sabato 23 giugno 2018

Preghiera - Matteo 8,5-13





Gesù lasciata Nazareth sceglie di fermarsi a Cafarnao, capitale della Galilea, e di qui annuncia che il regno di Dio è vicino. Proprio per dare forza a queste sue parole egli compie una serie di miracoli, di cui uno è raccontato nel brano che abbiamo appena ascoltato.
Si avvicina a lui un centurione, un uomo che incarna in sé stesso il massimo dell’estraneità: come indole e modo di vita, infatti è un soldato abituato alla violenza; politicamente, poiché è parte della potenza colonizzatrice che opprimeva Israele; dal punto di vista religioso, è un pagano estraneo al culto e alle tradizioni d’Israele. Un muro separa il centurione da Gesù, ed è forse proprio quello che la gente pensa vedendo avvicinarsi il soldato al Signore: ecco arriva un nemico di cui diffidare, da cui difendersi.
Ma il racconto di Matteo descrive qualcosa di imprevedibile e inatteso: quello che si realizza non è uno scontro, né un evitarsi, ma un vero e proprio incontro, profondo e personale. Infatti il centurione cerca Gesù e gli va incontro per primo, ma anche Gesù esprime l’intenzione di andare incontro a lui e al suo mondo, affermando: “Io verrò” a casa tua. E il punto verso cui l’interesse di entrambi converge e che sconvolge ogni legge sociale e religiosa abbattendo impedimenti di carattere culturale e legale è un umile letto dove giace un servo, paralizzato e sofferente “terribilmente”, come tiene a specificare Matteo. Ancora una volta il fuoco di tutta la vicenda è costituito da una persona che è un estraneo a tutti gli altri protagonisti: non è un parente, non è una persona importante, non ha apparentemente niente che giustifichi tanto interesse da parte di un così grande capo militare e di un altrettanto grande capo religioso.
Quel letto di dolore è il luogo dal quale il soldato romano aveva tratto la forza interiore per superare tutte quelle differenze, ed è anche lo stesso a cui Gesù vuole arrivare. Senza quel letto il centurione non avrebbe mai intrapreso il cammino verso Gesù, non gli avrebbe parlato, non lo avrebbe incontrato e conosciuto. La fragilità di un debole malato, il suo dolore “terribile”, è il fulcro da cui si sprigiona un’energia che mette in moto un uomo potente, e Dio stesso. E questa energia che stravolge la realtà così come normalmente è, piena di distanze ed impedimenti, e piega la volontà dell’uomo e di Dio è la compassione per la debolezza. Questo è il primo miracolo! Ogni differenza, ogni diffidenza, ogni impossibilità è spazzata via dalla compassione.
Da questo primo miracolo sgorga il secondo fatto straordinario: la nascita della fede in una persona che non l’ha mai conosciuta e, in qualche modo, neanche cercata. Molto probabilmente quel romano sapeva assai poco della fede di Israele, ma ne ha ugualmente fatto suo il messaggio più profondo, e cioè: lasciarsi piegare dalla compassione per un debole e affidarsi alla compassione di Dio per il debole che ciascuno di noi è. Il centurione esprime questa sua fede nel suo dialogo con Gesù, un discorso che, apparentemente, non ha molto a che vedere con la religione, ma che rende evidente la comprensione profonda che il centurione matura di sé e di chi ha difronte.
Infatti, se l’incontro con il dolore del servo ha spalancato al centurione la coscienza della propria impotenza e debolezza davanti al male, nonostante il rilevante ruolo sociale e militare, il suo affetto per quel malato gli fa cercare Dio, anche senza saperlo. È quanto accade anche nel racconto del giudizio finale in Matteo 25. C’è un grande stupore da parte sia di quelli che Gesù chiama alla sua destra, come di quelli che pone alla sua sinistra: “Signore, ma quando mai ti abbiamo visto..?” È il paradosso di una fede che prima d'essere adesione a una verità, è amore praticato verso una persona fragile. Ed è quella compassione piena di affetto che fa nascere la fede, e senza di essa la fede è morta (cfr Gc 2,26). Possiamo dire che l’amore per quel servo ha reso il centurione familiare di Dio prima ancora di incontrarlo in Gesù, ed ora il fatto che il Maestro abbia accettato di recarsi a casa sua e di guarire il servo suscita in lui il desiderio che anche la propria debolezza e impotenza davanti al male sia sanata. Per questo riconosce con umile ammissione, davanti a tutti, la propria indegnità, senza temere di vedere diminuito il proprio ruolo sociale. “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito.” Questa espressione è esemplare dell’atteggiamento di fede di chi, cosciente dei propri limiti e del proprio peccato, si prepara a ricevere Gesù nella propria esistenza perché operi il miracolo della guarigione, tanto che nella liturgia latina sono ripetute da tutti subito prima di ricevere il corpo di Cristo.
Gesù esprime il proprio stupore davanti alla fede del centurione, che non solo ha avuto compassione di un semplice servo sofferente, non solo si è fatto incontro a lui chiedendone la guarigione, ma ha messo tutta la propria esistenza nella mani del Signore, scoprendosi debole e bisognoso. Per Gesù è uno squarcio di regno di Dio che si è manifestato: “presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. … molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli.
Cari fratelli e care sorelle, quel Regno che Gesù è venuto ad inaugurare, è piccolo come un seme, dirà poco oltre Gesù, ma germoglia ogni volta che la debolezza di un povero ci muove a compassione e ci fa scoprire la nostra stessa personale debolezza e il nostro comune bisogno che sia Dio a guarirci entrambi. Facciamo nostri l’atteggiamento e le parole di quel centurione perché il Signore venendo a casa nostra guarisca i poveri e salvi la nostra vita.

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