venerdì 28 marzo 2025

IV domenica del tempo di Quaresima - Anno C - 30 marzo 2025

 



Dal libro di Giosuè 5,9-12

In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.

 

Salmo 33 - Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 5,17-21

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

 

Lode a te o Signore, re di eterna gloria

Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te.
Lode a te o Signore, re di eterna gloria

 

Dal vangelo secondo Luca 15,1-3.11-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Commento

 

Cari fratelli e care sorelle, la parabola ascoltata ci aiuta a comprendere il tempo della Quaresima nel quale ci troviamo, preparazione all’incontro con Gesù risorto a Pasqua.

Gesù per parlare di noi narra la storia di una famiglia. Per Dio noi siamo i suoi figli e se vuole dire qualcosa su di noi lo fa sempre a partire da questo. Non a caso quando gli apostoli chiedono a Gesù di insegnargli una preghiera lui dice: “Padre nostro che sei nei cieli…” Non dice: Signore nostro, nostro Re, Padrone, ecc…, ma “Padre nostro”, tutti gli uomini e le donne sono senza differenza figli di un unico Padre, fratelli e sorelle, tutti membri di un’unica famiglia.

Dal racconto di Gesù ci viene subito da dire che uno dei due figli è bravo ed onesto, quello che resta con il Padre e lo aiuta nel lavoro dei campi, e l’altro invece è un poco di buono. Perché lascia il Padre e se ne va lontano, e perché si fa dare la metà dei suoi beni, come se il padre fosse già morto e chiedesse l’eredità che gli spetta, terzo perché spreca tutti i soldi che il Padre gli ha dato in cose cattive.

A noi viene subito spontaneo pensare così.

Ma se seguiamo fino in fondo il racconto della storia vediamo che il Padre dei due figli non la pensa così: per lui restano entrambi figli a cui vuole bene, non riesce proprio a giudicare male né l’uno né l’altro, anzi fa di tutto per averli accanto a sé, in casa. Infatti anche dopo molto che il figlio più giovane se ne era andato continua ad aspettarlo, scruta la strada per vedere se torna e quando lo vede gli corre incontro e lo abbraccia. Ma anche con il figlio più grande, quando si accorge che non vuole entrare in casa e partecipare alla sua gioia grande esce fuori, lo supplica, cerca di convincerlo a stare con lui e il fratello tornato dopo tanto tempo. Non dimentica il primo e non vuole fare a meno del secondo.

Ma se è vero che il Padre è un vero padre e ama i suoi figli sempre e comunque, i due figli sono veri figli e amano il Padre?  

Il figlio minore certamente ha sbagliato, proprio perché giovane avrà pensato che avrebbe avuto successo, che non aveva più bisogno di nessuno, nemmeno del Padre che lo amava così tanto.

Chi di noi non ha creduto di essere forte e sicuro di sé, chi di noi non se ne è andato lontano dal padre pensando “ora faccio vedere io a tutti quanto valgo!” Le cose però non sempre vanno bene. Quel giovane pieno di sé si ritrova senza soldi, a fare una vita brutta, umiliato, affamato, isolato. Però non ha perso la speranza. Infatti racconta il vangelo che “ritornò in sé”, cioè si accorge di vivere una vita difficile, appesantita dai suoi errori e triste. Si guarda dentro con sincerità, non fa finta di niente, non dà la colpa agli altri, al destino, al caso, alle cose andate storte, ecc… come tante volte facciamo noi, ed ora che sta male si ricorda come stava bene a casa sua, con un padre pieno di amore. 

Cari amici, questo ci chiede di fare la Quaresima, e possiamo farlo se ci confrontiamo con la Parola di Dio. La Scrittura infatti ci fa capire come viviamo e le scelte che abbiamo fatto e ci fa capire a che punto della nostra vita ci troviamo, dove e perché, ci fa vedere anche quelle parti di noi che non ci piacciono.

Ma il dispiacere che la Scrittura suscita per come siamo fatti è un dispiacere di pentimento, cioè di dolore per la distanza che abbiamo preso dal bene che Dio ci vuole. La Scrittura mentre rivela il nostro peccato allo stesso tempo offre la possibilità di chiedere a Dio il perdono: nella Parola di Dio vediamo i nostri due volti: quello attuale che non ci piace, ma anche quello trasfigurato dall’amore di Dio, bello e felice. E infatti il figlio giovane pensa: “Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.

Impariamo a invocare la misericordia di Dio che, anche davanti al peccato più grave, non rinuncia a indicare la via del pentimento e del ritorno a lui e ci corre incontro come fece quel padre, ci fa ritrovare la casa, la festa, il mangiare buono.

Ma oltre a quel figlio giovane c’è l’altro figlio, che invece era rimasto col padre, ha lavorato onestamente, è stato parsimonioso e onesto. Davanti alla festa per il fratello ritornato si offende e nemmeno vuole entrare in casa. Egli accusa il Padre di essere ingiusto perché è stato cedevole col figlio nel concedergli i suoi beni, poi, una volta rientrato, non lo rimprovera aspramente come meriterebbe, anzi gli fa festa e lo tratta ancora come un figlio, invece di cacciarlo via; addirittura imbandisce per lui una tavola sontuosa. Tutto ciò offende il fratello maggiore.

Tante volte noi siamo come lui. Ragioniamo con il conteggio del dare e dell’avere e ci sentiamo in credito nei confronti degli altri e, addirittura, pure nei confronti di Dio. Elenchiamo i nostri meriti: non ho fatto nulla di male, sono onesto e rispettoso, cerco di essere giusto e restituire ciò che devo, ecc... Quanti calcoli, quanti confronti con gli altri, quanti giudizi, quante condanne e autoassoluzioni!

Questo modo di ragionare però, ci dice oggi la parabola in modo chiaro, non è quello di Dio! Dio non vuole essere giusto perchè vive la logica del perdono che è libera dai calcoli e dai giudizi. Il perdono non tira le somme, né fa giustizia, ma trasfigura chi lo riceve e chi lo offre portandoli entrambi a vivere la grande festa dell’amore.

Il giovane tornato viene rivestito come uno sposo e tutti in casa partecipano alla gioia del suo ritorno alla vita. Il figlio maggiore invece non riesce a scrollarsi di dosso lo sporco della giornata pesante di lavoro e la rabbia del torto che crede di aver subito. Egli non sa perdonare, perché non sa voler bene al fratello e al padre, e per questo non sa nemmeno gioire con loro per la famiglia ritrovata. Crede di essere giusto, ma non sa voler bene. La Quaresima è dunque il tempo opportuno per tornare al Padre e gustare la festa del figlio che ritrova casa e famiglia. Non restiamo orfani con le nostre ragioni, senza più casa né Padre.

  

Preghiere 

 

O signore Gesù che ci guidi in questo tempo di Quaresima sul cammino della conversione, illumina e scalda il nostro cuore, perché ascoltiamo e viviamo il Vangelo cercando il tuo perdono,

Noi ti preghiamo

  

O Dio che sei un padre paziente e misericordioso, accoglici con l’abito del pentimento, perché possiamo vivere nella tua casa la festa del perdono,

Noi ti preghiamo

 

Ti ringraziamo o Dio perché non disprezzi chi torna a te peccatore, ma gli corri incontro felice. Vieni incontro anche a noi e perdona tutto il male di cui ci siamo resi complici,

Noi ti preghiamo

  

Ti invochiamo o Signore Gesù, dona pace e salvezza a chi oggi è nella guerra. Soccorri chi è profugo, in fuga dalla violenza, chi è senza casa, chi ha perso familiari e amici. Perdona e converti chi oggi si arma contro il fratello e la sorella e apri presto i cuori alla riconciliazione.

Noi ti preghiamo

 

Soccorri o Padre buono tutti coloro che soffrono e sono nel dolore. Chìnati su tutti quelli che invocano il tuo soccorso e suscita in noi uno spirito generoso di solidarietà,

Noi ti preghiamo

  

Attira verso di te, o Dio nostro Padre, tutti coloro che ti sfuggono e camminano su sentieri che non portano a nulla. Mostrati loro padre buono e misericordioso

Noi ti preghiamo.

