mercoledì 1 dicembre 2010

Incontro VII (I di avvento) – 1 dicembre 2010

Incontro VII (I di avvento) – 1 dicembre 2010
Gesù e i poveri


Dopo aver parlato le volte scorse del rapporto di Gesù con i discepoli questa volta apriamo un nuovo capitolo sul rapporto di Gesù con i poveri. È particolarmente opportuno farlo nel tempo che si apre con questa prima settimana di avvento. Infatti i poveri attendono un mondo nuovo, perché ne hanno bisogno; i ricchi vogliono conservare quello che c’è, perché hanno paura di rimetterci. L’avvento deve essere allora occasione per un ripensamento del nostro modo di vivere, ed è opportuno farlo proprio a partire dal rapporto di Gesù con i poveri.


Chi sono i poveri nel Vangelo


Per iniziare questo nostro discorso bisogna prima di tutto chiederci chi sono i poveri per Gesù? Chi è il povero nel Vangelo?

Nella nostra cultura ha trovato uno spazio sempre più ampio l’uso della psicologia per spiegare ogni aspetto del comportamento umano. L’idea che tutto si spiega con una motivazione psicologica ha portato a smussare tutte le definizioni troppo nette, come se spiegare renda più accettabile, perché comprensibile, le espressioni umane, anche quelle negative. Di una persona individualista si dice che cerca di realizzare se stessa; di un egoista si dice che ha scarsa stima di sé e riversa sulle cose che possiede il bisogno di conferme; di uno violento si cerca subito se da piccolo ha subito traumi o violenze; di chi non si occupa delle cose altrui si dice che non le sente proprie, ecc.. Persino il peccato diventa una normale espressione umana dovuta a cause esterne: come potrebbe uno sentirsi in colpa o chiamato a cambiare? Se una cosa si spiega non è né male né bene, ma un fenomeno meccanico e con una ragione interna. La psicologia usata in questo modo diviene una vera e propria anestesia del senso morale del bene e del male.

Nell’ambito del nostro discorso questo atteggiamento ha portato, con un procedimento analogo, a confondere il confine fra il povero e il ricco facendole diventare due categorie psicologiche, e pertanto, sganciate dal contesto concreto, divengono interscambiabili. Si dice, ad esempio, che i più poveri sono i ricchi, perché nonostante i beni posseduti si sentono infelici, o che la povertà spirituale è ancor più grave di quella materiale perché più difficile da combattere, ecc.… Insomma non si capisce più chi è il povero e chi il ricco, se quello spirituale o quello materiale, se oggettivo o soggettivo, povero fuori e ricco dentro, ecc.…?

Nel vangelo mi sembra che la realtà sia molto più chiara e semplice. Quando il Vangelo parla di poveri in genere usa la parola greca πτοχός che indica il misero, il mendicante, il gravemente indigente. Si tratta per lo più di gente che ha dei pesanti limiti fisici e fa fatica a sopravvivere: sono i ciechi, i sordi, i muti, i paralitici, gli indemoniati, i malati gravi, i mendicanti, i lebbrosi. Non si definisce mai povero colui che è sano e possiede beni a sufficienza per mantenere sé e la propria famiglia e ne ha, magari, anche di avanzo. Sappiamo che Gesù ha voluto bene a tutti gli uomini, ma poiché li ama proprio a partire dalla reale condizione di ciascuno non ama ricchi e poveri allo stesso modo. A questo proposito c’è una frase di un prete amico dei poveri degli anni ’50, don Lorenzo Milani, che disse: “Non c’è maggiore ingiustizia che fare parti uguali, fra disuguali.” L’amore di Gesù è personale e diverso per ciascuno, non uguale con tutti. Non è un generico “volemose bene” ma annuncio di una buona notizia rivolta a ciascuno per chi lui è. E di conseguenza è molto chiaro e diversificato il modo di porsi di Gesù nei confronti dei componenti delle due opposte categorie: ai poveri è offerto sostegno, guarigione e consolazione. Ai ricchi è proposto di convertirsi e accogliere il Vangelo, cosa che si manifesta primariamente proprio nel prendersi cura del povero.

