lunedì 18 ottobre 2010

Inaugurazione casa per senza dimora - Terni, 14 ottobre 2006

Una casa per chi non ce l'ha Cari amici, siamo qui riuniti per un’occasione felice, e come in tutte le famiglie, quando c’è un lieto evento è bello condividerlo con gli intimi. E’ quello che vogliamo fare oggi.
L’occasione, come sapete, è l’apertura di una casa pronta ad ospitare un gruppo di persone che non ne hanno una. Il problema della mancanza di una dimora affligge nel mondo un numero assai largo di persone, anche in Paesi in cui ci sarebbe la possibilità senza sforzo di alloggiarne un numero forse doppio, e questa casa che andiamo ad aprire ne è la dimostrazione. Sì, senza sforzo, mi piace dirlo, perché il risultato bello di cui oggi godiamo e di cui siamo orgogliosi non è frutto di grandi fatiche, né dello sforzo di qualcuno dalle doti eroiche, non ne vedo molti qui di eroi. Le mura c’erano già, non abbiamo dovuto costruirle noi, grazie a Dio. Le risorse che sono state necessarie per ristrutturarla ci sono state donate da tanti, e di questo ringraziamo quelli di loro che sono qui, ma anche loro, credo che posso dirlo senza offendere nessuno, non hanno dovuto fare uno sforzo sovraumano per dare quello che hanno potuto e voluto.
Quello che vorrei dire è che esiste una “normalità del bene” che dovrebbe portarci a dire che il fatto che ci sia qualcuno che si preoccupa, ad esempio, di chi non ha un tetto sulla testa non dovrebbe essere qualcosa di strano o eccezionale, casomai il contrario. Piuttosto, che non si trovino a Terni posti per ospitare i senza casa quando, se ci guardiamo intorno, non mancano immobili vuoti e case sfitte, né risorse per ristrutturarle e arredarle, questo sì che deve stupirci e inquietarci. Altrimenti si corre il rischio di considerare normalità il male ed eccezione il bene, e si sa quanto sia breve il passo per arrivare a dire che ciò che è normale è giusto e va accettato così come è. È questo uno stravolgimento troppo diffuso, che noi vogliamo contestare. È un po’ quello che diceva S. Basilio, vescovo in Asia minore nel IV secolo: “Sarà chiamato ladro chi spoglia uno che è vestito e non meriterà lo stesso titolo colui che, potendo vestire un nudo, non lo veste? È dell’affamato il pane che tu possiedi; è del nudo il vestito che hai nell’armadio; è dello scalzo la scarpa che s’ammuffisce in casa tua; è dell’indigente l’argento che tu tieni seppellito. Quanti sono gli uomini ai quali puoi dare, tanti sono coloro cui fai torto”. (Basilio di Cesarea, Omelia XII, 7). Potremo continuare: è del senza dimora la casa vuota, non ospitarlo è un po’ come rubargliela.
