Terni, 13 marzo 2020
Cari amici,
come già tanti hanno sottolineato in questi giorni,
l’isolamento forzato che stiamo vivendo ci fa scoprire la bellezza di tante
cose che eravamo abituati ad avere e alle quali, forse, non davamo il giusto
valore: la celebrazione della S. Messa e i Sacramenti; la gioia dell’incontro;
una certa sicurezza della nostra salute; la possibilità di contare sull’aiuto
degli altri; la libertà di muoverci; e tante altre cose che ciascuno sa bene.
Ora non ne possiamo più godere pienamente, purtroppo non
sappiamo per quanto tempo ancora.
Questa mancanza forzata ci deve aiutare però anche a dare il
giusto valore a tutto quello che continuiamo ad avere a disposizione: una
cerchia di amici e parenti che condividono la nostra condizione; la sicurezza
economica che ne attenua le conseguenze più gravi; l’accesso alle cure mediche
gratuite ed efficaci; strumenti che ci permettono di restare in contatto,
sentirci, parlarci ed anche vederci a distanza; ecc… Per questo anche se la
situazione è oggettivamente grave, non siamo giustificati se cadiamo in un
vittimismo lamentoso, come se io fossi la persona che soffre più di tutte.
Pensiamo, in questi giorni, a quanti nel mondo quello che non abbiamo più, ed
anche quello che abbiamo ancora, non lo hanno mai avuto a disposizione, per
tanti motivi diversi: miseria personale, sottosviluppo economico, guerra,
ingiustizia sociale e oppressione politica. Proviamo ad immedesimarci con i
milioni di persone che vivono da sempre come noi viviamo oggi, ed anche peggio.
In questi giorni sono stati messe in atto molte misure per
proteggere dal rischio del contagio, ma resta un altro nemico subdolo e maligno
dal quale è difficile liberarsi: la paura. Essa, a sua volta, è fonte di tante
altre malattie che minano la nostra persona. Conosciamo bene queste malattie
spirituali: l’egoismo, la chiusura, il vittimismo autocompiaciuto, l’aridità,
la freddezza, l’egocentrismo, insomma tutti quei modi con cui il diavolo
(parola che, sappiamo bene, letteralmente significa “colui che separa”) ci
divide e ci allontana dagli altri e da Dio. Come possiamo evitare il contagio
della paura? Essa può essere vinta solo da un’unica grande forza: l’amore.
Sì, l’amore vince la paura del male. Dice l’Apostolo Paolo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?” (1
Cor 15,54-55).
E non si tratta solo di un espediente psicologico, una sorta
di diversivo per “non pensarci”. Realmente l’amore rafforza le nostre difese
interiori sviluppando “anticorpi” efficaci contro le malattie spirituali, le
quali, se apparentemente sembrano non colpire il corpo, in realtà debilitano
fino a far morire la persona tutta intera, inaridendone l’interiorità.
Non lasciamo che la paura vinca sull’amore, ci ritroveremmo
più soli, disperati, prostrati fisicamente e spiritualmente, impotenti di
fronte al dilagare del male e infragiliti dalla sfiducia.
Certo, non dobbiamo trascurare le precauzioni a cui le
autorità ci chiedono di sottoporci: esse vanno scrupolosamente osservate, per i
validi motivi che ben sappiamo. Allo stesso tempo però usiamo la creatività
dell’amore, a volte geniale, per trovare nuovi mezzi per tessere una rete
protettiva e solidale con gli altri, in modo particolare quanti soffrono come e
peggio di noi la situazione attuale. Il tempo non ci manca, ora che siamo tutti
in quarantena forzata: sfruttiamolo in modo proficuo. La tentazione, e i
messaggi che tante volte ci giungono, ci dicono di usare il tempo pensando più a
noi stessi, facendo quello che prima non avevamo modo di fare, di trovare le
nostre soddisfazioni in quello che ci piace, ecc… Ma stiamo attenti, ancora una
volta sembra che la priorità resti pensare di più a se stessi, prendendosi cura
del proprio benessere fisico e psicologico. Attenti però, perché questo rischia
di aumentare il proprio isolamento, rendendolo solo un po’ più confortevole.
Possiamo forse ricavarne un aiuto psicologico temporaneo, ma non è la
soluzione.
Credo che invece questo sia il tempo opportuno per renderci
conto che abbiamo alcuni talenti che, nella confusione un po’ nevrotica della
vita normale, abbiamo sotterrato sotto una coltre di abitudini scontate e
pigrizia spirituale, e di farli fruttare, moltiplicando, e non svilendo, il valore
del tempo che abbiamo a disposizione.
Ne faccio un breve elenco che ognuno potrà prolungare
pensando a sé e alla propria situazione.
1. Il talento della preghiera. Lo spazio del nostro silenzio in
compagnia di Dio è sempre stato poco. Il frastuono che ci circonda, le faccende
che si accavallano e le mille occupazioni corrodono il tempo della preghiera.
