martedì 26 ottobre 2010

Scuola del vangelo 2010-2011 - II incontro 27 ottobre 2010

La volta scorsa dicevamo che per essere cristiani non si può fare a meno di mantenere una domanda interiore aperta, come un interrogativo esistenziale, sul senso della vita, sul perché dell’essere stati preservati, a differenza di molti altri, e sul che ne faccio io del dono della vita e delle innumerevoli opportunità che essa mi offre. Ora non dico che ogni giorno, ogni momento bisogna porsi queste domande, saremmo un po’ ridicoli, ma farvi riferimento nelle scelte, anche quelle apparentemente poco significative, sul come spendiamo il nostro tempo, le nostre energie, le risorse che abbiamo a disposizione, i talenti per riprendere l’espressione del Vangelo che usavamo l’altra volta.
Si tratta di vivere svegli, non assopiti nell’abitudine.
Questa infatti è probabilmente la più grande malattia dell’uomo e la donna adulta: siamo in grado di dire per ogni cosa che facciamo quel è lo scopo, se veramente vale la pena, se rientra nelle priorità della nostra vita o se non lo facciamo solo perché lo abbiamo sempre fatto o perché lo fanno tutti?
Potremmo dirci: ma perché porsi tutte queste domande e rendersi la vita così complicata? Non è meglio barcamenarsi come fanno tutti, magari sforzandosi un po’ di più, questo sì, di fare meglio? In realtà la necessità di vivere con una, o anche più, domande aperte è per “combattere la buona battaglia … e conservare la fede”, per parafrasare la lettera di Paolo a Timoteo che abbiamo ascoltato domenica scorsa alla liturgia, cioè è questione della nostra salvezza.
Noi spesso siamo più disposti a sottostare a esigenze moralistiche, che si conciliano benissimo con la vita pigra di chi non si lascia interrogare, perché non sono stringenti e ultimative. Cioè siamo molto più disponibili ad ammettere di non correre abbastanza, quanto dovremmo, sulla strada della vita piuttosto che interrogarci se stiamo sulla strada giusta. Poi ci lamentiamo che è tanto difficile, che come si fa’, che non si può fare tutto, ecc… Ma la facilità con cui diciamo questo dimostra proprio che non abbiamo presente che ne va della nostra salvezza.
Vi faccio un esempio: se noi stessimo per precipitare in un burrone e avessimo come unica possibilità di salvezza afferrarci con tutte le nostre forze ad un ramo che esce dal suolo non ci verrebbe certo in mente di lamentarci se aggrapparsi è troppo faticoso o sappiamo come fare: lo faremmo con tutte le nostre forze e ringrazieremmo Dio che quel ramo sta lì, sennò saremmo già morti. Ora la questione che ci poniamo è la stessa: se noi ascoltiamo il Vangelo e viviamo la nostra fede come uno sforzo moralistico siamo sempre lì a pensare se vale la pena, se siamo capaci, se ci fa fatica, se ce la facciamo, ecc… Se invece ne facciamo una questione di salvezza saremmo disposti a mettercela tutta, pur di non precipitare.
Infatti non ci mettiamo nulla a dire che dobbiamo sforzarci di più, che dobbiamo essere più impegnati e solleciti, che dobbiamo sforzarci di più, ma meno disposti a farci dire che forse camminiamo sulla strada che non porta a niente, che dobbiamo cambiare via, cioè convertirci. Se ci poniamo questa domanda magari scopriamo anche che io mi affatico o mi affanno per, sto male per, sento la mancanza di, punto a tante cose che non valgono affatto la pena di tanta fatica, mentre magari se facessi lo stesso o anche meno sforzo nella direzione giusta otterrei molto di più in senso, felicità, soddisfazione, vita piena.
E’ quello che dice Gesù nel Vangelo di Marco: “Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: "Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!". I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; … Pietro allora prese a dirgli: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito". Gesù gli rispose: "In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.” (Mc 10,23-24;28-30)
Pietro ha fatto la cosa giusta, ma, in modo moralistico, la presenta come un sacrificio e una rinuncia a ciò che veramente lo avrebbe reso felice. E’ un prezzo da pagare. Gesù gli risponde dicendogli che non ha perso proprio nulla, anzi ha guadagnato molto, perché ha preso la strada giusta, lasciandosi dietro ciò per cui non valeva la pena affannarsi tanto.
L’altra volta accennavo all’esperienza che tutti facciamo del tempo che passa. Le nostre esistenze avvertono un progressivo intorpidimento del corpo e dello spirito che ha delle conseguenze concrete molto evidenti: uno fa più fatica a ricordare, si stanca più rapidamente, il corpo ormai comincia ad aver vissuto qualche annetto ed ha i suoi acciacchi. Questo è un processo naturale.