Forse, se di una difficoltà bisogna proprio parlare, dato che sembra strano oggi fare qualcosa senza lamentarsi almeno un po’, questa difficoltà viene prima, cioè ad accorgersi e a far propri i problemi di chi ci vive accanto, specialmente quelli dei poveri. Ne parlano sociologi e psicologi, è un fenomeno sempre più diffuso nelle città, e Terni non fa eccezione, che le povertà estreme divengono talmente connaturate con il paesaggio urbano, da divenire invisibili allo sguardo dell’uomo e della donna comune. Sì, bisogna sempre più essere fuori dal comune per accorgersi di chi sta male, un po’ matti, addirittura, per fermarsi davanti a chi sta male. Sempre più, e questo dovrebbe interrogare i cristiani, ma anche i laici più avvertiti, i poveri sono infatti considerati un fenomeno sì fastidioso, ma in sostanza normale, come il traffico, il maltempo, l’aumento dei prezzi, ecc... Teorie economiche accreditate affermano che un certo tasso di povertà è connaturato con lo sviluppo e che le disuguaglianze fra chi sta molto bene e chi sta molto male è un volano che autoalimenta i processi economici a livello globale e a livello locale. Penso, tanto per fare un esempio, all’economista Edmund Phelps e la sua nota teoria che giustifica la presenza di un certo tasso di disoccupazione come fenomeno fisiologico delle società industrializzate. Si vede che lui non l’ha mai perso il lavoro e non ha mai dovuto affrontare le conseguenze della disoccupazione, e forse per questo ha ricevuto il premio Nobel. Secondo tali ragionamenti la presenza di sacche di povertà sarebbe dunque un indice di sviluppo economico e sociale. In questo senso la stagnazione economica, la penuria, il senso di appiattimento che hanno accompagnato lo stile di vita dei paesi socialisti oltre cortina di qualche decennio fa sembrano confermare tali teorie in voga oggigiorno, che contengono un sottofondo di evidenza, tanto che sembra impossibile negarne la bontà. Chi può disconoscere infatti che ovunque c’è benessere ci sono anche molti poveri? E di nuovo, noto un po’ amaramente, fra dire che “è sempre stato così” e dire che “è giusto che sia così” il passo è breve, specie se chi lo fa si trova dalla parte giusta, cioè quella dei benestanti.
Ma non vogliamo oggi addentrarci in teorie economiche e le loro giustificazioni teoriche e pratiche, solo vorrei sottolineare come un realismo diffuso ci porta ad accettare, a volte con molta facilità, come normale la disuguaglianza.
Possiamo dire che allora l’apertura di questa casa è la dimostrazione che essere poveri non è inevitabile né normale, proprio a partire dall’aspetto così macroscopico della povertà che è l’essere senza un tetto. Ha dunque il valore di profezia, cioè di incoraggiamento e testimonianza perché tante altre simili ne sorgano presto.
Ma l’apparenza inoffensiva e ridente di questa casa (e in effetti lo è, come vedrete fra poco) ha, se volgiamo, il valore della denuncia e come tale il suo sorriso è anche un urlo e uno schiaffo. Sì, un urlo di gioia per chi trova un luogo accogliente in cui vivere, ma anche lo schiaffo in faccia ad una città intorpidita che, con il suo agire e col suo lasciar correre, fa sua e sostiene l’idea della normalità della povertà.
Qualcuno potrebbe dire: ma questo è lavoro delle istituzioni. Noi cristiani dovremmo occuparci di altro. Dare casa, lavoro, mangiare alle classi svantaggiate è roba da assistenti sociali, da amministratori del Comune, da gente della politica, non da gente di chiesa. E’ contestazione frequente oggi, quando anche nel mondo cristiano si fanno strada derive spiritualiste, ma che fin dai primissimi anni del cristianesimo ha attraversato i secoli, e molti testimoni delle prime generazioni cristiane l’hanno dovuta affrontare. Ad esempio Paolino da Nola, monaco del IV secolo, nel sud Italia fondò comunità di cristiani che vivevano con fedeltà radicale al Vangelo. Ebbene volle che la casa dove la comunità dei fratelli viveva avesse al piano terra un luogo di accoglienza per i viandanti senza tetto, proprio a significare che a fondamento della vita cristiana sta un esercizio concreto e accogliente dell’amore. Ma già almeno un paio di secoli prima i padri della Chiesa, sia in oriente che in Occidente avevano colto il legame stretto che esiste fra annuncio cristiano e solidarietà vissuta. Lo testimoniano, fra gli altri, gli scritti di Giustino, cristiano romano del II