mercoledì 15 dicembre 2010

Incontro VIII (II di Avvento) – 14 dicembre 2010




Incontro VIII (II di Avvento) – 14 dicembre 2010
I poveri fratelli del Signore e nostri familiari


La volta scorsa abbiamo cominciato a parlare del rapporto di Gesù con i poveri. Dicevamo come il primo elemento caratteristico è che per Gesù essi sono fratelli, così come i suoi discepoli più vicini, gli apostoli.

Oggi vorrei provare con voi a trarre delle conseguenze da questa considerazione.

La condizione normale dell’uomo oggi, lo dicevamo diverse volte nei nostri incontri, è quella dell’individuo isolato. Abbiamo già parlato della difficoltà a riconoscere negli altri qualcuno di importante e significativo per me, un valore per la mia vita di cui non posso fare a meno e con cui desidero condividere esperienze, tempo, ecc... L’insistenza di Gesù su questo tema dei fratelli è pertanto significativa, perché ci fa capire come egli sia venuto per radunare una famiglia attorno a sé, non basata sui vincoli di sangue, ma saldata dall’amore per lui e fra di essi. I poveri, dicevamo, sono i primi membri di questa famiglia perché attorno ad essi si concentra la cura di Gesù che guarisce, consola, pedona, libera, ecc… tutte le azioni che le profezie antiche nella Scrittura avevano indicato come caratterizzanti la figura del Messia.

Vorrei partire allora proprio da questa domanda: cosa significa dire di qualcuno che è mio fratello?

Innanzi tutto è un rapporto stabile e non occasionale, richiede un lavoro di memoria (dei nostri fratelli ricordiamo il nome, il compleanno, gli eventi salienti della vita, e la consuetudine fa sviluppare col tempo un patrimonio di memorie in comune da preservare e rievocare), suscita interesse e preoccupazione (se non lo incontriamo per un po’ di tempo ci chiediamo che fine ha fatto, come sta), sentiamo la nostra responsabilità nei suoi confronti per le cose che lo riguardano, i problemi, i bisogni, ecc… Ma poi, e questo non è affatto scontato, la crescita di questo rapporto di tipo parentale ci spinge a esigere la reciprocità di un tale rapporto, perché anche noi abbiamo bisogno di essere ricordati, amati stabilmente, suscitare interesse, ecc… Per dirla in modo sintetico non è una relazione istituzionale, basata su criteri di correttezza, ma un rapporto personale, quindi con una forte rilevanza esistenziale, di amore. In base a questo, di quale povero posso dire che è mio fratello?

Il rapporto abituale con i poveri è (nel migliore dei casi): di sopportazione (perché sono molesti), di clientela (sono utenti dei nostri servizi), un rapporto occasionale e superficiale con un portatore di bisogni, ecc…

Un esempio rivelatore di che tipo è il nostro rapporto: quando facciamo qualcosa per un povero (elemosina, un favore, diamo ascolto, ecc…), lo facciamo perché così se ne va e non ci disturba più, o per legarcelo ancora più stretto, così non ci lascia e torna?

C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma". Ma Abramo rispose: "Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi". E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno". Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti".
(Lc 16, 19-31)
Nella parabola del povero e del ricco vediamo innanzitutto come solo del primo è ricordato il nome, Lazzaro, a differenza del ricco, e questo lo caratterizza subito come qualcuno particolarmente intimo, uno di famiglia per Gesù che racconta la storia. Il ricco invece è anonimo: non è un fratello per Gesù, è un estraneo. Vediamo come il rapporto fra loro due si caratterizza per il persistere di unna distanza incolmabile che li separa: durante la vita per la porta chiusa. Ma anche dopo la morte i due sono separati da un abisso (lo dice Abramo al ricco: “tra noi e voi è stato fissato un grande abisso”) che si vede bene anche nel fatto che il ricco continua a trattare Lazzaro come un suo sottoposto, qualcuno da cui ottenere servizi. Non traspare dispiacere o pentimento nel ricco: per lui Lazzaro continua a non contare niente e non rivolge a lui nemmeno la parola, ma chiede ad Abramo di mandarlo a fare ciò che lui chiede. Lazzaro non è sconosciuto al ricco, che lo riconosce dopo morto: quante volte lo avrà visto quando entrava e usciva di casa! Però non lo ha fatto mai entrare, non è uno di casa sua.

Questa è la differenza fra l’estraneità e l’essere di famiglia: far entrare nella tua vita uno che non ha niente a che vedere con te per storia, cultura, età, condizione, ecc… come fosse un parente, e cioè con la dignità di uno che ci sta non per caso o per sbaglio, come un ospite occasionale o di passaggio, ma per diritto, perché è uno di casa.
E’ uno di quei casi in cui il peccato del ricco non si esprime per qualcosa di male che ha fatto (potrebbe giustificarsi, come facciamo spesso anche noi: “ma che male ho fatto, che male c’è a fare così?”), ma nel bene che non ha voluto. La parabola del povero e del ricco ci dice come per Dio non mettere a frutto le occasioni che ci si presentano di fare il bene che è alla nostra portata (nel nostro caso Lazzaro non ambiva nemmeno ad essere invitato alla tavola col ricco, ma almeno a poter mangiare gli avanzi che cadevano da essa) equivale a compiere il male.

