locatari” (Lv 25,23: “Le
terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete
presso di me come forestieri e ospiti.”). Diceva perciò Davide,
ripetendo una formula della tradizione orante di Israele: “Ascolta la mia preghiera,
Signore, porgi l'orecchio al mio grido, non essere sordo alle mie lacrime, perché
presso di te io sono forestiero, ospite come tutti i miei padri.” (Sal 39,13)
“Forestiero sono qui sulla terra: non nascondermi i tuoi comandi.” (Sal
119,19) “Noi siamo immigrati davanti a te e locatari come tutti i nostri
padri.” (1 Cr 29,15)
Probabilmente qualcuno dirà che nell’antichità tutto
questo era facile, perché l’ospitalità era una pratica consuetudinaria,
riconosciuta universalmente come un dovere sacro, frutto anche di quella
spontanea solidarietà che nasce quando tutti percepiscono i medesimi bisogni.
La Bibbia tuttavia smentisce questa presunta condizione irenica riguardo al
forestiero. Il racconto delle origini di Israele dice infatti che i patriarchi
furono ripetutamente infastiditi: i re locali prendevano le loro donne (Gen 12,11-20;
26,1-14); i residenti si impossessavano dei pozzi, scacciando gli immigrati che
li avevano scavati (Gen 21,25; 26,15-25); e chi entrava in una
città, come quella di Sodoma, doveva subire l’oltraggio infamante della
sottomissione violenta.
Sodoma e Gomorra sono l’emblema delle città cananee
«maledette» proprio perché hanno esercitato il sopruso invece dell’ospitalità;
ma il medesimo crimine venne perpetrato anche dai moabiti e dagli ammoniti (Dt 23,4-7),
e pure dagli israeliti nei confronti di fratelli provenienti da un’altra tribù
(Gdc 19,11-30). Una sofferenza ancora più acuta venne esperimentata
dagli ebrei immigrati in Egitto (Sap 19,13-16), ecc...
Dalla memoria nasce l’identità e le scelte della prassi
da attuare
L’amore dell’israelita credente per il forestiero non
è quindi innata bontà d’animo o consuetudine di un tempo passato, piuttosto
nasce dall’imitazione dei sentimenti di Dio, e si traduce in gesti simili a
quelli del Signore: “il Signore protegge i forestieri, egli sostiene
l'orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi.” (Sal 146,9).
Questa tematica è incisivamente espressa nel capitolo
19 del Levitico, qualche versetto dopo il passo che prescrive l’amore per il “concittadino”:
“Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma
amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore.” (Lv 19,18):
“Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo
opprimerete. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui
che è nato fra di voi: tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete
stati forestieri in terra d’Egitto.” (Lv 19,33-34) La
distinzione tra cittadino e straniero non è abolita, ma fatta emergere per
valorizzare la qualità dell’amore che rende l’altro diverso da me simile a me, attraverso
una benevola accoglienza.
Abramo quindi, capostipite e padre di tutti i
credenti, assume emblematicamente la figura del forestiero, del migrante,
proprio per significare che Dio costantemente viene incontro agli uomini che si
trovano a vivere questa condizione. Abramo è l’immigrato, ma in qualche modo
anche il Signore assume questa veste, poiché domanda di essere accolto per
portare salvezza; se è rifiutato, si produce desolazione e morte. Il Nuovo
Testamento dà particolare rilievo a questa linea. Nel Vangelo di Matteo, in
particolare, ci viene detto che Gesù si identifica con il forestiero, ospitato
o respinto: “ero straniero e mi avete accolto, … ero straniero e non
mi avete accolto” (Mt 25,35.43),
e da questa alternativa scaturisce la benedizione: “Venite, benedetti del
Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione
del mondo”, (Mt 25,34) o la maledizione eterna: “Via,
lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i
suoi angeli.” (Mt 25,41)
Non a caso, Abramo, proprio perché credente nel
Signore, proprio perché ha acconsentito ad essere senza terra, ha maturato un
cuore capace di accogliere il viandante che passava presso di lui. La città di
Sodoma offende chi cerca rifugio: “I due angeli arrivarono a Sodoma sul far
della sera, mentre Lot stava seduto alla porta di Sodoma. Non appena li ebbe
visti, Lot si alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. E
disse: «Miei signori, venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte,
vi laverete i piedi e poi, domattina, per tempo, ve ne andrete per la vostra
strada». Quelli risposero: «No, passeremo la notte sulla piazza». Ma
egli insistette tanto che vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli
preparò per loro un banchetto, fece cuocere pani azzimi e così mangiarono.