secolo, che trovandosi nella necessità di spiegare il cristianesimo a chi non lo conosceva e lo giudicava male scrisse testi in cui fra le prove principali della bontà della nuova dottrina annoverava proprio l’amore per chi è nel bisogno che da essa scaturisce. Questo sforzo di autopresentarsi che coinvolgeva i primi cristiani ben presto li portò davanti alla necessità di definire con maggior chiarezza i nuclei essenziali della loro fede. Si giunse così ad affermare che se i sacramenti, e fra di essi l’Eucarestia in misura primaria, costituivano il fondamento della vita cristiana, questa non poteva essere pensata senza l’esercizio della carità verso i deboli. Anzi l’una non poteva sussistere senza l’altra e si apportano vicendevolmente forza e vitalità. Eucaristia e carità, mensa del banchetto e mensa dell’amore fraterno fin dai primi secoli della vita cristiana sono stati così legati fra loro da far dire a Giovanni Crisostomo, arcivescovo d Costantinopoli del IV secolo queste parole di grande spessore spirituale: “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Ebbene, non tollerare che egli sia ignudo; dopo averlo ornato qui in chiesa con stoffe di seta non permettere che fuori egli muoia di freddo per la nudità. Colui che ha detto «questo è il mio corpo» (Mt 26,26), confermando con la sua parola l’atto che faceva, ha detto anche: «Mi avete visto soffrire la fame e non mi avete dato da mangiare» e quanto non avete fatto a uno dei più piccoli tra questi, neppure a me l’avete fatto (Mt 25,42-45). Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo quindi a pensare e a comportarci degnamente verso così grandi misteri e a onorare Cristo come egli vuol essere onorato. Il culto più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che egli stesso vuole, non quello che pensiamo noi. Anche Pietro credeva di onorare Gesù, impedendogli che gli lavasse i piedi (cf. Gv 13,8), ma ciò non era onore, bensì il contrario. Così anche voi onoratelo nella maniera che egli stesso ha comandato, impiegando cioè le vostre ricchezze a favore dei poveri. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro” (Giovanni Crisostomo, Commento a Matteo, 50, 2-ss). E’ evidente il legame che Crisostomo indica fra corpo di Cristo eucaristico e corpo di Cristo nei poveri e la necessità di vivere l’amore per entrambe, perché ciascuno sia vero. Di questo ha scritto lungamente il nostro vescovo nei primi capitoli del suo libro Storia dei poveri in Occidente.
Questo abbiamo voluto realizzare tra noi, ed è per noi un privilegio che lo stesso tetto ospiti il luogo della celebrazione liturgica e quello del servizio ai poveri, come a sottolinearne l’unità intrinseca. La parrocchia di Santa Croce è un povero edificio, ce ne rendiamo ben conto, basti pensare che il suo tetto è stato distrutto dai bombardamenti del ’45, eppure può vantare fondamenta solidissime: quelle della preghiera e dell’amore per i poveri. Le parole della liturgia celebrata nella sala accanto a questa diventano qui vita vissuta il mercoledì, quando sono distribuiti amicizia, aiuti alimentari e vestiario a oltre 150 famiglie, e nel piano di sopra, dove diventano tetto e protezione per chi è senza casa.
Agostino scriveva a proposito del Padre Nostro: “Anche i ricchi e i nobili secondo il mondo… sono invitati da queste parole a non trattare con superbia i poveri e gli umili, poiché tutti insieme dicono Padre Nostro. Non possono pronunciare queste parole con verità e pietà se non si riconoscono fratelli.” (Agostino d’Ippona, Il discorso della montagna, II, 4,16). Sì, una comunità non può dirsi cristiana se non ha al centro delle sue preoccupazioni il culto dei poveri accanto a quello eucaristico, perché l’uno fa riferimento all’altro.
Avevo fatto cenno all’inizio al valore profetico e di denuncia del nostro impegno, ma, in conclusione, vorrei dire che non sono stati questi i motivi, per validi che siano, che ci hanno spinto a sognare fortemente e, finalmente, a realizzare questa casa. Non credo che ne sarebbe valsa la pena. La vera motivazione che ci ha spinto infatti non è stato tanto il desiderio di dimostrare che era possibile, né di denunciare istituzioni o privati che si disinteressano. Non ci sentiamo i pierini primi della classe, né crediamo che fare qualcosa di buono dia diritto a sentirsi migliori. No, noi siamo partiti invece da una storia che assomiglia ad una fiaba per bambini.