Un esempio particolarmente chiaro è l’episodio del giovane ricco. Gesù ama quel ricco che gli chiede come essere perfetto, non lo respinge, e proprio per questo lo invita a prendersi cura dei poveri donando loro i suoi beni e a seguirlo: “Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».” (Mc 10, 21), ma quello rifiuta e se ne va via triste. Il Vangelo sottolinea il perché di quel rifiuto: “Perché aveva molti beni” lasciando intendere che non volle rinunciarci. Ed infatti Gesù afferma dopo questo episodio: “Quanto è difficile per un ricco entrare nel Regno dei cieli” (Mt 19, 23) proprio perché sa che ciò di cui hanno bisogno i ricchi per salvarsi è smettere di esserlo, poiché il Regno, ci insegna il Vangelo, è dei poveri (“Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio.” Lc 6, 20), e di quelli che li aiutano (Mt 25, 34 “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare,…”).

Da quanto detto emerge chiaro il modo di ragionare di Gesù: non c’è confusione fra chi è povero e chi non lo è.

A volte si usa un versetto delle beatitudini di Matteo per affermare che Gesù ammette l’esistenza anche di un tipo di povertà non materiale: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.” (Mt 5, 3), in contrapposizione con il parallelo passo di Luca nel quale viene detto semplicemente “Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli” (Lc 6, 20). Con l’espressione “poveri in spirito” Matteo traduce l’originale ebraico anawim che significa sì “povero” ma con una sfumatura in più. Gli anawim infatti sono gli indigenti che accettano la loro mancanza di mezzi e ne fanno motivo per vivere la sottomissione completa a Dio da cui dipendono per sopravvivere. Potremmo dire che sono i poveri che si affidano a Dio, in contrapposizione ai ricchi che in modo arrogante si fanno forti della loro autosufficienza, allontanandosi da Dio. Un testo che può illuminarci a questo proposito lo troviamo nell’Apocalisse al capitolo terzo; è la lettera a Laodicea, una delle sette Chiese, alla quale Cristo risorto si rivolge così: "Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido (…) sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: «Sono ricco, mi sento arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo" (Ap 3, 15-17). Queste parole ci mettono in chiaro chi sono i "poveri in spirito": sono quelli che sanno di essere poveri; il contrario è l’atteggiamento di chi pretende di essere ricco, misconoscendo il proprio bisogno davanti a Dio.

Matteo pertanto nel versetto delle beatitudini citato vuole far emergere con più forza che il motivo della beatitudine dei poveri è perché accettano la dipendenza da Dio e gli si sottomettono, e non che sono poveri solo spiritualmente e non materialmente.

Poveri nostri fratelli

Oggi parliamo dei poveri subito dopo i discepoli non solo perché essi sono numericamente forse i più numerosi a comparire nei Vangeli come interlocutori del Signore, ma anche perché questi due gruppi di persone sono accomunate dal fatto di essere le uniche due categorie che Gesù chiama “fratelli”. Joseph Ratzinger, quando era ancora solamente un professore, nemmeno cardinale, scrisse nel 1960 un libro dal titolo La fraternità cristiana in cui sottolinea proprio questo, e cioè come Gesù utilizzi il termine fratelli, oltre ovviamente al senso letterale di “figli degli stessi genitori”, solo per indicare coloro che sono interni alla sua prima comunità, quelli della cerchia più intima, i seguaci più stretti, e lo usa appunto solamente quando parla dei discepoli :

Mt 12, 47-50: “Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre».”;

Mt 23, 8: “Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli.”

Lc 22, 32: [Gesù dice a Pietro] “Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli

Gv 20, 17: “Gesù le disse [a Maria preso la sua tomba]: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro».”

Gv 21, 33: “Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto.”
… e dei poveri :

Mt 25, 40, 45 : “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me … ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me.”

Ed ecco allora la prima notazione che possiamo fare, a partire da questa particolarità linguistica non secondaria: per Gesù i poveri sono membri della comunità dei “suoi”, e non perché buoni o perché lo seguono e lo aiutano nella sua missione, come abbiamo visto l’altra volta per i discepoli, ma in quanto poveri e basta. C’è una identità fra essere povero ed essere un fratello.
Potremmo dire che i poveri fanno parte della famiglia di Gesù, al di là del fatto se siano buoni o meno, cioè sono legati a Gesù da un rapporto non occasionale o volontario ma parentale, cioè stabile e non scelto.

Questo contraddice molte idee correnti circa il rapporto dei cristiani con i poveri. In ambiente cattolico essi spesso sono considerati solo gli “utenti” dei servizi della Chiesa (caritas, volontariato, servizi sociali, ecc…), un problema sociale a cui alcuni specialisti cercano di offrire qualcosa. In realtà i poveri sono interni alla Chiesa ancor prima di noi. L’aiuto concreto rivolto ad essi dai discepoli nasce proprio da questo legame parentale: se un mio familiare sta male io mi prenderò cura di lui, e non perché sono un assistente sociale o un volontario, ma perché ho un obbligo nei suoi confronti ed anche perché gli voglio bene.

