martedì 19 ottobre 2010

Scuola del Vangelo 2010-11 - I incontro 20 ottobre 2010



I incontro - 20 ottobre 2010



Con questo incontro odierno iniziamo un nuovo anno e ci piace farlo assieme alla Parola di Dio.
Partiamo proprio da questa constatazione: un anno è passato e ci prepariamo ad aprirne un altro. Potremmo dire: perché sottolinearlo? Già ce lo ricordano tanti segni, di cui molti ci infastidiscono e preoccupano: qualche capello bianco in più, quella ruga fastidiosa, ecc…
Per noi cristiani però il passare del tempo non è una maledizione. Già l’anno scorso abbiamo parlato del fatto che la storia, dell’umanità intera e quella personale di ciascuno, ha un senso, una direzione, uno scopo, non è solo un semplice dato anagrafico, perché ha il senso di un dono ricevuto e di una occasione offerta.
Sì il tempo della nostra vita è un dono, perché non abbiamo fatto nulla per meritarlo. Ce ne rendiamo conto specialmente se lo confrontiamo agli anni “rubati” ai tanti che vedono troncata o negata la vita dalla violenza o dal male nelle sue diverse forme, per lo più assurde. Sabato scorso, 16 ottobre, ad esempio, ricorreva il 67° anniversario della deportazione degli ebrei da Roma ad opera dei nazisti. Racconta Fausto Cohen, uno degli scampati alla deportazione:


“Quel 16 ottobre era un sabato, giorno di riposo per gli ebrei osservanti. E nel Ghetto i più lo erano. Inoltre era il terzo giorno della festa delle Capanne. Un sabato speciale, quasi una festa doppia … La grande razzia cominciò attorno alle 5.30. Vi presero parte un centinaio di quei 365 uomini che erano il totale delle forze impiegate per la “Judenoperation”. Oltre duecento SS contemporaneamente si irradiavano nelle 26 zone in cui la città era stata divisa per catturare casa per casa gli ebrei che abitavano fuori del vecchio Ghetto. L’antico quartiere ebraico fu l’epicentro di tutta l’operazione … Le SS entrarono di casa in casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno … Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco più in là del Portico d’Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli. Non venne fatta nessuna eccezione, né per persone malate o impedite, né per le donne in stato interessante, né per quelle che avevano ancora i bambini al seno …”. (F. Cohen, 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma, Firenze, La Giuntina 1993.)