 

Guida e proteggi o Signore la tua Chiesa impegnata nel difficile compito di vivere e annunciare il Vangelo. Fa’ che lo Spirito illumini sempre il papa Francesco e lo protegga da ogni male,

Noi ti preghiamo

  

Sostieni o Dio tutti i tuoi figli ovunque dispersi, perché forti dell’amore di Cristo affrontino le difficoltà della vita con animo lieto e spirito pacifico,

Noi ti preghiamo

giovedì 20 marzo 2025

Meditazione biblica quaresimale - Da Abramo a Israele, un'identità “migrante” che genera prassi di accoglienza - II incontro - 19 marzo 2025

 

Meditazioni di Quaresima su Abramo

II incontro, 19 marzo 2025

 

Da Abramo a Israele, un'identità “migrante” 

che genera prassi di accoglienza

 

Abramo un uomo in viaggio

Tra i diversi aspetti che caratterizzano una figura così imponente come Abramo emerge quello della mobilità, intesa tanto come disponibilità a spostarsi da un luogo all’altro quanto in senso figurato, ovvero come quella duttilità che si concretizza nella disponibilità a rivedere i propri progetti, persino in modo radicale, e a plasmare la propria volontà su quella di Dio, uscendo da abitudini, tradizioni, convinzioni.

La vicenda di Abramo riportata nel libro della Genesi può essere letta interamente sotto la cifra della migrazione e della mobilità nel senso appena specificato del termine, come appare chiaro fin dalle prime battute che inquadrano una serie di spostamenti che coinvolgono la famiglia paterna. Se ne può avere una percezione concreta guardando con attenzione all’elenco dei discendenti di suo padre Terach: “Questa è la discendenza di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran; Aran generò Lot. Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei Caldei. Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la moglie di Nacor Milca, che era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. Sarài era sterile e non aveva figli. Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. La vita di Terach fu di duecentocinque anni; Terach morì a Carran.” (Gn 11,27-32).

Questo testo rompe lo schema tipico delle genealogie, solitamente laconico ed essenziale, per introdurre diverse informazioni sui personaggi citati. Tra queste informazioni, una risulta assai rilevante ai fini della tematica che stiamo sviluppando: infatti al v. 31 viene detto che Terach lasciò insieme alla sua famiglia la propria città di origine – Ur dei Caldei – alla volta della terra di Canaan, anche se il viaggio sembra arrestarsi nella città di Carran, tra il Tigri e l’Eufrate.

Che non si tratti di un dettaglio secondario viene confermato dal fatto che la circostanza della migrazione della stirpe di Terach viene rievocata da Dio stesso in un contesto solenne quale quello dell’alleanza di Gn 15 come un fatto riconducibile alla sua sovrana decisione: “Io ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei” (v. 7); lo stesso concetto viene ripreso e ribadito da Dio nel libro di Giosuè, sempre in un contesto di alleanza: “…Io trassi il vostro padre Abramo di là dal fiume e lo feci andare per tutta la terra di Canaan…” (24,3); ancora, l’accorata supplica dei leviti riportata in Ne 9 riconosce in Dio l’ispiratore del viaggio di Abramo: “Sei tu, Signore, il Dio che ha scelto Abramo e l’hai fatto uscire da Ur dei Caldei…” (9,7). Il racconto biblico, dunque, presenta Dio come l’ispiratore di tale migrazione, attribuendovi in tal modo un’importanza fondamentale: la decisione di Terach di dirigersi verso Canaan con il proprio clan ha origine nel progetto divino sulla storia umana, e tale decisione si configura come il primo passo del viaggio che Dio chiederà ad Abramo di intraprendere.

Il resto della storia di Abramo si snoda lungo una direttrice in cui il percorso geografico corrisponde a quello interiore. Il primo incontro con Dio (cf. Gen 12,1-6) evidenza la sua capacità di mettersi in discussione e di rendersi disponibile ad intraprendere – o a riprendere, secondo quanto abbiamo detto – quel viaggio che lo porterà ad abbandonare quella che era divenuta la sua patria, Carran, per dirigersi con decisione risoluta verso una meta ignota, fidandosi unicamente delle parole di un Dio che doveva ancora imparare a conoscere: “Il Signore disse ad Abram:

«Vattene dalla tua terra,

dalla tua parentela

e dalla casa di tuo padre,

verso la terra che io ti indicherò.

Farò di te una grande nazione

e ti benedirò,

renderò grande il tuo nome

e possa tu essere una benedizione.

Benedirò coloro che ti benediranno

e coloro che ti malediranno maledirò,

e in te si diranno benedette

tutte le famiglie della terra».

Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. Abram prese la moglie Sarài e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso la terra di Canaan. Arrivarono nella terra di Canaan e Abram la attraversò fino alla località di Sichem, presso la Quercia di Morè. Nella terra si trovavano allora i Cananei.”

Il viaggio di Abramo non rappresenta dunque solo uno spostamento fisico da un luogo all’altro ma assume i contorni di una migrazione interiore, che lo conduce ad abbandonare il proprio modo di pensare e di concepire i fondamenti della propria esistenza e del proprio agire per rileggerli in una chiave completamente nuova, dettata dalla volontà di Dio e caratterizzata dall’imprevedibilità del suo agire nelle vicende umane. Le prime battute del racconto della chiamata di Abramo (Gn 12,1) contengono numerosi elementi di riflessione: “Vattene dal tuo paese, dalla tua famiglia e dalla casa di tuo padre…”. Egli è invitato ad abbandonare tutto ciò che costituiva per lui una sicurezza. ciò che potremmo definire la protezione familiare, la tradizione e la sua stessa identità ad essa legata, per abbracciare un futuro dai contorni indefiniti e perciò minacciosi.

Ma è soprattutto l’episodio riportato in Gn 22 noto come “il sacrificio di Isacco” a rappresentare l’apice del cammino interiore che Abramo è chiamato a compiere: proprio nel momento in cui aveva creduto di veder realizzata la più improbabile tra le promesse che Dio gli aveva fatto, ovvero quella di una discendenza, gli viene ordinato di immolare l’unico figlio.

Anche in questo caso la partenza per un viaggio non indifferente per recarsi al luogo stabilito da Dio per il sacrificio richiede uno spostamento fisico ma anche un ancor più impervio “viaggio interiore”: “[Dio] Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Abramo si alzò di buon mattino, sellò l'asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l'olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo.” (Gn 22,2-4) Dio gli ordina di partire verso il territorio di Moria, e il racconto ci informa che il viaggio si protrae per tre lunghi giorni di cammino. Abramo si dispose a compiere quello che fu senza dubbio il comando più gravoso ricevuto da Dio: ma fu proprio questa sua rinnovata disponibilità a lasciarsi condurre per l’impervio sentiero, sia fisico che spirituale, dell’obbedienza a Dio che gli valse una discendenza che non conosce numero.

 

La memoria della storia passata costruisce l’identità del popolo

Dimenticare il passato è un motivo di perdita di identità e di senso. Ce lo dice la Scrittura, fin dall’inizio della storia d’Israele.