Aggiungiamo a questo la nostra disabitudine e pigrizia, un senso di disagio,
come chi ha a che fare con qualcosa che gli è poco familiare. Pregare è essenzialmente
dialogo con Dio. È fatto di ascolto e di risposte, di domande e richieste, di
ringraziamento, di semplice piacere di stare assieme. Possiamo leggere un brano
della Scrittura, la Parola che Dio ci rivolge personalmente, facciamolo più
volte fino a ricavarne il messaggio per noi, e rispondiamo ad esso ammettendo
il nostro peccato, riconoscendo cioè la distanza dai sentimenti di Dio, ma
anche ringraziandolo per le sue amorevoli attenzioni per noi, per la sua
vicinanza, per la sua fiducia nei nostri confronti, ritenendoci capaci di
essere migliori, più simili e vicini a lui. Non esitiamo a rivolgergli le
nostre richieste, fiduciosi, attenti a chiedere cose buone, senza però
autolimitarci: le domande audaci piacciono a Dio, perché ci legano ancora di
più a lui nel vincolo di una fiducia illimitata, come un bambino che chiede al
padre l’impossibile. Dio che è un Padre buono, ce lo concederà (Lc 11,9-ss.).
Non poniamo nemmeno il limite geografico: ricordiamo chi è lontano, isolato
(come in carcere o in istituto o in ospedale), chi non vediamo con gli occhi,
ma può essere presente nella nostra preghiera, come i migranti in Turchia, in
Grecia, in Centro America, le vittime di guerre lontane, i malati che non hanno
accesso alle cure, ecc… Dedichiamo uno spazio fisso alla preghiera, recitando
le preghiere che conosciamo (Padre Nostro, Ave Maria, ecc…), leggendo la Parola
di Dio e rispondendo ad essa, chiedendo e invocando, come dicevo. Nell’impossibilità
a partecipare alla Messa seguiamo in televisione o su internet le Liturgie che
ci sono offerte.
2. Il talento dell’amicizia. Proprio perché ci mancano, pensiamo
con più affetto ai nostri cari: non solo ai parenti, dei quali siamo più
naturalmente portati a preoccuparci, ma anche agli amici e ai conoscenti.
Alcuni è tanto che non li sentiamo, o abbiamo allentato i legami, con altri non
siamo mai andati oltre l’esteriorità formale. Proviamo a dare un contenuto più
profondo e sentito ai nostri affetti, comunicando sincera preoccupazione,
pazienza e attenzione nell’ascolto, audacia nel consiglio e nel conforto,
partecipazione non superficiale alla vita degli altri, apertura del proprio
cuore, lasciandovi entrare gli altri come in una stanza calda, adorna e
accogliente. Non sarà facile all’inizio, pensiamo bene come fare e cosa dire,
ma facciamolo, e non solo virtualmente, attraverso i social media, ma di
persona: il calore della voce, i silenzi, l’intonazione comunicano mille volte
meglio di un post o di una figurina, impersonale e fredda!
3. Il talento della solidarietà concreta. Proviamo a richiamare alla mente
quanti sappiamo vivere in situazione di bisogno, magari facciamocene un elenco
scritto. Nei momenti di crisi, come questo, i poveri sono quelli che sopportano
il peso maggiore, a volte in modo drammatico, e non hanno la forza d’imporsi
all’attenzione degli altri, semplicemente scompaiono. Pensiamo ai mendicanti
davanti al supermercato, che ora non possono più ricevere nemmeno quel piccolo
aiuto economico; a quanti vivono per strada, privi del sostegno della rete di
aiuti che più o meno permettevano loro di sopravvivere; agli anziani soli, già
fragili, ma ancor più deboli nella gestione della vita quotidiana, intristiti e
spaventati; a chi è chiuso in carcere e in istituto, senza più nemmeno il
conforto delle visite di amici e parenti; ai malati non gravi, che non possono
essere più presi in carico dalle strutture ospedaliere ingolfate da altre
necessità, ecc… Con la necessaria prudenza, ma anche con l’audacia e la
fantasia dell’amore, pensiamo come possiamo venire in loro soccorso. È
possibile per ciascuno di noi fare molto più di quanto crediamo. La paura
paralizza la mente, rattrappisce il cuore e irrigidisce le mani nel gesto del
rifiuto. L’amore irrobustisce mente, cuore e mani e fa scoprire risorse inimmaginate.
Riconosciamo in ognuno di loro il volto del fratello che ci interpella, non lo
lasceremo certo nel bisogno!
Se spenderemo per gli altri questi ed altri talenti che il
Signore ci ha donato riceveremo da lui la forza di superare questo momento difficile
e riceveremo da lui l’invito: “Bene,
servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto;
prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21).
In conclusione, cari fratelli e care sorelle, non permettiamo
al male di portare via dalle nostre vite il tesoro più prezioso che abbiamo,
quella fede in Dio che ci è stata donata fin da piccoli e che abbiamo la
necessità di alimentare e far crescere ancor di più in questo tempo. Essa è la
vera risorsa che ci permette di non cadere nello sconforto e nella
disperazione. Nella prova Dio è con noi, nella stessa barca agitata da onde e
venti contrari. Il suo esserci ci conforta e ci permette di rivolgerci a lui,
magari in modo scomposto e poco adatto, ma con fiducia che non ci lascerà mai
delusi (Lc 8,24).
Viviamo questi giorni di Quaresima con lo sguardo fisso verso
il traguardo, quella Resurrezione di vita e di gioia che non soccombe alla
forza della morte. Restiamo uniti nel vincolo della carità fraterna, nella
preghiera, nell’amore vicendevole, nei gesti concreti di preoccupazione e cura
reciproca. È questa la nostra forza, la forza debole che ci rende discepoli del
Signore, potenti di fronte al male e vincitori davanti ad ogni nemico della
vita.
Don Roberto
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