Questa idea era rivoluzionaria al tempo di Gesù, ma lo è ancora oggi. I poveri infatti non sono per Gesù i destinatari di alcuni servizi messi su con l’aiuto dei discepoli, ma sono innanzitutto i primi destinatari del Vangelo. Lc 7, 18-23: “Giovanni chiamò due di essi [dei suoi discepoli] e li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?». Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?». In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!».

I discepoli di Giovanni sono mandati a chiedere a Gesù se egli sia il Messia o meno. Gesù come prova del suo essere l’inviato da Dio descrive sinteticamente la sua missione. Essa non consiste nel creare un movimento di massa, anche se le folle lo seguono e lo stanno ad ascoltare; né nel restaurare una società ebraica osservante (noi diremmo fondata sui valori cristiani), né nel creare un nuovo ordine politico e sociale, ecc… La sua missione viene presentata sinteticamente nell’elenco dei suoi interventi in soccorso dei poveri, riassunta con l’espressione “ai poveri è annunziata la buona novella”. Non ai buoni, né a tutti, ma ai poveri: essi sono i primi destinatari del vangelo. Gesù sa che questa preferenza non sarà compresa né accettata dai più e farà scandalo, ma per salvarsi bisogna accettare questa logica: “beato è chiunque non sarà scandalizzato di me.”

Lo stesso concetto è manifestato da Gesù in un altro brano di Luca (4, 18-21):
"Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l'anno di grazia del Signore.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi».”

Gesù afferma che lui è il Cristo – Messia (“mi ha consacrato con l’unzione”) e questo si realizza dando compimento alla profezia di Isaia di “annunziare ai poveri un lieto messaggio”, cioè il vangelo, che si manifesta anche attraverso un aiuto concreto ad essi di liberazione e di guarigione.

Potremmo dire che la Chiesa senza i poveri manca di una parte essenziale di sé, non di una appendice accessoria. Eppure la lamentela che si sente in giro è perché in chiesa non vengono i giovani, o le famiglie, non certo i poveri. Anzi questi sono visti con un po’ di fastidio e non sono certo i primi destinatari dell’annuncio del vangelo e in cuore dell’impegno pastorale della Chiesa.

Ai discepoli di Giovanni che venissero oggi in una parrocchia a chiedere: “Di chi siete seguaci voi? Da cosa si vede che siete discepoli del Messia e non di un maestro qualunque?” noi saremmo in grado di rispondere come Gesù?

Nella Chiesa antica questa sensibilità era molto presente. Pensiamo a Giovanni Crisostomo, a Gregorio Magno, a Paolino di Nola, ecc…

Anche più recentemente i papi Giovanni XXIII e Paolo VI hanno ripreso questo tema: “Se ne è parlato molto. Aprì il discorso il Nostro venerato Predecessore Papa Giovanni XXIII con il radiomessaggio ai cattolici di tutto il mondo, un mese prima del Concilio, accennando, fino d’allora, ai problemi che la Chiesa trova davanti a sé, dentro e fuori dell’ambito suo, e affermando che «la Chiesa si presenta qual è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei Poveri» (Radiomessaggio dell’ 11 settembre 1962, A.A.S. 54 (1962), p. 682). Questa parola ebbe un’eco immensa. Era essa stessa eco d’una parola biblica, venuta da lontano, dal Profeta Isaia (Cfr. Is. 58, 6; 61, 1 ss.) e fatta propria da Gesù, nella sinagoga di Nazareth: «Io sono mandato per annunciare ai Poveri la buona novella» (Cfr. Luc. 4, 18). Tutti sappiamo quale importanza abbia in tutto il Vangelo il tema della povertà: a cominciare dal sermone delle beatitudini, nel quale i «Poveri di spirito» hanno il primo posto, non solo nel sermone, ma nel Regno dei cieli, per continuare nelle pagine dove gli umili, i piccoli, i sofferenti, i bisognosi sono magnificati come i cittadini preferiti del medesimo regno dei cieli (Matth. 18, 3) e come i rappresentanti viventi di Cristo stesso (Matth. 25, 40).” (Paolo VI, udienza del 24 giugno 1970)

Ma oggi? Non rischiamo di inseguire un modello di chiesa che cerca di essere influente nella società con i mezzi sofisticati di questo mondo: mass media, programmi pastorali ben organizzati, impegno politico, internet, ecc…, e non di essere profetica con i mezzi poveri del Vangelo: amore per i poveri, attenzione al piccolo, fraternità, ecc...?

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