Una volta Giovanni Paolo II definì la Chiesa come “la famiglia dei senza-famiglia”. Questa definizione mi sembra molto bella, perché ci coinvolge direttamente.

Quanto questo sia vero l’ho capito meglio in questo ultimo tempo proprio a partire dalla storia di Mario e della casa che lo ha ospitato negli ultimi tre anni della sua vita. Tutti lo abbiamo conosciuto in questi anni che ha vissuto con noi a Santa Croce. Lui l’ha sempre chiamata casa sua, e veramente la considerava tale. Basti pensare al suo senso di ospitalità, alla gelosia con cui custodiva le chiavi e non le lasciava mai a nessuno. In tutto questo tempo non ha mai visto la sua famiglia naturale, ma ha accettato volentieri che lo fossimo noi. Riflettevo che così facendo Mario ha messo in pratica le parole di Gesù: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre". (Mt 12, 48-50)

Mario ha capito che dietro l’accoglienza in questa nuova casa c’èra il desiderio di compiere ciò che Dio vuole, e cioè che chi è solo e senza nessuno trovi una casa e una famiglia. Poche ore prima di morire avevamo parlato all’ospedale e mi aveva raccomandato di portargli alcune cose che gli sarebbero servite, come si fa con un parente. E la mattina dopo la notizia della sua morte ci è giunta dall’ospedale proprio mentre con Giuseppe stavamo organizzandoci per non lasciar Mario da solo e non fargli mancare tutto l’aiuto concreto di cui una persona malata ha bisogno.
Anche gli altri che hanno vissuto a stretto contatto con Mario hanno preso sul serio questa sua scelta di adottarli come la sua famiglia. Giuseppe, Ghebre, Slava, Franca, Ondrej, Luigi assieme a me e Patrizia, Lino, ecc… si sono presi cura di lui come fanno i familiari: lo hanno vegliato, si sono curati della preparazione, del funerale, fino alla sepoltura. Mario non è mai stato solo. Ed ora, ancora, è uno dei nostri morti, accanto a quelli che ricordiamo con più affetto.

Allora voglio dire che se è vero che la Chiesa è stata per Mario-senza-famiglia una vera famiglia, lo stesso possiamo dire di noi. Infatti anche noi davanti al Signore siamo dei senza-famiglia, perché tante volte rifiutiamo di essere i suoi fratelli-discepoli che fanno la volontà del Padre e prendiamo le distanze, rivendicando la nostra autonomia. Oggi ci rendiamo conto meglio che siamo stati trascinati da Mario a far parte assieme a lui della famiglia radunata dal Signore, ci ha considerati fratelli e ha preteso che lo fossimo, quasi nostro malgrado, vincendo freddezze, resistenze, paure. E’ stato un miracolo di cui abbiamo beneficato noi assieme a lui.

Per quanto riguarda le nostre resistenze, pensiamo ad esempio alla volta scorsa: abbiamo avuto difficoltà a fare nostro questo discorso, ci veniva spontaneo parlare di quello che avrebbero dovuto fare gli altri, piuttosto che noi. Questo un po’ è normale, pensiamo a quello che dice Gesù ai discepoli di Giovanni battista: “… ai poveri è annunziata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!”. (Lc 7, 23) Anche noi ci siamo scandalizzati e abbiamo preso le distanze da Gesù che tratta i poveri come suoi famigliari.

Anche noi come Zaccaria davanti a questa prospettiva “scandalosa”, nel senso di sconvolgente e fuori del normale, restiamo senza parole, perché facciamo fatica a credere in quello che l’angelo, cioè la Parola di Dio, ci annuncia (Lc 1, 5-ss.). Però l’angelo dice a Zaccaria muto, e a noi senza parole: “non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo.” (Lc 1, 20) Oggi abbiamo visto queste parole realizzarsi nella vita di Mario e le vedremo realizzarsi di nuovo e con altrettanta forza il 4 gennaio, quando i poveri saranno riuniti in questa casa proprio come una famiglia che si riunisce per festeggiare il Natale. Contemplare questi miracoli ci ridona la parola: “All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.” (Lc 1, 64) e oggi allora credo che veramente sentiamo il desiderio di ringraziare Dio perché ci invita a far parte assieme ai poveri della sua famiglia, ed essi in un certo modo ci forzano ad accogliere l’invito e ad uscire dal nostro isolamento di freddezza.

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