Non si erano ancora coricati, quand'ecco gli uomini della città, cioè gli
abitanti di Sodoma, si affollarono attorno alla casa, giovani e vecchi, tutto
il popolo al completo. Chiamarono Lot e gli dissero: «Dove sono
quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi, perché
possiamo abusarne!». Lot uscì verso di loro sulla soglia e, dopo
aver chiuso la porta dietro di sé, disse: «No, fratelli miei, non
fate del male! Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora
conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace,
purché non facciate nulla a questi uomini, perché sono entrati all'ombra del
mio tetto». Ma quelli risposero: «Tirati via! Quest'individuo è
venuto qui come straniero e vuol fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a
loro!». E spingendosi violentemente contro quell'uomo, cioè contro Lot, si
fecero avanti per sfondare la porta. Allora dall'interno quegli
uomini sporsero le mani, si trassero in casa Lot e chiusero la porta; colpirono
di cecità gli uomini che erano all'ingresso della casa, dal più piccolo al più
grande, così che non riuscirono a trovare la porta.” (Gen 19,1-11)
Al contrario la tenda di Abramo si apre per ricevere,
come un dono, la presenza di alcuni stranieri: “Poi il Signore apparve a lui
alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più
calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano
in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della
tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho
trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si
vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero. Andrò
a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è
ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa'
pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara,
e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All'armento
corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo,
che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme
con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava
in piedi presso di loro sotto l'albero, quelli mangiarono.” (Gen 18,1-8)
Questi misteriosi personaggi verranno visti come degli “angeli” (Gen 19,1; Eb 13,2),
una rappresentazione cioè del divino che visita gli uomini, portando un’impensabile
fecondità alla casa accogliente con la promessa della nascita del figlio (Gen 18,9-14)
e la catastrofe sulla città inospitale (Gen 19,15-29).
Il cuore, dice dunque la Bibbia, produrrà gesti di
compassione nella misura in cui custodisce la memoria della propria origine e
della propria sofferenza. Chiunque, nel volto dolente e desideroso
dell’immigrato, rivede l’immagine del proprio bisogno, diventa fratello di ogni
straniero. “Non opprimerai il forestiero: proprio voi conoscete l’animo del
forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto.” (Es 23,9)
La realizzazione
pratica dell’accoglienza del forestiero
La realizzazione pratica di una prassi
determinata dall’accoglienza al forestiero trova forme concrete stabilite e
codificate nella Bibbia, regole per la vita sociale, culturale e religiosa del
popolo. Esse investono principalmente tre ambiti: economico, della tutela
giuridica e dell’integrazione sociale e religiosa.
Il primo ambito da sottolineare è la
condivisione in ambito economico.
Nei codici dell’Antico Testamento l’immigrato viene
sistematicamente incluso fra le categorie economicamente sfavorite; è posto quindi
accanto alla vedova e all’orfano (che sono la figura di chi è privo di
sostentamento e di tutela), ed è associato al levita (il funzionario del culto
che, non possedendo terreni, viveva del sussidio fornito dai fedeli) (Dt 16,11.14;
24,11-14; 26,12 ecc.). Inserendo il forestiero nella lista degli indigenti, fra
i quali vi sono chiaramente membri del popolo ebraico, il legislatore mette
sullo stesso piano tutti i miseri, considerandoli portatori di un medesimo
diritto soggettivo: lo straniero, in quanto bisognoso, è come uno di casa, il
forestiero per origine o costumi è da considerare come tuo fratello perché è
povero.
È significativo rilevare che la legge di Israele non
raccomanda l’elemosina, pur essendo essa una pratica tradizionale nel mondo
antico e usanza non assente dal costume ebraico e cristiano (cfr Sal 112,9;
Sir 3,30; 29,12; Tb 12,9; Mt 6,1-4; Rm 15,26; 1Cor
16,1-5; 1 Pt 4,8). Di fronte a un’urgenza è ovvio che ci si aspetti
il gesto immediato del soccorso (Pr 3,28); tuttavia la Tôrah
chiede che la compassione verso la povera gente prenda forme meno occasionali e
demandata all’iniziativa individuale, e soprattutto salvaguardi la dignità di
colui che si trova nel bisogno.