Alla fine di quel sabato le SS registrano la cattura di 1024 ebrei romani. La maggior parte fu uccisa, due giorni dopo, nel campo di Auschwitz, nelle camere a gas, immediatamente, al loro arrivo. Ne sono tornati 16, di cui una sola donna (Settimia Spizzichino). Nessuno dei 207 bambini è sopravvissuto.
Questi dati ci fanno riflettere: quanti anni di vita donati da Dio a quei 1024 ebrei romani sono stati rubati dalla furia nazista? Il conto è impossibile, ma una cosa è certa: noi siamo stati preservati e ne continuiamo a godere con larghezza.
A partire da questa storia recente ci chiediamo: “perché la nostra vita è stata preservata?” C’è un mistero nel privilegio di cui siamo stati fatti oggetto. Non può essere una cosa casuale o senza senso, deve avere un significato. E’ la domanda di fondo di ogni esistenza umana, ma per i discepoli del Signore Gesù assume un valore ancora più grande: è il mistero dell’incarnazione, del perché del suo amore così testardo e tenace per un’umanità traditrice e dimentica.
E’ una domanda che non si può sfuggire, anche se in tanti modi evitiamo di farcela porre.
La coscienza del privilegio che abbiamo è rara, perché noi siamo portati a vedere solo quello che ci manca e assai poco quello che abbiamo in più degli altri, come ci ricorda la Scrittura: “Nella prosperità l'uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono.” (Sal 49, 21)
Per questo possiamo dire che la storia, il tempo della vita dell’uomo è, oltre a un dono elargito, anche un’occasione offerta. Sì perché la coscienza di essere stati preservati dal male e dal furto della vita ingiustamente subita da tanti ci pone implicitamente una domanda esistenziale, profonda: “che cosa ho fatto della vita che ho ricevuto in dono?”
Vivere infatti è una grande opportunità, un susseguirsi di occasioni, di incontri, di possibilità che non sono scontate, ma sono vissute secondo la nostra scelta. Noi possiamo decidere cosa fare del dono della vita, della lunghezza degli anni che abbiamo a disposizione.
I cristiani infatti sono stati liberati dall’idea del destino che avevano i pagani. Secondo il loro modo di pensare il futuro di ciascuno era deciso dal capriccio degli dei, nessuno poteva sfuggire al disegno che era stato previsto per ogni individuo. E’ quel senso cupo, drammatico che caratterizza le tragedie greche, in cui emerge con evidenza l’impossibilità dell’individuo di sfuggire dal tragico gioco degli dei sul proprio destino. Ma è una idea ancora molto presente ai nostri tempi, che si esprime magari con termini nuovi: il carattere, la psicologia, l’essere fatti in un certo modo, l’impossibilità a cambiare, la rassegnazione, ecc… Ogni volta che pensiamo che la realtà, personale o di certe situazioni, non può cambiare ribadiamo che esiste un destino preordinato da cui non si sfugge.
Questa è una prigione, perché impedisce di uscire dal dato di fatto e di trovare prospettive nuove per la vita, ma è anche la protezione dalla responsabilità di decidere cosa fare della vita. E non solo la propria, ma anche quella degli altri: quando diciamo “questa persona sarà sempre così” o “quella situazione non potrà mai cambiare”, automaticamente ci mettiamo al riparo da ogni responsabilità di potere o dovere fare qualcosa.
Già l’ebraismo (pensiamo ad Abramo a cui Dio propone di scegliere il proprio futuro) ma poi il cristianesimo, con ancora più evidenza, pone all’uomo la necessità di decidere il proprio destino: pensiamo alla parabola dei talenti. A ciascuno è lasciata la libertà totale di utilizzare come meglio vuole la ricchezza sconfinata ottenuta in dono (cinque, due e un talento), ma questo li rende anche responsabili: “Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.” (Mt 25,19). Il Signore non solo offre a ciascuno di essi una ricchezza spropositata (1 talento corrisponde a 32,7 Kg di oro, per un valore attuale di circa 672.000 Euro, quasi un miliardo e mezzo di lire) ma gli da anche “molto tempo” prima di chiedere loro conto di che cosa ne hanno fatto.
È lo stesso “molto tempo” della lunghezza della nostra vita, di cui ci verrà in qualche modo chiesto conto: “cosa hai fatto in tutto questo tempo dei beni ricevuti in dono?”
Questa domanda è allo stesso tempo una grande gioia e un dramma profondo: per i primi due è occasione di rallegrarsi col padrone per la moltiplicazione della ricchezza ed è l’inizio di una vita ancora più ricca. Per il terzo però è l’inizio della propria autocondanna. Infatti lui ridà quello che ha ricevuto, e niente in più. Non ha perso nulla, ridà lo stesso che ha ricevuto, e questo gli sembra già molto, perché aveva paura.
Quel padrone ci sembra ingiusto ed esagerato: invece di rallegrarsi che non ha perso nulla si adira col servo che restituisce solo quanto ha ricevuto. Sì, perché il suo dono è stato inutile, non è servito a nulla. Questa per Dio è la cosa più odiosa: tenersi tutto per sé per paura di perdere, non scegliere per paura di sbagliare, non fare per timore di doversene poi pentire.
Se quel servo avesse perso tutto (diciamo come il figlio prodigo che sperpera i beni ma è accolto con gioia dal padre) o fosse rimasto vittima dei briganti (come l’uomo derubato e malmenato sulla via da Gerico a Gerusalemme) sarebbe stato oggetto della misericordia, del perdono e dell’accoglienza gioiosa di Dio. Ma quello che Dio non può sopportare è il rendere inutile il dono ricevuto.
Per tornare alla nostra riflessione iniziale: la vita è un dono ricevuto e preservato in noi, ma è anche una opportunità da mettere a frutto. Noi che ne abbiamo fatto?
Vorrei negli incontri che seguono provare a porci questa domanda e cercare nella scrittura una via da percorrere per trovare una risposta.


Oggi chiediamoci:

Come riaffermiamo l’esistenza del destino, a parole e con i fatti?
Ci poniamo mai la domanda sul perché la nostra vita è stata preservata, sulla responsabilità di cosa ne facciamo?
In quali modi noi evitiamo di porci questa domanda. Come sfuggiamo, quali scuse… ?

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