Ne è un esempio significativo la vicenda della famiglia di Giacobbe, composta da una settantina di persone, le quali per sfuggire a una pesante carestia si era trasferita in terra d’Egitto: “I tuoi padri scesero in Egitto in numero di settanta persone; ora il Signore, tuo Dio, ti ha reso numeroso come le stelle del cielo.” (Dt 10,22); lì aveva trovato prosperità, promovendo peraltro la ricchezza economica del paese ospitante: “Allora Giuseppe disse ai fratelli e alla famiglia del padre: «Vado a informare il faraone e a dirgli: «I miei fratelli e la famiglia di mio padre, che erano nella terra di Canaan, sono venuti da me. Questi uomini sono pastori di greggi, si occupano di bestiame e hanno portato le loro greggi, i loro armenti e tutti i loro averi». Quando dunque il faraone vi chiamerà e vi domanderà: «Qual è il vostro mestiere?», risponderete: «I tuoi servi sono stati gente dedita al bestiame; lo furono i nostri padri e lo siamo noi dalla nostra fanciullezza fino ad ora». Questo perché possiate risiedere nella terra di Gosen». Perché tutti i pastori di greggi sono un abominio per gli Egiziani. … Giuseppe andò a informare il faraone dicendogli: «Mio padre e i miei fratelli con le loro greggi e i loro armenti e con tutti i loro averi sono venuti dalla terra di Canaan; eccoli nella terra di Gosen». Intanto prese cinque uomini dal gruppo dei suoi fratelli e li presentò al faraone. Il faraone domandò loro: «Qual è il vostro mestiere?». Essi risposero al faraone: «Pastori di greggi sono i tuoi servi, lo siamo noi e lo furono i nostri padri». E dissero al faraone: «Siamo venuti per soggiornare come forestieri nella regione, perché non c'è più pascolo per il gregge dei tuoi servi; infatti è grave la carestia nella terra di Canaan. E ora lascia che i tuoi servi si stabiliscano nella terra di Gosen!».

Allora il faraone disse a Giuseppe: «Tuo padre e i tuoi fratelli sono dunque venuti da te. Ebbene, la terra d'Egitto è a tua disposizione: fa' risiedere tuo padre e i tuoi fratelli nella regione migliore. Risiedano pure nella terra di Gosen. Se tu sai che vi sono tra loro uomini capaci, costituiscili sopra i miei averi in qualità di sorveglianti sul bestiame». Quindi Giuseppe introdusse Giacobbe, suo padre, e lo presentò al faraone, e Giacobbe benedisse il faraone. Il faraone domandò a Giacobbe: «Quanti anni hai?». Giacobbe rispose al faraone: «Centotrenta di vita errabonda, pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita e non hanno raggiunto il numero degli anni dei miei padri, al tempo della loro vita errabonda». E Giacobbe benedisse il faraone e si allontanò dal faraone.” (Gen 46,31-34; 47,1-10).

Ma le cose sono destinate a mutare: «sorse in Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe» (Es 1,8). Con il passare degli anni si perse la memoria di quell’immigrato che aveva arricchito tutti con la sua speciale sapienza. Dalla dimenticanza scaturiscono sentimenti malvagi e azioni vergognose.

Gli egiziani percepiscono la presenza degli ebrei come una minaccia; chi aveva ricevuto lo statuto sacro dell’ospite si trasforma in nemico. Il timore di essere sopraffatti ha una qualche giustificazione, a causa del numero crescente di coloro che continuano a essere definiti stranieri e perciò pericolosi; allora la paura diventa cattiva consigliera. Il faraone suggerisce di prendere dei provvedimenti prudenziali che impediscano il proliferare del presunto avversario: “Cerchiamo di essere avveduti nei suoi riguardi per impedire che cresca, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese.” (Es 1,10).

Un tale decisione prese la forma di norme che imponevano agli immigrati condizioni crescenti di servitù, con maltrattamenti e umiliazioni, fino all’eliminazione fisica della vita nascente: “Perciò vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati, per opprimerli con le loro angherie, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva, ed essi furono presi da spavento di fronte agli Israeliti. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d'Israele trattandoli con durezza. Resero loro amara la vita mediante una dura schiavitù, costringendoli a preparare l'argilla e a fabbricare mattoni, e ad ogni sorta di lavoro nei campi; a tutti questi lavori li obbligarono con durezza.

Il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l'altra Pua: «Quando assistete le donne ebree durante il parto, osservate bene tra le due pietre: se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, potrà vivere». Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d'Egitto e lasciarono vivere i bambini. Il re d'Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i bambini?». Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito!». Dio beneficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli diede loro una discendenza.

Allora il faraone diede quest'ordine a tutto il suo popolo: «Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà, ma lasciate vivere ogni femmina».” (Es 1,11-22). Il fiume d’Egitto diventò allora la tomba dei neonati degli ebrei, come il Mediterraneo è oggi diventato un immenso cimitero per migliaia di profughi, fra cui tanti bambini.

Forse proprio per evitare il processo di dimenticanza-disumanizzazione, nella Scrittura è espresso l’invito a ripetere la formula: «Mio padre era un arameo errante e divenne un emigrato in terra d’Egitto» (Dt 26,5). È una formula che esprime una identità profonda del popolo e viene ripetuta spesso nei momenti di preghiera, e allo stesso tempo la Bibbia chiede agli israeliti di fare memoria, assumendo spiritualmente lo statuto dell’immigrato, perché in esso si consegna un mistero di grazia e una via di sapiente giustizia. Lo stesso invito possiamo sentirlo rivolto a noi, con le stesse motivazioni.

In questo modo Israele racconta la sua storia di popolo «diverso» anche per la coscienza che il bene scaturisce dall’accoglienza del diverso, dello straniero, dell’altro che non mi assomiglia, non parla la mia lingua, non pratica i miei costumi, non venera la mia divinità, come hanno sperimentato i padri in passato.

Alla visione statica di Gen 10, dove ogni gruppo etnico è confinato nel suo proprio territorio (“Questa è la discendenza dei figli di Noè: Sem, Cam e Iafet, ai quali nacquero figli dopo il diluvio. I figli di Iafet: Gomer, Magòg, Madai, Iavan, Tubal, Mesec e Tiras. I figli di Gomer: Aschenàz, Rifat e Togarmà. I figli di Iavan: Elisa, Tarsis, i Chittìm e i Dodanìm. Da costoro derivarono le genti disperse per le isole, nei loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni. I figli di Cam: Etiopia, Egitto, Put e Canaan. I figli di Etiopia: Seba, Avìla, Sabta, Raamà e Sabtecà. I figli di Raamà: Saba e Dedan. Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. Egli era valente nella caccia davanti al Signore, perciò si dice: «Come Nimrod, valente cacciatore davanti al Signore». L'inizio del suo regno fu Babele, Uruc, Accad e Calne, nella regione di Sinar. Da quella terra si portò ad Assur e costruì Ninive, Recobòt-Ir e Calach, e Resen tra Ninive e Calach; quella è la grande città… Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro genealogie, nelle rispettive nazioni.”), si sovrappone ora, con Abramo che attraversa le frontiere, per fare della sua diversità il fermento di una benedizione universale, e le successive vicende citate, una prospettiva dinamica e relazionale, come via per la concordia universale. Questa dimensione e identità migrante e dinamica si contrappone anche radicalmente all’immagine imperialista di Babele, smentita nel suo progetto unificatore dal suo clamoroso insuccesso (Gen 11).

 

Identità migrante non solo subita, ma come scelta di identità

Abramo è messo in movimento dal Signore, che gli dice: «Va’ dalla tua patria […] alla terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). È vero che la migrazione era iniziata con suo padre Terach (Gen 11,31), ma questo processo diventa una vera e propria «vocazione» solo quando viene assunto personalmente da Abramo nella fede, come decisione apportatrice di bene. Va notato che Abramo non lascia la Mesopotamia per ristrettezze economiche: viene infatti segnalato che era ricco in bestiame e oro (Gen 13,2). Nemmeno risulta che egli subisse vessazioni o minacce nel paese di origine; non è quindi un profugo che fugge da zone di guerra e miseria. E non abbandona la sua patria per allontanarsi dall’idolatria, dato che la terra verso cui è indirizzato è abitata dai cananei (Gen 12,6), seguaci di divinità pagane.

Abramo è così presentato come la figura esemplare del puro migrante, nella quale tutti i migranti possono riconoscersi al di là delle loro specifiche motivazioni; ed è figura non di un migrante costretto suo malgrado, ma per scelta e per ottenere il frutto della benedizione divina. Per questo la relazione con gli altri (popoli e individui) rimane determinata fortemente da questa notazione identitaria migrante, in un senso come nell’altro: “Renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra.” (Gen 12,2-3) Il destino degli abitanti del mondo, secondo la Bibbia, dipende dalla figura di questo migrante, Abramo, che accetta di rinunciare al titolo di cittadino stanziale e sovrano, che acconsente a rischiare la vita assumendo lo statuto dell’immigrato. Con lui il Signore fa alleanza (Gen 15,7-20; 17,1-8) e accetta che attraverso di lui riesca a determinare anche il futuro dei popoli della terra, fino alla nostra generazione e per il futuro a venire.