La Scrittura invita allora innanzitutto a provvedere
alla difficoltà dell’indigente mediante l’istituto del prestito. Ciò può
apparire meno perfetto dell’elargizione a fondo perduto. Tuttavia facciamo
notare che in Israele anche il prestito è un atto gratuito, perché il creditore
rischia il proprio avere senza ricavarne profitto, dato che rinuncia alla
pretesa di interessi, (la gratuità del prestito è stabilito in Es 22,24;
Lv 25,35-38; Dt 23,20-21; Ez 18,8.13.17; 22,12; Pr 28,8).
Inoltre, mediante il prestito si riconosce implicitamente al prossimo la capacità
e volontà di restituire; lo si tratta così da persona responsabile, stimandolo
capace di saggezza, laboriosità e onestà, e in grado quindi di mettere a frutto
il dono ricevuto. Infine, mediante il prestito si rende più completo il ciclo
del dono, perché anche il povero, che ha ricevuto il prestito, potrà, con il
favore divino, essere un giorno in grado di restituire quello che ha ricevuto,
riconoscendo, nell’atto stesso del rendere, il beneficio di cui è stato
oggetto.
La Legge inoltre stabilisce che è sì lecito esigere
dal debitore un pegno quale garanzia della restituzione del prestito, ma tuttavia
il creditore deve comunque avere rispetto per l’indigente: non è ammesso che si
entri nella casa del povero, quasi si effettuasse un sequestro, ma si dovrà
aspettare la consegna fuori della porta (Dt 24,10-11). Il mantello dato
come caparra (segno di ristrettezza estrema, di non avere altro possesso da
consegnare in pegno) deve essere restituito al tramonto del sole, perché è la
coperta dei poveri (Es 22,25-26; Dt 24,12-13); e non è consentito
di pignorare le pietre della macina domestica, perché “sarebbe come prendere
in pegno la vita” (Dt 24,6).
Alla generosità nel prestare, a cui la Legge esorta (Dt
15,10-11), si aggiunge poi la generosità nel condonare il debito. L’insolvenza
costringeva non raramente un uomo all’asservimento suo o dei suoi figli; il
riprodursi di questa dolorosa esperienza ha indotto il legislatore a introdurre
una norma che prevede periodicamente la remissione di ogni debito: ogni sette
anni, il creditore lascerà cadere il suo diritto (Dt 15,1-3), così che
la povertà sia sradicata e la benedizione di Dio raggiunga tutti (Dt 15,4-6).
Altre disposizioni della Tôrah chiedono di
mettere una parte delle proprie risorse economiche a disposizione dei poveri, e
in particolare degli immigrati. I proventi dei campi sono, per l’antico
Israele, la prima e più fondamentale forma di ricchezza, da interpretare come
simbolo di tutto ciò che si possiede, frutto del proprio lavoro e della
benedizione divina. La Legge domanda che tali proventi non siano totalmente
accaparrati dal proprietario che se li è guadagnati con la propria fatica e
laboriosità, ma che una parte venga lasciata, quasi fosse dimenticata, nel
campo stesso, e quindi messa a disposizione dei miseri e degli immigrati.
Quando mieti, dice il precetto biblico, non
preoccuparti di prendere tutto, e non tornare indietro a spigolare; la stessa
cosa va fatta anche per la raccolta delle olive e per la vendemmia (Dt 24,19-22;
Lv 19,9-10; 23,22). Si tratta, per chi sa leggere e interpretare, di una
norma di straordinario valore simbolico. Presa alla lettera, la prescrizione
può sembrare meschina e offensiva per il povero (quasi fossero lasciati i resti
del pasto del ricco), ma, correttamente interpretata, significa che la
benedizione che Dio ha accordato al possidente deve ricadere, senza degnazioni
e con totale discrezione, anche sui poveri.
Il libro del Deuteronomio, il più sensibile allo
statuto dell’immigrato, va oltre la disciplina della condivisione nel momento
del raccolto: immagina che il proprietario abbia adesso in casa sua, nei suoi
depositi, il frutto della terra e del suo lavoro; su questo bene, che è suo, il
legislatore, a nome del Dio dei poveri, interviene per dischiudere successive
piste di elargizione.
