domenica 24 marzo 2013

Domenica delle palme - 24 marzo 2013

 
 

Processione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: dal vangelo secondo Giovanni 12,12-16

In quel tempo, la grande folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!». Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro d’asina.» I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte.

 

Dal libro del profeta Isaia 50,4-7

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.

 

Salmo 21 - Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, +
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d’Israele.


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 2,6-11

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

 

Lode a te o Signore, re di eterna gloria

Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Lode a te o Signore, re di eterna gloria

 

 

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca

Lc 22,14-23,56

 

Commento

 

Cari fratelli e care sorelle, la liturgia di oggi ci guida fra le strade di Gerusalemme a farci compagni del Signore che entra nella città santa e da essa uscirà, di lì a pochi giorni, per essere crocefisso fuori. È l’itinerario paradossale di colui che in un primo momento è accolto dalla folla come un re, titolo che Gesù accetta come suo e che non rifiuta, anzi. Per tutta la sua vita Gesù si era proposto come un re, anzi un pastore buono che guidasse il popolo alla salvezza. Ma appena la folla che lo acclamava si rende conto di quale signoria è quella di Gesù e che tipo di re esso voglia essere ben presto lo rifiuta e lo espelle come un rifiuto, degno nemmeno di essere ucciso al suo interno.

Infatti nella folla siamo anonimi e ciascuno può essere se stesso senza timore di doversene assumere la responsabilità. Lo vediamo durante la passione: chi grida crocifiggilo? Tutta la folla, unanime e violenta nell’accusare un innocente, ma su chi cade la responsabilità? Su nessuno. Nell’anonimato della folla ci si fa comodamente trascinare dall’opinione di tutti, senza dover decidere e scegliere, basta fare come fanno tutti, e ogni difficoltà è risolta, ogni responsabilità assolta. Per questo la folla rifiuta Gesù, grida a Pilato che lo elimini, perché non vuol essere il suo gregge, dove ognuno sceglie chi seguire e dove ognuno ogni giorno vede e decide il cammino che il pastore indica. È molto più facile essere una folla anonima.

Così è anche per noi. A noi piace distinguerci, essere originali, emergere. Non ci piace sentirci aggregati in un popolo. Ci piacere decidere da noi le strade da percorrere, non seguire come pecore il gregge; ci piace seguire i nostri gusti e scegliere le nostre priorità, non farcele indicare da un altro; preferiamo essere conosciuti e stimati per ciò che ci distingue dagli altri, il tratto originale, piuttosto che per la docilità nel seguire la guida di un altro. Da qui la difficoltà a prestare attenzione alla Parola di Dio, a farla scendere dentro di noi, a restarle fedeli per tutta la settimana.

Eppure, è proprio quando gli apostoli si confondono anch’essi con la folla e si disperdono dal piccolo gregge degli amici e discepoli di Gesù, cioè durante la passione, quando si ritrovano da soli e devono fare i contri ognuno per conto suo con le sfide che la vita pone loro innanzi, è proprio allora che essi fanno emergere la parte peggiore di sé. Quando il pastore è imprigionato e il gregge viene disperso ciascuno si nasconde per conto suo, pauroso e dimentico, e tradisce l’amico che non li ha mai abbandonati. Così è anche per noi: quando ciascuno avrebbe l’occasione per mostrare quanto vale e quanto preziosi e brillanti sono i propri talenti, cioè quando siamo posti da soli davanti alle scelte della vita, è proprio allora che restiamo sgomenti e senza parole, perché non abbiamo il pastore buono a indicarci la via giusta del bene.

Dicevamo che il popolo che prima aveva accolto Gesù come un re, poi ad un tratto grida “crocifiggilo”. Perché questo cambiamento così deciso? Perché Gesù anche da re non smette di proclamare il suo Vangelo, e lo fa non esercitando il potere forte del re, ma la debolezza del pastore buono, mite e pieno di amore e di misericordia per il suo gregge. Questo è un grande scandalo per il popolo. Che se ne fa di un re debole, che si lascia umiliare, che affida alla forza dell’amore la sua signoria sulla terra? Il popolo ha bisogno di un re forte, potente della forza delle armi, arrogante del potere di schiacciare e opprimere gli altri. È questa la forza che gli uomini rispettano e desiderano. Chi rispetta il potere di amare gratuitamente e fino in fondo? Chi ammira la debolezza di chi si affida alla riconoscenza del fratello per il bene ricevuto?

Per questo la folla di Gerusalemme, e ogni folla nella storia, anche oggi, rifiuta Gesù: è un re, un pastore, una guida che non vale niente, anzi anche pericolosa, da eliminare.  

Cari fratelli e care sorelle, noi purtroppo ci siamo abituati all’immagine del crocefisso, ma esso deve restare anche per noi motivo di grande scandalo, come dice S: Paolo, perché è il vero volto di Dio, che pur di amarci fino alla fine, accetta di presentarcisi con il volto dell’umiliato, dello sconfitto, del perdente.