I patriarchi sono figure fondative dell’identità del popolo d’Israele, e vengono descritti come pastori alla costante ricerca di pascoli, soggetti quindi a ripetute transumanze. Non sono però dei “nomadi”, ma dei forestieri che si stabiliscono, dove e come possono, in un paese straniero (di volta in volta Canaan, Aram, Egitto) in qualità di “immigrati”. Così viene presentata l’origine di Israele, da Abramo, Isacco e Giacobbe fino ai loro discendenti, che per quattrocentotrent’anni dimorarono in Egitto (Es 12,40). Anzi, stando al libro del Levitico, anche quando il popolo di Dio prese possesso del paese di Canaan venne chiamato dal Signore a concepirsi come “ospite” in una terra che Dio rivendicava come sua proprietà: gli Israeliti erano infatti presso di lui “immigrati e locatari” (Lv 25,23: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti.). Diceva perciò Davide, ripetendo una formula della tradizione orante di Israele: “Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi l'orecchio al mio grido, non essere sordo alle mie lacrime, perché presso di te io sono forestiero, ospite come tutti i miei padri.” (Sal 39,13) “Forestiero sono qui sulla terra: non nascondermi i tuoi comandi.” (Sal 119,19) “Noi siamo immigrati davanti a te e locatari come tutti i nostri padri.” (1 Cr 29,15)

Probabilmente qualcuno dirà che nell’antichità tutto questo era facile, perché l’ospitalità era una pratica consuetudinaria, riconosciuta universalmente come un dovere sacro, frutto anche di quella spontanea solidarietà che nasce quando tutti percepiscono i medesimi bisogni. La Bibbia tuttavia smentisce questa presunta condizione irenica riguardo al forestiero. Il racconto delle origini di Israele dice infatti che i patriarchi furono ripetutamente infastiditi: i re locali prendevano le loro donne (Gen 12,11-20; 26,1-14); i residenti si impossessavano dei pozzi, scacciando gli immigrati che li avevano scavati (Gen 21,25; 26,15-25); e chi entrava in una città, come quella di Sodoma, doveva subire l’oltraggio infamante della sottomissione violenta.

Sodoma e Gomorra sono l’emblema delle città cananee «maledette» proprio perché hanno esercitato il sopruso invece dell’ospitalità; ma il medesimo crimine venne perpetrato anche dai moabiti e dagli ammoniti (Dt 23,4-7), e pure dagli israeliti nei confronti di fratelli provenienti da un’altra tribù (Gdc 19,11-30). Una sofferenza ancora più acuta venne esperimentata dagli ebrei immigrati in Egitto (Sap 19,13-16), ecc...

 

Dalla memoria nasce l’identità e le scelte della prassi da attuare

L’amore dell’israelita credente per il forestiero non è quindi innata bontà d’animo o consuetudine di un tempo passato, piuttosto nasce dall’imitazione dei sentimenti di Dio, e si traduce in gesti simili a quelli del Signore: “il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi.” (Sal 146,9).

Questa tematica è incisivamente espressa nel capitolo 19 del Levitico, qualche versetto dopo il passo che prescrive l’amore per il “concittadino”: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore. (Lv 19,18): “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi: tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto.” (Lv 19,33-34) La distinzione tra cittadino e straniero non è abolita, ma fatta emergere per valorizzare la qualità dell’amore che rende l’altro diverso da me simile a me, attraverso una benevola accoglienza.

Abramo quindi, capostipite e padre di tutti i credenti, assume emblematicamente la figura del forestiero, del migrante, proprio per significare che Dio costantemente viene incontro agli uomini che si trovano a vivere questa condizione. Abramo è l’immigrato, ma in qualche modo anche il Signore assume questa veste, poiché domanda di essere accolto per portare salvezza; se è rifiutato, si produce desolazione e morte. Il Nuovo Testamento dà particolare rilievo a questa linea. Nel Vangelo di Matteo, in particolare, ci viene detto che Gesù si identifica con il forestiero, ospitato o respinto: “ero straniero e mi avete accolto, … ero straniero e non mi avete accolto (Mt 25,35.43), e da questa alternativa scaturisce la benedizione: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”, (Mt 25,34) o la maledizione eterna: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli.” (Mt 25,41)

Non a caso, Abramo, proprio perché credente nel Signore, proprio perché ha acconsentito ad essere senza terra, ha maturato un cuore capace di accogliere il viandante che passava presso di lui. La città di Sodoma offende chi cerca rifugio: “I due angeli arrivarono a Sodoma sul far della sera, mentre Lot stava seduto alla porta di Sodoma. Non appena li ebbe visti, Lot si alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. E disse: «Miei signori, venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte, vi laverete i piedi e poi, domattina, per tempo, ve ne andrete per la vostra strada». Quelli risposero: «No, passeremo la notte sulla piazza». Ma egli insistette tanto che vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli preparò per loro un banchetto, fece cuocere pani azzimi e così mangiarono. Non si erano ancora coricati, quand'ecco gli uomini della città, cioè gli abitanti di Sodoma, si affollarono attorno alla casa, giovani e vecchi, tutto il popolo al completo. Chiamarono Lot e gli dissero: «Dove sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi, perché possiamo abusarne!». Lot uscì verso di loro sulla soglia e, dopo aver chiuso la porta dietro di sé, disse: «No, fratelli miei, non fate del male! Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace, purché non facciate nulla a questi uomini, perché sono entrati all'ombra del mio tetto». Ma quelli risposero: «Tirati via! Quest'individuo è venuto qui come straniero e vuol fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a loro!». E spingendosi violentemente contro quell'uomo, cioè contro Lot, si fecero avanti per sfondare la porta. Allora dall'interno quegli uomini sporsero le mani, si trassero in casa Lot e chiusero la porta; colpirono di cecità gli uomini che erano all'ingresso della casa, dal più piccolo al più grande, così che non riuscirono a trovare la porta.” (Gen 19,1-11)

Al contrario la tenda di Abramo si apre per ricevere, come un dono, la presenza di alcuni stranieri: “Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa' pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All'armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l'albero, quelli mangiarono.” (Gen 18,1-8) Questi misteriosi personaggi verranno visti come degli “angeli” (Gen 19,1; Eb 13,2), una rappresentazione cioè del divino che visita gli uomini, portando un’impensabile fecondità alla casa accogliente con la promessa della nascita del figlio (Gen 18,9-14) e la catastrofe sulla città inospitale (Gen 19,15-29).

Il cuore, dice dunque la Bibbia, produrrà gesti di compassione nella misura in cui custodisce la memoria della propria origine e della propria sofferenza. Chiunque, nel volto dolente e desideroso dell’immigrato, rivede l’immagine del proprio bisogno, diventa fratello di ogni straniero. “Non opprimerai il forestiero: proprio voi conoscete l’animo del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto.” (Es 23,9)

 

La realizzazione pratica dell’accoglienza del forestiero

La realizzazione pratica di una prassi determinata dall’accoglienza al forestiero trova forme concrete stabilite e codificate nella Bibbia, regole per la vita sociale, culturale e religiosa del popolo. Esse investono principalmente tre ambiti: economico, della tutela giuridica e dell’integrazione sociale e religiosa.

Il primo ambito da sottolineare è la condivisione in ambito economico.