La legge delle primizie (Dt 26,1-11)
dice che i primi proventi della terra devono essere messi in una cesta e
portati dal sacerdote, così da essere distribuiti al levita e al forestiero (v.
11). Solo se si capisce il valore accordato alle primizie si può capire quanto
sia importante e coraggiosa questa norma: si chiede infatti all’erede della
promessa di donare allo straniero i migliori prodotti del proprio terreno, i
quali tra l’altro, nel momento in cui sono raccolti e distribuiti, sono gli
unici a disposizione, dato che una qualche disgrazia potrebbe distruggere il
successivo raccolto. Il povero immigrato non è dunque colui che deve
accontentarsi dei resti lasciati nei campi: egli viene servito con le
prelibatezze che danno gioia e speranza agli stessi proprietari.
C’è poi la legge della decima, che è una
sistematica decurtazione del reddito, dato che, di tutto ciò che si è ricavato,
una parte deve essere destinata ai poveri. Una decima speciale si raccoglie
infatti ogni tre anni, ed è destinata al levita, al forestiero, all’orfano e
alla vedova (Dt 14,28-29 e 26,12-13; cfr anche Tb 1,8).
Nella Legge biblica esistono altre importanti
normative che garantiscono la tutela giuridica, il diritto dell’immigrato
nei vari settori del suo vivere e nelle diverse esigenze della sua persona.
In questo ambito l’immigrato è equiparato al cittadino: “Ci sarà per voi una
sola legge per il forestiero e per l’indigeno” (Lv 24,22). Due
sono i settori che, in particolare, meritano di essere precisati: 1) la
normativa sul lavoro; 2) il diritto del forestiero ad accedere alla
giustizia nei tribunali.
Infine il rapporto fra il popolo di Israele e gli
immigrati è caratterizzato nelle Scrittura dall’ integrazione culturale.
Di particolare valore è l’ammissione dell’immigrato
alla celebrazione della Pasqua, a patto che sia circonciso (Es 12,47-49; Nm 9,14):
si tratta di una possibilità, non di un obbligo, sulla base di una richiesta a
cui Israele deve consentire senza rinchiudersi in un isolazionismo etnico. Non
stupisce che l’immigrato voglia celebrare la festa della liberazione degli
schiavi, che il Signore ha riscattato e a cui ha offerto una legge di libertà e
di dignità.
Questo progressivo fenomeno di integrazione religiosa
sembra trovare figura ideale in un testo tardivo del Deuteronomio che,
elencando i componenti del popolo dell’alleanza nuova (quella che va oltre
l’alleanza sinaitica: Dt 28,69), vi include anche il forestiero: “Oggi voi
state tutti davanti al Signore vostro Dio, i vostri capi, le vostre tribù, i
vostri anziani, i vostri scribi, tutti gli Israeliti, i vostri bambini, le
vostre mogli, il forestiero che sta in mezzo al tuo accampamento, da chi ti
spacca la legna a chi ti attinge l’acqua, per entrare nell’alleanza del Signore
tuo Dio” (Dt 29,9-11; cfr anche 31,12). L’idea espressa qui è che il vero
Israele è quello che accoglie al suo interno il non-Israele per renderlo
partecipe della relazione con il vero Dio, della saggezza della sua Legge e
della benedizione che ne consegue.
Conclusione
Abbiamo visto come l’identità forte di Abramo come
uomo della mobilità, migrante non per necessità ma per vocazione divina, che attraversa
i confini e non ne pone agli altri, che accetta questa identità come carattere della
propria interiorità, viene come trasmessa a tutto il popolo, di nuovo non come
pura necessità, ma come tratto della propria diversità, elemento costitutivo
della memoria di sé.
Questo tratto determina il rapporto del popolo con gli
altri, popoli e individui, ne determina una identità permeabile e aperta,
diremmo oggi non nazionalista né sovranista, ma anche il proprio rapporto con
Dio e la possibilità di partecipare alla benedizione originaria che da Abramo
si allarga a tutti coloro che si fanno fedeli all’alleanza con lui, al di là
dell’appartenenza etnica.
Infine tale identità e coscienza collettiva e
personale si traduce in una prassi concreta che, come sempre accade nel
rapporto con Dio, non è pura e semplice imposizione divina di norme di
comportamento, ma indirizzi che richiedono la partecipazione e adesione personale
di ciascuno nell’attuarle, sotto la forma dell’imitazione della prassi divina
con sé e i propri padri.