Tutti noi conosciamo le storie del libro della Genesi, perché sono strane e interessanti: la creazione del cosmo, con tutte quelle descrizioni così affascinanti; Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, il diluvio e l’arca di Noè con tutte le specie animali, la torre di Babele e la confusione delle lingue, e tante altre. E’ come se Dio, all’inizio della storia dell’uomo, lo abbia voluto istruire con favole accattivanti e profonde, capaci di scuotere la sua fantasia un po’ bambina.
Una di queste storie narra di due fratelli, Caino e Abele, i primi due fratelli dell’umanità. E’ chiaro fin da subito che Dio ha scelto la loro storia per dirci qualcosa di importante, e niente in essa è casuale. Il nome Abel in ebraico significa “soffio”: ha il peso lieve delle vite di tanti esseri umani fragili, così deboli da essere come un soffio, tanto che è facile, direi normale, non accorgersi nemmeno di loro. E’ quello che avviene, dicevamo poco fa, per molti poveri ancora oggi. Dio, stranamente, ci ha voluto presentare i primi due fratelli dell’umanità non come il buono e il cattivo, il malvagio e il virtuoso, come sarebbe forse venuto spontaneo a ciascuno di noi. No, Caino e Abele sono innanzitutto il forte ed il debole. Solo in un secondo momento, quando Caino vede l’amore protettivo di Dio per Abele il debole, la sua predilezione per chi ha la vita fragile e lieve come un “abel”, un soffio, solo allora Caino sviluppa l’invidia e il rancore che porteranno, come sappiamo, al fratricidio. Da allora, cioè fin dai primi passi dell’umanità, risuona la domanda preoccupata di Dio: “Dov’è Abele, tuo fratello?” Fin da allora Dio, ansioso per i tanti “abel” di tutti i tempi e di tutti i luoghi si aggira per il mondo e rivolge a ciascuno la stessa domanda: “Dov’è Abele, tuo fratello?” Lo fa con preoccupazione e ansia, sapendo quanto la vita degli “abel” del mondo sia legata veramente ad un soffio, il soffio di vita che egli gli ha donato, e null’altro li protegge.
Ecco cari amici perché abbiamo fortemente voluto questa casa, per poter rispondere a Dio “Eccolo, Abele è qui con noi, stai tranquillo è al riparo”. Forse ci accontentiamo di poco, è una motivazione da bambini, come da bambini è la storia di Caino e Abele. Ma forse, se impariamo a guardare la nostra città con occhi da bambini diventiamo capaci di accorgerci dei poveri, diventati trasparenti agli adulti. Forse, come quei bambini dalle domande un po’ imbarazzanti nella loro semplicità ed evidenza, realizzeremo che sono tanti, troppi, e che non è normale che vivano così male. E come bambini siamo contenti perché oggi è una bella giornata, e ce la ricorderemo per sempre.



Mi chiamo Patrizia e vorrei raccontare un po’ del nostro incontro con tante persone che vengono qui a chiedere un aiuto. Qualcuno, tempo, fa, mi ha chiesto chi me lo fa fare, stupito che dopo le faccende di casa avessi ancora la forza e la voglia di occuparmi anche di altra gente che non sono miei parenti. Ho fatto caso che quelli che me lo dicevano sono poi gli stessi che si lamentano sempre, sono insoddisfatti e vittimismi. Forse, mi sono detta, a me non viene tanto da lamentarmi perché incontro gente che ne ha invece motivo e perché mettere in pratica il Vangelo aiuta ad essere felici. Gesù stesso ci invita a farlo e come gli Apostoli, ci chiama a costruire una chiesa non di pietre, ma di uomini e donne, e di persone qui ne incontriamo veramente molte ogni settimana. Il materiale da costruzione non ci manca.