Nei codici dell’Antico Testamento l’immigrato viene sistematicamente incluso fra le categorie economicamente sfavorite; è posto quindi accanto alla vedova e all’orfano (che sono la figura di chi è privo di sostentamento e di tutela), ed è associato al levita (il funzionario del culto che, non possedendo terreni, viveva del sussidio fornito dai fedeli) (Dt 16,11.14; 24,11-14; 26,12 ecc.). Inserendo il forestiero nella lista degli indigenti, fra i quali vi sono chiaramente membri del popolo ebraico, il legislatore mette sullo stesso piano tutti i miseri, considerandoli portatori di un medesimo diritto soggettivo: lo straniero, in quanto bisognoso, è come uno di casa, il forestiero per origine o costumi è da considerare come tuo fratello perché è povero.

È significativo rilevare che la legge di Israele non raccomanda l’elemosina, pur essendo essa una pratica tradizionale nel mondo antico e usanza non assente dal costume ebraico e cristiano (cfr Sal 112,9; Sir 3,30; 29,12; Tb 12,9; Mt 6,1-4; Rm 15,26; 1Cor 16,1-5; 1 Pt 4,8). Di fronte a un’urgenza è ovvio che ci si aspetti il gesto immediato del soccorso (Pr  3,28); tuttavia la Tôrah chiede che la compassione verso la povera gente prenda forme meno occasionali e demandata all’iniziativa individuale, e soprattutto salvaguardi la dignità di colui che si trova nel bisogno.

La Scrittura invita allora innanzitutto a provvedere alla difficoltà dell’indigente mediante l’istituto del prestito. Ciò può apparire meno perfetto dell’elargizione a fondo perduto. Tuttavia facciamo notare che in Israele anche il prestito è un atto gratuito, perché il creditore rischia il proprio avere senza ricavarne profitto, dato che rinuncia alla pretesa di interessi, (la gratuità del prestito è stabilito in Es 22,24; Lv 25,35-38; Dt 23,20-21; Ez 18,8.13.17; 22,12; Pr 28,8). Inoltre, mediante il prestito si riconosce implicitamente al prossimo la capacità e volontà di restituire; lo si tratta così da persona responsabile, stimandolo capace di saggezza, laboriosità e onestà, e in grado quindi di mettere a frutto il dono ricevuto. Infine, mediante il prestito si rende più completo il ciclo del dono, perché anche il povero, che ha ricevuto il prestito, potrà, con il favore divino, essere un giorno in grado di restituire quello che ha ricevuto, riconoscendo, nell’atto stesso del rendere, il beneficio di cui è stato oggetto.

La Legge inoltre stabilisce che è sì lecito esigere dal debitore un pegno quale garanzia della restituzione del prestito, ma tuttavia il creditore deve comunque avere rispetto per l’indigente: non è ammesso che si entri nella casa del povero, quasi si effettuasse un sequestro, ma si dovrà aspettare la consegna fuori della porta (Dt 24,10-11). Il mantello dato come caparra (segno di ristrettezza estrema, di non avere altro possesso da consegnare in pegno) deve essere restituito al tramonto del sole, perché è la coperta dei poveri (Es 22,25-26; Dt 24,12-13); e non è consentito di pignorare le pietre della macina domestica, perché “sarebbe come prendere in pegno la vita” (Dt 24,6).

Alla generosità nel prestare, a cui la Legge esorta (Dt 15,10-11), si aggiunge poi la generosità nel condonare il debito. L’insolvenza costringeva non raramente un uomo all’asservimento suo o dei suoi figli; il riprodursi di questa dolorosa esperienza ha indotto il legislatore a introdurre una norma che prevede periodicamente la remissione di ogni debito: ogni sette anni, il creditore lascerà cadere il suo diritto (Dt 15,1-3), così che la povertà sia sradicata e la benedizione di Dio raggiunga tutti (Dt 15,4-6).

Altre disposizioni della Tôrah chiedono di mettere una parte delle proprie risorse economiche a disposizione dei poveri, e in particolare degli immigrati. I proventi dei campi sono, per l’antico Israele, la prima e più fondamentale forma di ricchezza, da interpretare come simbolo di tutto ciò che si possiede, frutto del proprio lavoro e della benedizione divina. La Legge domanda che tali proventi non siano totalmente accaparrati dal proprietario che se li è guadagnati con la propria fatica e laboriosità, ma che una parte venga lasciata, quasi fosse dimenticata, nel campo stesso, e quindi messa a disposizione dei miseri e degli immigrati.

Quando mieti, dice il precetto biblico, non preoccuparti di prendere tutto, e non tornare indietro a spigolare; la stessa cosa va fatta anche per la raccolta delle olive e per la vendemmia (Dt 24,19-22; Lv 19,9-10; 23,22). Si tratta, per chi sa leggere e interpretare, di una norma di straordinario valore simbolico. Presa alla lettera, la prescrizione può sembrare meschina e offensiva per il povero (quasi fossero lasciati i resti del pasto del ricco), ma, correttamente interpretata, significa che la benedizione che Dio ha accordato al possidente deve ricadere, senza degnazioni e con totale discrezione, anche sui poveri.

Il libro del Deuteronomio, il più sensibile allo statuto dell’immigrato, va oltre la disciplina della condivisione nel momento del raccolto: immagina che il proprietario abbia adesso in casa sua, nei suoi depositi, il frutto della terra e del suo lavoro; su questo bene, che è suo, il legislatore, a nome del Dio dei poveri, interviene per dischiudere successive piste di elargizione.

La legge delle primizie (Dt 26,1-11) dice che i primi proventi della terra devono essere messi in una cesta e portati dal sacerdote, così da essere distribuiti al levita e al forestiero (v. 11). Solo se si capisce il valore accordato alle primizie si può capire quanto sia importante e coraggiosa questa norma: si chiede infatti all’erede della promessa di donare allo straniero i migliori prodotti del proprio terreno, i quali tra l’altro, nel momento in cui sono raccolti e distribuiti, sono gli unici a disposizione, dato che una qualche disgrazia potrebbe distruggere il successivo raccolto. Il povero immigrato non è dunque colui che deve accontentarsi dei resti lasciati nei campi: egli viene servito con le prelibatezze che danno gioia e speranza agli stessi proprietari.

C’è poi la legge della decima, che è una sistematica decurtazione del reddito, dato che, di tutto ciò che si è ricavato, una parte deve essere destinata ai poveri. Una decima speciale si raccoglie infatti ogni tre anni, ed è destinata al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova (Dt 14,28-29 e 26,12-13; cfr anche Tb 1,8).

Nella Legge biblica esistono altre importanti normative che garantiscono la tutela giuridica, il diritto dell’immigrato nei vari settori del suo vivere e nelle diverse esigenze della sua persona. In questo ambito l’immigrato è equiparato al cittadino: “Ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per l’indigeno” (Lv 24,22). Due sono i settori che, in particolare, meritano di essere precisati: 1) la normativa sul lavoro; 2) il diritto del forestiero ad accedere alla giustizia nei tribunali.

Infine il rapporto fra il popolo di Israele e gli immigrati è caratterizzato nelle Scrittura dall’ integrazione culturale.

Di particolare valore è l’ammissione dell’immigrato alla celebrazione della Pasqua, a patto che sia circonciso (Es 12,47-49; Nm 9,14): si tratta di una possibilità, non di un obbligo, sulla base di una richiesta a cui Israele deve consentire senza rinchiudersi in un isolazionismo etnico. Non stupisce che l’immigrato voglia celebrare la festa della liberazione degli schiavi, che il Signore ha riscattato e a cui ha offerto una legge di libertà e di dignità.

Questo progressivo fenomeno di integrazione religiosa sembra trovare figura ideale in un testo tardivo del Deuteronomio che, elencando i componenti del popolo dell’alleanza nuova (quella che va oltre l’alleanza sinaitica: Dt 28,69), vi include anche il forestiero: “Oggi voi state tutti davanti al Signore vostro Dio, i vostri capi, le vostre tribù, i vostri anziani, i vostri scribi, tutti gli Israeliti, i vostri bambini, le vostre mogli, il forestiero che sta in mezzo al tuo accampamento, da chi ti spacca la legna a chi ti attinge l’acqua, per entrare nell’alleanza del Signore tuo Dio” (Dt 29,9-11; cfr anche 31,12). L’idea espressa qui è che il vero Israele è quello che accoglie al suo interno il non-Israele per renderlo partecipe della relazione con il vero Dio, della saggezza della sua Legge e della benedizione che ne consegue.

