giovedì 15 dicembre 2011

Preghiera del 14 dicembre 2011 (III di Avvento)



Dal libro del Profeta Isaia 9, 1-6



Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l'opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle,
e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Madian.
Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando
e ogni mantello intriso di sangue
saranno bruciati, dati in pasto al fuoco.
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere
e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.
Grande sarà il suo potere
e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul suo regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.

Commento

Come già abbiamo avuto modo di sottolineare, in questo tempo di Avvento risuona forte l’invito della Scrittura alla gioia. Lo abbiamo udito domenica scorsa dalla lettera di Paolo ai Tessalonicese “Siate sempre lieti”, ma anche oggi lo riceviamo dal profeta Isaia in questo passo che la tradizione della Chiesa fin dai primi tempi ha letto come una profezia della nascita del Signore.

La gioia è un sentimento che sembra fuori luogo in questi tempi di crisi e i recenti fatti di volenza razzista con l’incendio di un campo di nomadi a Torino e a Firenze, ieri, l’uccisione di due giovani senegalesi ci ripropone la forza di un odio che copre come una cappa pesante la vita del nostro Paese ed esplode in modo incontrollato e assurdo. È una violenza antica, come quella di cui ci parla il profeta, quando evoca il giogo dell’oppressione, il bastone dell’aguzzino, la calzatura del soldato, il mantello intriso di sangue.

C’è una riserva di odio, serbatoi di violenza, pronti ad esplodere, frutto della predicazione irresponsabile di insofferenza per chi è diverso, ma anche dell’indifferenza e dell’egoismo di tanti che lasciano accumulare attorno a sé materiale così pericoloso senza rendersi conto delle possibili conseguenze.

Davanti a questo scenario Isaia però guarda con uno sguardo più lungo al futuro e scende più in profondità nel cuore della storia degli uomini. Per questo sa scorgere un segno di novità: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda.” Sì, nelle tenebre di un male sordamente sottostante la vita ordinaria il profeta scorge un segno di novità. Anzi, forse proprio perché il presente è buio Isaia cerca i segni di questa novità. È l’atteggiamento dell’uomo dell’Avvento, cercatore nel buio di un barlume della luce che viene a cambiare la storia.

Ma noi cosa cerchiamo? Cosa ci aspettiamo dal futuro?

In realtà troppo spesso noi cerchiamo solo il nostro personale privato futuro e ci aspettiamo solo il nostro personale privato bene. Quello mio e della mia piccola cerchia, del mio piccolo mondo. Per questo i segni del male sono giudicati il più delle volte come un fastidio da cui distogliere lo sguardo. Meglio evitare di soffermarcisi, meglio dire che sono cose che non ci riguardano, perché non possiamo farci nulla, perché fanno paura, perché non ne ho responsabilità. È il modo comune di vivere nascondendoci nell’affanno del quotidiano, dei piccoli affari ordinari, le cose da fare oggi, le priorità che non vanno oltre il salotto, la cucina e il supermercato, al massimo, con grande sacrificio, arrivano fino alla chiesa. Perfino il Natale è diventato un affare privato, da giocare fra me e la mia famiglia, il piccolo consumismo, le soddisfazioni private di un salotto addobbato e una tavola imbandita per me e i miei.

Chi vive così si illude di poter chiudere fuori dalla porta il male, ma in realtà chi vive così coltiva in sé le ragioni per cui il male si accumula ed esplode, in certe situazioni, con conseguenze imprevedibili. Chi chiude la porta crede di potersi difendere dall’assalto della violenza, dell’aggressività, della tristezza che serpeggia, del malcontento, dell’insoddisfazione, della brama di prevalere e di esercitare potere sugli altri. In realtà questi sentimenti e queste tentazioni non sono fuori della porta, ma dentro i nostri cuori e chiudendo la porta li imprigioniamo in modo definitivo.

Non è un caso che Gesù è nato all’aperto, fuori delle case e delle città, perché per incontrarlo bisogna uscire dalla propria casa, dal salotto addobbato e dalla tavola imbandita, dal proprio angolo visuale e dalla prospettiva abituale, dai giudizi soliti e dalle abitudini scontate.

Ma se usciamo da noi cosa troveremo? Non è pericoloso, non è disorientante, non rischiamo troppo?