Diciamo: dove pensa di portarci Gesù se accettiamo lui come re? Uno che non sa nemmeno salvare se stesso dove pretende di condurci? Che ce ne facciamo di un Dio sconfitto e umiliato sulla croce, noi abbiamo bisogno di uno che ci faccia trovare la nostra strada di sicurezza e salvezza? Sono le domande della Settimana Santa, le domande dei dodici che fuggono e si disperdono, la domanda di Pietro che cerca calore ad un fuoco che non lo può scaldare e rimane freddo davanti a Gesù in tribunale e lo rinnega per tre volte.

Papa Francesco ha bene espresso questo rifiuto spontaneo che ci viene: “Lo stesso Pietro che ha confessato Gesù Cristo, gli dice: Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo. Io ti seguo, ma non parliamo di Croce. Questo non c’entra. Ti seguo con altre possibilità, senza la Croce.” (omelia della prima messa con i cardinali).

Il crocefisso ci impone una scelta: a quale vangelo, cioè a quale promessa di salvezza, vogliamo affidarci? Il mondo ha da proporci un suo vangelo più sicuro, che possiamo riassumere nell’invito beffardo e spietato che rivolgono i passanti sprezzanti al Signore crocifisso e agonizzante: “Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: “Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto”. Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. (Lc 23,35-37)

“Pensa a te stesso!” è la salvezza che il mondo propone a noi e a tutti gli uomini, “preoccupati della tua salvezza, mettiti al sicuro, evita di finire male, occupati di te stesso!” sono gli articoli di quel “vangelo” del mondo che offre la salvezza all’uomo moderno illudendolo  che ci si può salvare da sé, evitando il contagio del male e chiudendosi in un cupo individualismo egoista. Eppure sono pensieri così comuni, a cui quasi nemmeno facciamo più caso, perché si ammantano di buon senso e di realismo, e per questo tante volte, purtroppo, li facciamo anche nostri.

A questo “vangelo” del mondo Gesù però non cede, e non scende dalla croce. Non salva se stesso perché egli è venuto al mondo per salvare gli uomini: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo” affermiamo nel Credo. Al “vangelo” del mondo egli contrappone il suo Vangelo, vero annuncio di salvezza, che, all’opposto, individua la propria salvezza nell’offrire tutto se stesso agli altri. Sì, è l’amore gratuito, pacifico e mite di Dio, che tutto perdona e tutto dona e che ha vinto la morte con la risurrezione. La croce allora non è la sconfitta di Dio e dell’uomo, ma la vittoria definitiva perché ci dice che per amore si può offrire anche la cosa più preziosa che abbiamo, la vita. La croce non è la fine di una vita e di una storia, ma la manifestazione della forza del Vangelo che trasforma in profondità la storia; non è vittoria della paura e del silenzio, ma è l’annuncio gridato sui tetti delle case che l’uomo può voler bene con lo stesso amore di Dio, molto più forte della sofferenza e della morte.

L’Apostolo Paolo afferma che “ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25): la debolezza della croce che non contrappone la forza alla forza del male, ma la mitezza e l’amore è la più grande vittoria sul mondo che sia possibile testimoniare e l’unica vera salvezza di ciascuno.

Il mistero della croce, cari fratelli e care sorelle, ci rivela pienamente la verità più profonda della nostra salvezza, e cioè che per noi cristiani la felicità passa attraverso la croce. Il mondo ci dice che per essere felici bisogna mettere da parte la croce, evitarla, perché soffrire è il contrario della gioia. Ci suggerisce di girarci dall’altra parte davanti alle sofferenze del mondo, di sfuggire il pericolo di soffrire, di tradire pur di non restare schiacciati dal male. Ma il Vangelo ci insegna invece che la vita vera, piena e felice viene attraverso il passaggio per la croce, ed è condividere con Gesù la passione per condividere anche la sua resurrezione.

Ma cosa vuol dire passare per la croce? Una certa spiegazione tradizionale vuole farci credere che la croce sono i nostri dolori personali, le mie sofferenze. In parte è anche vero, ma la croce di Gesù non è un suo fatto personale. La croce Gesù non l’ha subita per sue colpe o per un caso del destino. La croce Gesù l’ha subita perché non h amai rinunciato a fare il bene della gente. Gesù ha sopportato una croce che non è sua, ma perché ha voluto liberare tutti gli uomini dalla croce del dolore che veniva imposta dal male sui tanti sofferenti. Allora la croce che dobbiamo prendere su noi, a imitazione di Cristo e per godere della trasfigurazione della sua resurrezione, è il dolore degli altri. È questo il messaggio della passione, morte e resurrezione di Cristo: non fuggire dolore altrui, anzi fattene carico, come di una croce pesante, appesantita anche da fatto che non è la tua e non è giusta, perché attraverso quella croce riuscirai a vedere la gloria della resurrezione e troverai la tua vita trasfigurata e resa felice e piena di senso e valore.

In questi giorni di passione e morte allora, non disperdiamoci come i discepoli ma restiamo uniti a lui, seguendolo nel cammino scandaloso della croce, rischiando di farci riconoscere per suoi amici, anche quando questo è scomodo e rischioso per i nostri interessi personali, rinunciando a tagliare i legami con lui proclamandoci figli e discepoli di noi stessi, imitandolo facendoci carico del peso che grava sulle spalle deboli dei tanti poveri sconfitti della terra. Come umili pecore del suo gregge, non fuggiamo la croce, piuttosto seguiamo il pastore che attraverso la croce ci conduce alla salvezza della resurrezione.

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