 

Conclusione

Abbiamo visto come l’identità forte di Abramo come uomo della mobilità, migrante non per necessità ma per vocazione divina, che attraversa i confini e non ne pone agli altri, che accetta questa identità come carattere della propria interiorità, viene come trasmessa a tutto il popolo, di nuovo non come pura necessità, ma come tratto della propria diversità, elemento costitutivo della memoria di sé.

Questo tratto determina il rapporto del popolo con gli altri, popoli e individui, ne determina una identità permeabile e aperta, diremmo oggi non nazionalista né sovranista, ma anche il proprio rapporto con Dio e la possibilità di partecipare alla benedizione originaria che da Abramo si allarga a tutti coloro che si fanno fedeli all’alleanza con lui, al di là dell’appartenenza etnica.

Infine tale identità e coscienza collettiva e personale si traduce in una prassi concreta che, come sempre accade nel rapporto con Dio, non è pura e semplice imposizione divina di norme di comportamento, ma indirizzi che richiedono la partecipazione e adesione personale di ciascuno nell’attuarle, sotto la forma dell’imitazione della prassi divina con sé e i propri padri.

 

venerdì 14 marzo 2025

II domenica del tempo di Quaresima - Anno C - 16 marzo 2025

 



Dal libro della Genesi 15,5-12.17-18

In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».

 

Salmo 26 - Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?

Ascolta, Signore, la mia voce. +
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il mio cuore ripete il tuo invito:
«Cercate il mio volto!».
Il tuo volto, Signore, io cerco.

Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.

Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 3,17-4,1

Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

 

Lode a te, o Signore, re di eterna gloria
Dalla nube si udì la voce del Padre:
«Questi è il mio Figlio l’amato: ascoltatelo».
Lode a te, o Signore, re di eterna gloria

 

Dal vangelo secondo Luca 9, 28b-36

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

 

Commento

 

Cari fratelli e care sorelle, la liturgia di oggi si è aperta con la scena grandiosa della promessa di Dio ad Abramo di una discendenza numerosa come le stelle del cielo e del possesso di una terra. In lui si radicano i destini delle tre grandi fedi monoteistiche, ebraismo, cristianesimo e islam, che trovano nella paternità comune del patriarca la speranza di pace che va al di là di ogni rivalità e conflitto che la storia, anche contemporanea, ha conosciuto. Quella ricevuta da Abramo è una promessa e una sfida: sapranno i popoli delle tre fedi abramitiche tener fede all’alleanza con la quale Dio sancisce la sua promessa?

Sappiamo che Dio è fedele alle sue promesse, ma non passa sopra la volontà dei suoi figli, i quali sono chiamati a far proprio il contenuto della promessa e soprattutto a restare fedeli all’alleanza con la quale Dio si è legato alla discendenza di Abramo, senza distinzioni fra gli uni e gli altri.

È la domanda che la liturgia di oggi pone a noi discepoli di Gesù, il quale, certamente, è venuto a rinnovale la fedeltà di Dio nella nuova Alleanza sancita dalla sua passione morte e resurrezione, ma senza annullare la prima Alleanza: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento.” (Mt 5,17)

È nostro compito, dunque, scrutare innanzitutto in noi stessi, come anche ci insegna la parabola della pagliuzza nell’occhio, e non tanto essere occhiutamente pronti a scoprire le mancanze altrui nell’essere fedeli all’alleanza abramitica con Dio. Questo esercizio al quale tanti si dedicano, seminando odi e incomprensioni fra i credenti delle diverse fedi abramitiche, contraddice le parole dell’Apostolo nella lettera ai Romani: “gareggiate nello stimarvi a vicenda” (12,10).

La promessa fatta da Dio ad Abramo perché trovi il suo compimento richiede di passare attraverso un esodo: “Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò.»” (Gen 12,1-2) “Andare, uscire, partire” è l’invito di Dio per incontrare il destino felice che lui ha preparato per lui e la sua discendenza. È l’invito che anche a noi oggi è rivolto dalla liturgia in questa seconda tappa quaresimale.

La Quaresima ci è proposta come un santo viaggio: Gesù uscì verso il deserto, abbiamo ascoltato domenica scorsa, per mettere alla prova la sua fiducia nel Padre e rafforzarsi nella sicurezza che nella sua Parola troviamo la forza di far nostro il sogno di Dio di una umanità con un cuore di carne e di preservare il nostro dall’indurimento; oggi, abbiamo appena ascoltato, Gesù “prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.” Gesù è con noi in questo cammino di Quaresima, ma ci chiede anche di lasciarci prende con sé, farci guidare e accompagnare nella salita, di unirci con lui nel dialogo con il Padre che è la preghiera.

Non sono cose fuori dalla nostra portata, non chiede gesta eroiche o sacrifici sovraumani, basta cedere all’insistenza di Gesù e seguirlo come un esempio da seguire.

Lì sul monte, assieme a Gesù i discepoli manifestano tutta la contraddittorietà della loro vita. Da un lato assistono estasiati alla bellezza dello stare in intimità con lui, una bellezza che li porta a contemplare la realtà non così come è, ma come la presenza di Dio la trasfigura se volgiamo a lui lo sguardo a lui. Infatti quando Dio entra nella vita dell’uomo niente è come prima. Dentro di noi, ma anche attorno a noi, tutto appare in una luce nuova che rivela che l’amore è possibile, che la pace può realizzarsi, che al dominio e all’odio si può sostituire l’amicizia, che ingiustizia e sopraffazione non sono un destino obbligato ma ostacoli che si possono oltrepassare vivendo con il cuore di carne che Dio ci ha donato. È l’esperienza che ciascuno di noi ha fatto in momenti speciali nei quali l’amore di Dio ci ha portato a sollevare lo sguardo e a vedere la realtà con il riverbero splendente e pieno di vita del suo voler bene.

Dicevo la contraddittorietà della vita dei discepoli. Infatti, nonostante quest’esperienza entusiasmante alla quale sono messi a parte, alla fine su di loro prevale la pesantezza dello sguardo basso su di sé e sul mondo: “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno.” È lo sguardo realisticamente pessimista che li porta a tornare a vedere il mondo come è, senza credere che possa essere trasfigurato dall’amore di Dio. È il sonno che ottenebra la speranza e la fiducia nella forza di pace e di giustizia che Dio ci dona attraverso la sua Parola. Il sonno che rende incerto il nostro cammino che va avanti a tentoni nel buio, seguendo i passi che già si conoscono, già si sono percorsi, senza desiderare di trovare sentieri nuovi che portino a un futuro diverso dall’oggi. È il sonno che, come tanto spesso avviene anche nella nostra vita, si popola di fantasmi, di paure, di pregiudizi, di personaggi inconsistenti e fuggitivi, di confusione e cose incomprensibili che lasciano interdetti e disorientati. Mancnza di luce, assenza di concretezza, assenza di uno sguardo che veda lontano.

Quel sonno porta Pietro ad esprimere il desiderio di fermarsi: “Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Nel sonno perdiamo la voglia di seguire l’invito di Dio ad “andare, uscire, partire” per partecipare della sua promessa di felicità. Il Vangelo commenta laconicamente la proposta di Pietro: “Egli non sapeva quello che diceva.” Le sue parole sono quelle di un uomo che ha dimenticato che Gesù lo aveva chiamato a seguirlo, e non a starsene fermo a godersi un angolo tranquillo, seppur agitato dai fantasmi e dalle paure.

Care sorelle e cari fratelli, la Quaresima viene a risvegliarci e a riproporci di metterci in cammino assieme a Gesù. Siamo disposti a seguirlo? Ci viene di nuovo posta davanti l’alternativa: il sonno dello sguardo che brancola nel buio dell’oggi senza vedere prospettive possibili, o la visione del cambiamento possibile offerta a chi “va, esce e parte” per seguire Gesù?