Isaia dice: “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.” Dio nasce bambino, mite ed indifeso e a lui siamo chiamati per trovare la luce nelle tenebre.

I cristiani in ogni tempo sono chiamati a cercare e fare propria la luce di quel Signore che con la sua mitezza e umiltà di cuore ha attraversato le strade del suo mondo per svuotare i depositi di odio e di violenza accumulati dagli uomini. Sì, l’arma che il Signore ha usato e ci dona per vincere il male è la mitezza. È “l’arma” debole del Natale. A nulla vale infatti contrapporre odio a odio o aggressività ad aggressività, non serve ad altro che ad aumentare i cumuli di violenza che dividono gli uomini e li isolano rendendoli come bestie rabbiose che non sanno più nemmeno riconoscere il volto del fratello.

Oggi allora capiamo di più l’invito a vivere la gioia, perché siamo in un tempo di tenebre ma intravediamo in questo Avvento avvicinarsi la luce capace di rischiararla. È questa certezza che, pur nel dolore per quanto è successo, ci permette di guardare con fiducia e speranza al futuro. Qualcosa di nuovo può nascere, una luce nuova sta per rischiarare l’orizzonte su cui si sono addensate in pochi giorni cumuli di nuvole oscure, e questa speranza e questo futuro è una persona, Gesù. Usciamo a cercarlo, e lo troveremo, perché Dio si fa trovare da chi lo cerca!

Anzi è lui che ci cerca, perché ha bisogno di un luogo dove nascere. Gesù non si rende presente per magia o per imposizione. Non c’è bisogno di molto, basta una mangiatoia, una stalla, umili poveri pastori, perché Gesù possa nascere. Ma dove trovare questo luogo? Ci chiediamo allora oggi: la mia vita assomiglia alla semplicità accogliente di una mangiatoia, con la paglia della mitezza d’animo, o non ci sentiamo piuttosto persone piene di ragioni davanti alla vita e agli altri, pronti a rivendicare i torti subiti e ad accampare i diritti di essere accettati così come siamo, ingombranti e spigolosi come un roveto? Ci troviamo anche noi in quella stalla, luogo frequentato da pastori e animali, spazio di umiltà e poca considerazione, senza la pretesa di imporsi agli altri ma di servire e essere utile dando riparo e un tetto a chi non ce l’ha, come Maria e Giuseppe? Sono le domande dell’Avvento, perché solo se ci sapremo fare così piccoli, miti e umili ci accorgeremo che sì, veramente la luce è arrivata e rischiara il buio, Che sì, finalmente “un bambino ci è stato dato” e non siamo più orfani e abbandonati a noi stessi.

È questo il motivo della gioia profonda, sommessa, ma reale, che ci permette, pur nel dolore del presente tragico, di non sprofondare nella disperazione o di non chiudere gli occhi volgendoli solo su noi stessi vinti dalla tentazione della rassegnazione e della tristezza.

Eppure, fratelli e sorelle, è così difficile vivere questa gioia vera. Noi preferiamo l’esaltazione che ci viene quando riusciamo a imporre noi stessi, l’ubriacatura del sentimentalismo facile ed effimero, oppure il torpore della tranquillità grigia della penombra del nostro angoletto nascosto. Non sia così per noi, non rischiamo di far passare invano il Natale, mentre siamo indaffarati a farci i fatti nostri, sul palcoscenico della nostra piccola vita sul quale siamo sempre protagonisti. Chiniamoci invece umilmente fino a terra, per adorare la mangiatoia, portiamo la paglia della mitezza per preparare il giaciglio di Gesù, stringiamoci ai poveri, pastori e gente di campagna, che ci guidano fino alla stalla di Betlemme. Scopriremo che lì, in quello scenario squallido e che istintivamente ci respinge troviamo il re della pace, nostra e del mondo, colui che “viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia”. E allora diamoci da fare fin da ora a scaricare i sentimenti di avversione e divisione accumulati nei nostri cuori, a scaricare i serbatori di odio e violenza che vediamo quotidianamente accumularsi attorno a noi, contro i più deboli, come la gente che incontriamo qui il mercoledì pomeriggio o il sabato sera alla stazione. È il modo semplice e concreto di vivere l’attesa della venuta del Signore, che non si impone con la forza o l’evidenza, ma cerca un posto disposto ad accoglierlo.



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