Quando circa tre anni fa abbiamo cominciato ad accogliere le persone che ci chiedevano aiuto, ad andare a trovare gli anziani all’istituto “Le grazie”, a preoccuparci di chi è senza dimora, ci sembrava un compito molto arduo, soprattutto perché avevamo paura di non averne le forze. Chi farà tutto quello di cui c’è bisogno. Eravamo pochi e senza mezzi. Prima di tutto ci siamo affidati alla preghiera che fedelmente ogni mercoledì ci accompagna qui nella cripta e poi la domenica a messa; ci siamo affidati alle mani del Signore e abbiamo cominciato a mettere su le pietre di questa chiesa viva, e oggi le mura hanno anche un tetto che ripara tanti.
Abbiamo incontrato molte difficoltà, e tuttora capita, è normale. Ma se all’inizio eravamo solo in quattro ora sono molti gli amici e le amiche che ci aiutano. Abbiamo scoperto che il bene fatto con passione e cuore è contagioso. Ma non solo sono venute persone giovani ad aiutarci. Vorrei raccontarvi la storia di mia madre, 82 anni, con difficoltà ad uscire di casa. Per fortuna abita sopra casa mia e posso aiutarla a restare a casa sua. Le ho parlato del nostro impegno e le ho raccontato la storia di due persone, una donna e suo figlio giovane con qualche problema, che avevo incontrato qui e che non avevano casa. Mia madre, come tutte le persone di una certa età, hanno conosciuto la durezza della vita. Quando era ragazzina la fame era una realtà mai del tutto debellata e si affacciava di tanto in tanto in famiglia, come anche il freddo e la paura, in guerra, sotto le bombe. Forse per questo mi chiedeva spesso di loro, finché un giorno mi ha proposto di farli venire a dormire a casa sua. Ha una stanza libera e non pensava giusto lasciarla vuota. Così sono stati da lei per molti mesi, finché non hanno trovato una sistemazione migliore in un’altra città.
Quando abbiamo iniziato il nostro impegno qui con la gente venivano 30/35 famiglie. Alcuni ci suggerivano di porre dei limiti, come ad esempio quelli dei confini parrocchiali, altri di fare una specie di “test di povertà” per capire chi veramente aveva bisogno. Ma come si fa a mettere un limite all’amore? La carità fraterna non conosce confini, nemmeno quelli parrocchiali. Gesù è arrivato a guarire e sfamare gente anche fuori dai limiti del suo popolo e della sua regione. Ci siamo allora affidati a lui e questo ci ha fatto escogitare tanti sistemi per far sì che oggi, pur venendo fra le 100 e le 150 famiglie a settimana, non mandiamo mai nessuno a mani vuote. A Terni infatti il mangiare non manca, anzi tante volte si spreca. Con pazienza e un po’ di furbizia ci siamo messi allora a cercare i modi per recuperarlo. Tutte le settimane alcuni forni, pizzerie e bar ci regalano, la sera, i prodotti che non hanno venduto. Poi il sabato andiamo davanti ai supermercati per raccogliere i prodotti che la gente che fa la spesa compra in più per noi. Così facendo abbiamo visto moltiplicarsi quei pochi pani che avevamo in mano e tanti ora se ne saziano. Le persone che vengono sono tante e di lingua, nazione e religione diversa. Noi li conosciamo uno ad uno, sappiamo quanti sono in famiglia, conosciamo i loro bambini, e per noi sono ormai parte della nostra famiglia.
Ci mancava però questa casa per i senza dimora. Vedere tanta gente dormire alla stazione o su qualche panchina, soprattutto in inverno, ci ha dato la spinta per realizzare questa casa.
Ringraziamo tutti quelli che ci aiutano e ci sostengono anche con la loro preghiera. Abbiamo scoperto come voler bene agli altri, specialmente i più deboli, ci fa essere più felici e meno preoccupati di noi stessi, vogliamo allora dirlo oggi: tenere questa porta più aperta ha fatto sì che imparassimo a conoscere Gesù come doveva essere in Galilea. Stanco, debole, desideroso di essere aiutato ed accolto. Noi proviamo a farlo.

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