Ma esiste anche un intorpidimento dello spirito che di norma accompagna il passare degli anni, ma questo non è un processo naturale, è il frutto della scelta di non mantenere viva e aperta quella domanda di fondo a cui accennavo.
Cosa vuol dire intorpidimento dello spirito?
Non è facile accorgercene, perché assume aspetti di grande normalità. Ad esempio ci capita più spesso di avere paure, timori e apprensioni che prima non avevamo. Siamo come più legati da mille vincoli, meno liberi di muoverci come vorremmo, di fare quello che vorremmo, e lo giustifichiamo con meno rammarico, come una cosa naturale e che non ci pesa molto. Facciamo molta fatica ad ammetterlo, ma talvolta, e prima ci sembrava di non essere così, ci scopriamo con dei pensieri e delle riflessioni prese da una preoccupazione di avarizia. Prima ci pensavamo di meno, avevamo meno impacci e remore, meno cose ci sembravano impossibili, impensabili, irrealizzabili. Le giustifichiamo, quando riusciamo a coglierle, come un'esigenza di sana gestione delle proprie risorse e forze, ma in realtà, spesso poi volgono facilmente in un atteggiamento di vera e propria avarizia umana.
Ci si accontenta più facilmente di quello che da più giovani non ci bastava, perché volevamo di più dalla vita. Oggi ci sembrano illusioni giovanili, mancanza di realismo, irruenza e imprudenza.
È come se ogni anno potassimo un po’ di rami perché si fa fatica a portare linfa dappertutto, ci si restringe al tronco, allo stretto indispensabile. Si tende a fare sempre più solo quello che ci viene facile, naturale, a cui siamo abituati: cose nuove o insolite ci infastidiscono, perché bisognerebbe imparare, sforzarsi, inventare.
Poi con il passare degli anni si prova una sempre maggiore tenerezza e indulgenza per sé per come si è fatti, con i tic psicologici (“a me questo proprio non va, quello non lo sopporto, non chiedermi questo che io non so farlo”, ecc…), si tende ad accettarsi molto di più così come si è e, in fondo, a piacersi così come si è, e i difettucci che magari un tempo ci davano fastidio oggi ci sembrano così parte di noi che ci rendono più originali o con più personalità.
Un esempio pratico di questo atteggiamento è la facilità con cui accettiamo che il nostro tratto umano predominante sia quello brusco, di quella aggressività spacciata per franchezza. Il pretendere di “dire le cose così come le penso” o “così come stanno” che in realtà è la giustificazione per dire la prima cosa che passa per la testa come fosse la verità, senza bisogno di dover andare a fondo o tenere conto chi si ha davanti. E questo è il modo più violento per tagliare fuori l’altro che ho davanti: chi è lui, come è fatto non conta, quale è la sua sensibilità, quale può essere l’effetto di quello che dico, e poi, banalmente, se sono sicuro che è vero o giusto quello che dico.
Gli altri, è ovvio, devono solo accettarci così come io sono perché questa è la verità di me stesso. Questo esempio è un aspetto di quel più complessivo “accettarsi così come si è”, che talvolta volge rapidamente in vero e proprio compiacimento.
Oppure, un altro esempio, ci pensiamo come “tipi pratici”, più portati a “darsi da fare” più che a stare con le persone, perché ci imbarazziamo o non vogliamo fare la fatica di parlare, ascoltare, incontrare, ricordare.
Infine, ultimo esempio, l’accettazione acritica e anch’essa un po’ compiaciuta della propria ignoranza, per il rifiuto di informarci, convinti che tanto le cose poi le capisco, magari facendo una sintesi che semplifichi: è tutto un po’ la stessa cosa, nel calderone di quello che già conosciamo il brodo ha un po’ sempre lo stesso sapore e non c’è bisogno di sottilizzare. Un’ignoranza che finisce per essere accettata. Finisce per non essere combattuta. Rinuncia alla curiosità, all’interesse per cose nuove, abitudine al già noto.

Tutte queste cose ci riportano alla domanda iniziale: vivo io con una domanda aperta sul senso, il valore, lo scopo della vita?

Quanto nascondo queste domande dietro il muro delle abitudini che mi evitano domande e fatica?

Quanto accetto come normale e anche un po’ piacevole la mia naturalezza, così come sono fatto, cioè l’umanità non lavorata dal cesello della conversione che riesce a tirare fuori dal materiale grezzo le opere d’arte di una vita più umana?

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