Gesù lasciata Nazareth sceglie di
fermarsi a Cafarnao, capitale della Galilea, e di qui annuncia che il regno di
Dio è vicino. Proprio per dare forza a queste sue parole egli compie una serie
di miracoli, di cui uno è raccontato nel brano che abbiamo appena ascoltato.
Si avvicina a lui un centurione, un uomo
che incarna in sé stesso il massimo dell’estraneità: come indole e modo di
vita, infatti è un soldato abituato alla violenza; politicamente, poiché è parte
della potenza colonizzatrice che opprimeva Israele; dal punto di vista
religioso, è un pagano estraneo al culto e alle tradizioni d’Israele. Un muro
separa il centurione da Gesù, ed è forse proprio quello che la gente pensa
vedendo avvicinarsi il soldato al Signore: ecco arriva un nemico di cui
diffidare, da cui difendersi.
Ma il racconto di Matteo descrive
qualcosa di imprevedibile e inatteso: quello che si realizza non è uno scontro,
né un evitarsi, ma un vero e proprio incontro, profondo e personale. Infatti il
centurione cerca Gesù e gli va incontro per primo, ma anche Gesù esprime
l’intenzione di andare incontro a lui e al suo mondo, affermando: “Io verrò” a
casa tua. E il punto verso cui l’interesse di entrambi converge e che sconvolge
ogni legge sociale e religiosa abbattendo impedimenti di carattere culturale e
legale è un umile letto dove giace un servo, paralizzato e sofferente
“terribilmente”, come tiene a specificare Matteo. Ancora una volta il fuoco di
tutta la vicenda è costituito da una persona che è un estraneo a tutti gli
altri protagonisti: non è un parente, non è una persona importante, non ha
apparentemente niente che giustifichi tanto interesse da parte di un così
grande capo militare e di un altrettanto grande capo religioso.
Quel letto di dolore è il luogo dal
quale il soldato romano aveva tratto la forza interiore per superare tutte
quelle differenze, ed è anche lo stesso a cui Gesù vuole arrivare. Senza quel
letto il centurione non avrebbe mai intrapreso il cammino verso Gesù, non gli
avrebbe parlato, non lo avrebbe incontrato e conosciuto. La fragilità di un
debole malato, il suo dolore “terribile”, è il fulcro da cui si sprigiona
un’energia che mette in moto un uomo potente, e Dio stesso. E questa energia che
stravolge la realtà così come normalmente è, piena di distanze ed impedimenti,
e piega la volontà dell’uomo e di Dio è la compassione per la debolezza. Questo
è il primo miracolo! Ogni differenza, ogni diffidenza, ogni impossibilità è
spazzata via dalla compassione.
Da questo primo miracolo sgorga il
secondo fatto straordinario: la nascita della fede in una persona che non l’ha
mai conosciuta e, in qualche modo, neanche cercata. Molto probabilmente quel
romano sapeva assai poco della fede di Israele, ma ne ha ugualmente fatto suo
il messaggio più profondo, e cioè: lasciarsi piegare dalla compassione per un
debole e affidarsi alla compassione di Dio per il debole che ciascuno di noi è.
Il centurione esprime questa sua fede nel suo dialogo con Gesù, un discorso
che, apparentemente, non ha molto a che vedere con la religione, ma che rende
evidente la comprensione profonda che il centurione matura di sé e di chi ha
difronte.
Infatti, se l’incontro con il dolore del
servo ha spalancato al centurione la coscienza della propria impotenza e debolezza
davanti al male, nonostante il rilevante ruolo sociale e militare, il suo
affetto per quel malato gli fa cercare Dio, anche senza saperlo. È quanto accade
anche nel racconto del giudizio finale in Matteo 25. C’è un grande stupore da
parte sia di quelli che Gesù chiama alla sua destra, come di quelli che pone
alla sua sinistra: “Signore, ma quando mai ti abbiamo visto..?” È il paradosso
di una fede che prima d'essere adesione a una verità, è amore praticato verso
una persona fragile. Ed è quella compassione piena di affetto che fa nascere la
fede, e senza di essa la fede è morta (cfr Gc 2,26). Possiamo dire che l’amore
per quel servo ha reso il centurione familiare di Dio prima ancora di
incontrarlo in Gesù, ed ora il fatto che il Maestro abbia accettato di recarsi a
casa sua e di guarire il servo suscita in lui il desiderio che anche la propria
debolezza e impotenza davanti al male sia sanata. Per questo riconosce con
umile ammissione, davanti a tutti, la propria indegnità, senza temere di vedere
diminuito il proprio ruolo sociale. “Signore,
io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di' soltanto una parola e il
mio servo sarà guarito.” Questa espressione è esemplare dell’atteggiamento
di fede di chi, cosciente dei propri limiti e del proprio peccato, si prepara a
ricevere Gesù nella propria esistenza perché operi il miracolo della guarigione,
tanto che nella liturgia latina sono ripetute da tutti subito prima di ricevere
il corpo di Cristo.
Gesù esprime il proprio stupore davanti
alla fede del centurione, che non solo ha avuto compassione di un semplice
servo sofferente, non solo si è fatto incontro a lui chiedendone la guarigione,
ma ha messo tutta la propria esistenza nella mani del Signore, scoprendosi
debole e bisognoso. Per Gesù è uno squarcio di regno di Dio che si è manifestato:
“presso nessuno in Israele ho trovato una
fede così grande. … molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a
mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli.”
Cari fratelli e care sorelle, quel Regno
che Gesù è venuto ad inaugurare, è piccolo come un seme, dirà poco oltre Gesù,
ma germoglia ogni volta che la debolezza di un povero ci muove a compassione e
ci fa scoprire la nostra stessa personale debolezza e il nostro comune bisogno
che sia Dio a guarirci entrambi. Facciamo nostri l’atteggiamento e le parole di
quel centurione perché il Signore venendo a casa nostra guarisca i poveri e
salvi la nostra vita.
Nessun commento:
Posta un commento