Al termine di quell’esperienza sconvolgente che Pietro, Giovanni e Giacomo fecero con Gesù sul monte essi udirono la voce del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!” Sì, seguire Gesù è essenzialmente ascoltarlo, cioè far scendere le sue parole dentro di noi, conservarle e farle proprie nella vita concreta. È quello che la Quaresima ci propone, seguiamo il suo invito e troveremo a pasqua la forza di fare nostro il sogno di Dio che vede la realtà trasfigurata da un amore senza fine, più forte della morte.

   

Preghiere 

 

O Signore, ti ringraziamo perché ci inviti a salire con te sul monte della preghiera e a compiere l’esodo della Quaresima. Fa’ che sappiamo essere attenti alla tua Parola per godere della tua compagnia,

Noi ti preghiamo

  

O Padre del cielo che ci inviti ad ascoltare ogni parola del tuo Figlio, aiutaci a mettere in pratica il Vangelo che ci è annunciato e a lasciarci docilmente trasfigurare con lui mentre lo seguiamo,

Noi ti preghiamo

 

O Dio nostro, proteggi, consola e salva quanti sono deboli e malati, chi vive per strada, chi è immigrato da Paesi lontani. Fa’ che la famiglia dei tuoi discepoli accolga ciascuno come un figlio e un fratello,

Noi ti preghiamo

  

Fa’ o Signore che nel tempo che ci separa dalla memoria della Passione ci prepariamo a non fuggire davanti alla sofferenza, ma intenerendo il nostro cuore, sappiamo restare come amici fedeli vicino alla tua croce e ad ogni uomo che soffre,

Noi ti preghiamo

 

Padre del cielo, ti preghiamo per il nostro papa Francesco, donagli salute e guarigione, proteggilo dal male e rafforza il suo impegno ad annunciare il Vangelo, perché la sua testimonianza e le sue parole tornino presto ad aiutarci a seguirti da vicino,

Noi ti preghiamo

  

Sostieni o Signore tutti i discepoli che si riuniscono attorno a te, fa’ che con la loro testimonianza sappiano indicare a molti la via del Vangelo e alleviare la fatica di vivere dei poveri che incontrano,

Noi ti preghiamo.

  

O Signore, perdonaci quando siamo addormentati e diveniamo sordi alla tua Parola, ciechi alla speranza e alla fiducia in te. Aiutaci a restare vigili e attenti a non perdere nessuno dei tuoi insegnamenti,

Noi ti preghiamo

  

Ti preghiamo o Padre per la pace nel mondo intero, e specialmente in Ucraina e Terra Santa. Proteggi quanti oggi sono minacciati dalla guerra e guarisci i cuori di quanti coltivano odio e violenza.

Noi ti preghiamo

Meditazione biblica quaresimale - Abramo capostipite della fraternità - mercoledì 12 marzo 2025

 

Meditazioni di Quaresima su Abramo

I incontro, 12 marzo 2025

 

Abramo, padre di tutti i credenti

Uno dei più solidi punti di convergenza tra le tre grandi religioni monoteistiche è costituito dalla figura del patriarca Abramo, che per ebrei, cristiani e musulmani rappresenta il modello del credente nell’unico Dio.

In lui si trova non solo un vago riferimento religioso per i credenti delle tre fedi, ma il capostipite, il modello, colui attraverso il quale si fonda la fede delle tre religioni monoteistiche abramitiche. Troppo spesso si è dato più risalto alle diverse strade che, a partire da questo punto comune, le tre religioni hanno intrapreso portando a esiti veramente molto diversi e, per certi versi, incompatibili.

Se vogliamo questo itinerario ricorda quello frequente in ambito familiare. I fratelli trovano il loro primo e fondamentale punto comune nei genitori, padre e madre, che costituiscono un imprescindibile punto di partenza comune. Poi, certamente, le vicende della vita porteranno ciascun figlio a percorrere itinerari diversi, a giungere a mete diverse, anche discordanti fra loro, ma nulla potrà strappare dalle radici la loro unica origine, nella quale si fonda la loro esistenza. Basterebbe poco, cioè ritornare a questa unica origine, per ritrovare i motivi dell’armonia, pur nelle diversità.

Questo lo vediamo esemplificato in maniera molto evidente nella stessa vicenda di Abramo e dei suoi figli.

 

Ismaele e Isacco: due figli diversi, un destino comune?

Conosciamo le diverse vicende che portarono alla nascita dei due figli di Abramo. Le riassumiamo brevemente.

Abram e Sarai giungono in età molto avanzata senza figli. Nonostante Dio rinnovi all’anziano patriarca la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo (cfr. Gen 15,5), possiamo immaginare la delusione e la frustrazione vissuta dalla coppia. Realisticamente, a causa dell’età avanzata, la paternità e la maternità sembrano un sogno per loro irrealizzabile. Che senso ha la promessa di Dio?

Eppure, le prime parole di Sarai nel racconto della Genesi aprono una nuova strada per ottenere quel figlio che, seppur promesso, tarda ad arrivare. «Ma Sarai, moglie di Abram, non aveva partorito per lui. Aveva una domestica egiziana e il suo nome era Agar. Sarai disse ad Abram: “Ecco, ti prego, il Signore mi ha impedito di partorire; va’, ti prego, verso la mia domestica: forse avrò un figlio da lei”. Abram ascoltò la voce di Sarai» (Gen 16,1-2). Non dobbiamo stupirci troppo di questa pratica così lontana dalla nostra sensibilità, la maternità vicaria veniva praticata normalmente nei casi di sterilità femminile nel Vicino Oriente Antico.

Però dopo che Abramo va’ con la schiava Agar, lei inizia a guardare Sarai con scherno, e la stessa Sarai, sentendo su di sé questo sguardo di disprezzo, manifesta ad Abram tutto il suo disappunto. L’anziano patriarca autorizza Sarai a disporre della schiava a suo piacimento. Alla fine, la logica padronale è quella che prevale e Agar viene tormentata dalla sua padrona al punto da dover fuggire nel deserto.

Eppure, Dio si fa carico della sofferenza di Agar e ha una parola per lei e per il bambino che nascerà. L’angelo del Signore si rivela ad Agar presso una sorgente e la consola con una promessa di fecondità simile a quella fatta ad Abramo (cfr. Gen 15,5; 22,17: «Le disse ancora l’angelo del Signore: “Certamente moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla, tanto sarà numerosa”.) Infatti a lei l’angelo del Signore disse: “Ecco, sei incinta e partorirai un figlio e chiamerai il suo nome Ismaele [= Dio-ascolta] perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione. Egli sarà come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà di fronte/contro la faccia di tutti i suoi fratelli”. Agar, al Signore che le aveva parlato diede questo nome: “Tu sei il Dio della visione”, perché diceva: “Non ho forse visto il dorso di colui che mi vede?”. Per questo il pozzo si chiamò pozzo di Lacai-Roì» (Gen 16,10-14).

Il nome del bambino sarà Ismaele a motivo dell’intervento del Signore, che ascolta Agar la schiava e si prende cura di lei e del figlio. Il Dio di Abram si lega indissolubilmente a Ismaele con la benedizione che aveva già riservato al padre, ma nell’oracolo sono inclusi anche i fratelli. Infatti, Ismaele non resterà un figlio unico.

Tredici anni dopo la nascita di Ismaele verrà alla luce Isacco, il figlio del sorriso. Infatti, in ebraico il nome «Isacco» significa «egli riderà». Questo nome verrà dato da Dio a motivo del sorriso di Abramo (cfr Gen 17,17: “Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e disse nel suo cuore: «A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?»”) e di sua moglie Sara (cfr Gen 18,12: “Allora Sara rise dentro di sé dicendo: “Avvizzita come sono, dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!”). Davanti all’annuncio di un figlio per l’anziana coppia, il riso di entrambi manifesta incredulità e un non troppo velato scetticismo.

Dopo tanta attesa, la parola del Signore si compie: «Allora Sara disse: “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me!”. Poi disse: “Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!”» (Gen 21,6-7). Isacco, il figlio del sorriso, viene finalmente al mondo, e questa volta il riso è espressione di una gioia incontenibile, e non più di scetticismo.

Come si relazioneranno tra loro i due fratelli, entrambi figli di Abramo, ma nati da madri differenti?

La prima interazione tra i due fratelli è raccontata in un episodio controverso. Durante una grande festa celebrata in onore di Isacco, lo sguardo di Sara cade su Ismaele, ed ella reagisce duramente a causa di ciò che vede: «Il bambino [Isacco] crebbe e fu svezzato, e Abramo fece un grande banchetto nel giorno che Isacco fu svezzato. Ma Sara vide che il figlio di Agar l’Egiziana, quello che lei aveva partorito ad Abramo, scherzava [con Isacco suo figlio]. Disse allora ad Abramo: “Scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non sarà erede con mio figlio Isacco”» (Gen 21,8-10). (Secondo la LXX, la Vulgata e il Targum Onkelos, Ismaele giocherebbe con Isacco. Secondo il Targum Pseudo-Jonathan, Ismaele starebbe giocando con gli idoli. Secondo san Paolo, invece, Ismaele perseguiterebbe Isacco (cfr Gal 4,29).)

Noi abbiamo la versione dei fatti dalle parole di Sara, cioè come lei li vede e li interpreta. Per lei Ismaele vuole usurpare il posto di primogenito che spetta al figlio di Sara, il «vero» figlio della promessa che Dio ha fatto ad Abramo.

L’anziano patriarca non reagisce bene davanti alla pretesa di Sara che, con disprezzo verso «questa schiava» Agar, vuole allontanare Ismaele e negargli l’eredità e, insieme ad essa, la possibilità di una convivenza e di una condivisione con il fratello Isacco: «La cosa sembrò molto male agli occhi di Abramo a motivo di suo figlio. Ma Dio disse ad Abramo: “Non sembri male ai tuoi occhi, riguardo al fanciullo e alla tua schiava, tutto quello che dirà a te Sara; ascolta la sua voce, perché in Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò diventare una nazione anche il figlio della schiava, perché egli è tua discendenza”» (Gen 21,11-13). I piani di Dio sono veramente imperscrutabili!

Come promesso da Dio, Abramo sarà padre di una moltitudine di nazioni anche attraverso Ismaele (cfr Gen 17,4-6.20). I percorsi dei due fratelli, dunque, si dividono, ma entrambi i figli di Abramo rimangono sotto il segno della benedizione divina come prima linea dopo Abramo di una vasta generazione di discendenti. Anche se lontani, si ritrovano uniti dal Dio di Abramo, che è anche il loro Dio.

 

 

 

Due vite in parallelo

Dopo questo episodio traumatico per il loro rapporto le vite di Isacco e Ismaele non si incrociano per lungo tempo, ma, in modo significativo, sono descritte nella Scrittura come due percorsi simili che passano attraverso la separazione dal padre e un’esperienza di salvezza ricevuta da Dio mentre si trovano ad affrontare la morte (cfr Gen 21,14-21; 22,1-19).

Dispersa nel deserto, dopo essere stata scacciata da Abramo, Agar piange, temendo che suo figlio possa morire per la sete. Dio ascolta la voce di Ismaele, il quale, trovandosi vicino alla morte, compie il significato del suo nome – letteralmente «Dio ascolta» – quando viene salvato dall’intervento del Signore: «Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. Àlzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione» (Gen 21,17-18).

Successivamente, Isacco, su invito di Dio, verrà condotto da Abramo sul monte per essere sacrificato. Isacco è prossimo a morire e si troverà quindi in una situazione molto simile a quella del fratello Ismaele assetato nel deserto. Anche nel caso di Isacco l’angelo del Signore interverrà per salvare la vita del figlio di Abramo e rinnovare la promessa di benedizione: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare» (Gen 22,16-17).

Dobbiamo notare che, a differenza di Sara che nutre sentimenti opposti per i due giovani, per Abramo sono entrambi figli amati, da cui Abramo si separa con dolore, come sottolinea efficacemente il Talmud babilonese: «Dio disse ad Abramo: “Ti prego, prendi tuo figlio, il tuo unico, che ami, Isacco” (Gen 22,2). Quando Dio disse: “Tuo figlio”, Abramo obiettò: “Io ho due figli!”. Dio gli disse: “Il tuo unigenito”. Abramo rispose: “Questi è l’unico figlio per sua madre, e quello è l’unico figlio per sua madre!”. Dio gli disse: “Quello che ami”. Abramo replicò: “Io li amo entrambi!”. Dio allora gli disse: “Isacco!”»

Dunque i due percorsi paralleli di Isacco e Ismaele sono segnati dal distacco dai genitori per costruire una loro famiglia, e dalla benedizione di Dio che promette attraverso di entrambi una grande posterità.

Eppure, c’è ancora il tempo per un ultimo incontro tra di loro, che avviene nel momento altamente drammatico della morte del padre: «Lo seppellirono i suoi figli, Isacco e Ismaele, nella caverna di Macpela, nel campo di Efron, figlio di Socar, l’Ittita, di fronte a Mamre. Il campo che Abramo aveva comprato dagli Ittiti. Lì furono sepolti Abramo e sua moglie Sara. Dopo la morte di Abramo, Dio benedisse il figlio di lui Isacco e Isacco abitò presso il pozzo di Lacai-Roì» (Gen 25,9-11).

Isacco e Ismaele si trovano uno accanto all’altro nel piangere la morte del padre. Ismaele si reca a Macpela, dove si trova sepolta Sara, madre di Isacco, la donna che dapprima lo aveva voluto per vincere la propria incapacità di generare, ma che in seguito lo aveva rigettato. Isacco, invece, andrà ad abitare presso il pozzo di Lacai-Roì, la località dove Agar aveva visto il Signore che aveva udito il suo lamento e aveva benedetto lei e la sua discendenza (cfr Gen 16,14).

I due fratelli incrociano e mescolano le loro storie, e l’uno va nei luoghi dell’altro, in un fecondo scambio che li pone l’uno vicino all’altro in una sorta di implicita riconciliazione familiare. Da questo momento in poi, senza la figura del padre che li univa per mezzo del legame di sangue ma che li aveva divisi per la pace e il quieto vivere della famiglia, i due fratelli saranno prossimi nel condividere la benedizione al di là delle grettezze e delle piccinerie umane.

Quella che potrebbe sembrare la stereotipata scena di un funerale diventa il coronamento dell’essere fratelli separati, ma non distanti. «Questa è la discendenza di Ismaele…» (Gen 25,12); «Questa è la discendenza di Isacco…» (Gen 25,19): pochi versetti separano i fratelli e i loro discendenti che nella vita continueranno a vivere uno di fronte all’altro come ci ricorda la Scrittura: «[Ismaele] si era stabilito di fronte/contro la faccia di tutti i suoi fratelli» (Gen 25,18). La particella ebraica ‘al può essere letta come «di fronte» oppure «contro». Quale opzione sceglieranno i due fratelli? In questa ambivalenza c’è tutto il valore profondo della scelta personale che imprime alla storia direzioni diverse.

Eppure, nonostante tutto, Isacco e Ismaele possono prosperare sotto il segno di una benedizione condivisa, anche se diversa, ed essere dei buoni vicini, generazione dopo generazione. Infatti, secondo la tradizione della Bibbia (ma anche del Corano), dietro i personaggi di Isacco e Ismaele ci sono due popoli così lontani, così vicini come gli Israeliti e i Cristiani e gli Arabi-Musulmani, che, posti gli uni accanto agli altri nella terra su cui abitano, possono scoprire una radice comune come figli di Abramo, benedetti dallo stesso Dio. Tutto dipende dalla scelta di ciascuno di essere l’uno «di fronte» oppure «contro» l’altro. La diversità non è condanna al conflitto e alla rivalità, ma può essere vissuta nell’armonia se si torna alla comune radice abramitica.