giovedì 4 novembre 2010

Scuola del vangelo 2010-2011 - III incontro 3 novembre 2010

Un codice del Libro della Sapienza

Scuola del vangelo 2010-2011 - III incontro 3 novembre 2010

Le scorse settimane, a partire dal un fatto concreto della ricorrenza della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma, ci siamo interrogati sul perché la nostra vita è stata preservata dal male in confronto a tanti ai quali invece essa è stata tolta in modo violento o tragico, come nel caso degli ebrei nell’ultimo conflitto mondiale.

E’ una domanda di fondo: cosa ne faccio della vita che è un dono e una opportunità offertami?
Ma, aggiungerei questa volta è una domanda non filosofica e astratta, ma è, direi, il risultato di un modo di porsi davanti alla realtà “sapienziale” o “spirituale”, che è poi il modo con cui la Scrittura ci mostra che Dio si pone davanti alle vicende del mondo e degli uomini. Cioè è il lasciarsi interrogare dalle cose che viviamo o che vediamo.

L’atteggiamento più comune infatti e quello di banalizzare la realtà attraverso uno schema di casualità (le cose succedono così come capita, senza senso): non vale la pena soffermarcisi più di tanto ma tutto si consuma nell’umore del momento, nello stato d’animo, nel gioco soddisfazione - insoddisfazione.

Altrettanto banalizzante però è, se volgiamo, l’atteggiamento meccanicista-strumentale diametralmente opposto, cioè come se tutto fosse determinato da Dio, il quale sarebbe una specie di orologiaio che crea meccanismi perfetti che scandiscono il tempo con precisione: ogni ingranaggio e ogni vitarella ha un senso perché se non ci fosse il meccanismo si incepperebbe. E’ l’idea che Dio causa gli eventi per ottenere la reazione desiderata, per mandare messaggi e per “educare” gli uomini.

Questi due atteggiamenti opposti davanti agli eventi della vita hanno un comune denominatore: quello che conta sono solo io e ciò che di utile o positivo posso trarre dalla vita per mio vantaggio. Dio, l’altro rimane sullo sfondo, come una comparsa o come un puro strumento.

Avere nei confronti della realtà un atteggiamento sapienziale spirituale significa invece leggerla con le lenti della sapienza di Dio che la Scrittura ci comunica. Imparare cioè a soffermarsi sui fatti e le persone non come fossero pure casualità passeggere destinate a svanire, né come messaggi inviati da Dio, ma l’occasione per leggere la verità profonda che soggiace dietro i fatti e le persone.

Per fare ciò è indispensabili mettere in relazione la realtà con la Scrittura. Per questo è indispensabile conoscerla, avere in mente le sue parole, i fatti e le situazioni della vita di Gesù. La Scrittura illumina quello che viviamo, ma anche molto spesso, la vita illumina e ci fa capire meglio la Scrittura. L’una infatti non ha senso senza l’altra. La Scrittura è infatti muta se non la facciamo parlare con la carne e il sangue dei fatti che dà voce a Dio che parla.

E’ l’atteggiamento descritto nel Salmo 1:

Beato l’uomo che … nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte.”

Non è l’invito a vivere come perennemente con la testa per aria, ma a leggere sempre, ogni momento la vita con la Scrittura nella mente.

Guardare al mondo con questa attitudine non viene spontaneo, ma si impara come ad una scuola: la Scuola del Vangelo, ed è ciò che vorremmo fare in questi nostri incontri.
Questo atteggiamento “sapienziale” è uno dei modi con cui noi riusciamo a mantenere aperta la domanda di fondo sul senso della vita che, come dicevamo la volta scorsa, caratterizza la vita del discepolo di Cristo, il cristiano, senza cadere in quell’addormentamento nelle abitudini che caratterizza la vita di tanti adulti.

Esistono però delle scorciatoie che ci danno l’impressione di vivere come discepoli, ma senza passare attraverso la fatica di leggere la Scrittura e di usarla come la lente per leggere la vita.

Una scorciatoia è l’ideologia. Cioè parlare a slogan, per frasi fatte e definizioni. E’ come credere che essere cristiani è dire: “Dio esiste”, e più lo grido forte e più sono convinto ed è vero. E’ come se noi volessimo far diventare vino una bottiglia d’acqua con l’incollargli sopra l’etichetta del chianti. E’ il parlare prima di ascoltare, il sapere prima di aver cercato di capire. Cosa c’è nella bottiglia lo capiamo solo se ne guardiamo il colore ne sentiamo l’odore ed eventualmente se ne assaggiamo un goccio. E’ fatica, pazienza e lavoro. Allora sapremo se è acqua o vino e di che qualità.

Una seconda scorciatoia è voler dimostrare di avere sempre già capito, di avere la risposta subito pronta per ogni situazione. La realtà non può essere tagliata con l’accetta, classificata come un erbario. E’ fatica mantenere una domanda aperta, essere in ricerca, domandarsi senza dover subito chiudere con la risposta che si avvicina di più al caso.

La terza è dare più importanza al fare che all’essere. Non cogliere la realtà come una provocazione ad essere più evangelici, ma caso mai a fare qualcosa di più, anche se poi sappiamo che non ce la faremo.

Tutti questi atteggiamenti, come già dicevo, sono tutti modi per chiudere la porta all’altro, perché fonte di domande, problemi, per restarsene ben chiusi nel rassicurante mondo dell’io.

Nei prossimi incontro vorrei provare a leggere con voi la nostra vita attraverso la lente del rapporto di Gesù con gli altri.

Infatti nei Vangeli Gesù è presentato quasi sempre insieme ad altri: le folle, i discepoli, i malati e i poveri, gli uomini che lo interpellano (farisei, giovane ricco, samaritana, …), ecc…
Non è un caso che Gesù è presentato come “Colui che sta con gli altri”. Gli unici momenti in cui Gesù si isola (il deserto, il Getsemani, vicino al lago di Tiberiade, sul monte Tabor) è per stare con il Padre. Eppure lo stare di Gesù con tanti non è mai casuale: non sempre è cercato da Gesù ma è comunque l’occasione per un incontro personale significativo, che va in profondità, che legge la verità di una situazione e di una storia.
Gesù è “l’uomo con gli altri” che corrisponde in modo pieno all’affermazione del Padre: “non è buono che l’uomo sia da solo”. In qualche modo realizza la pienezza di quella “bontà di vita” che Dio vuole per l’uomo.

Il salmo riprende questa realtà e afferma: “come è bello e come è dolce che i fratelli vivano insieme” (Sal 1331,1) con una esclamazione che contraddice il senso comune che vede nello stare assieme di più persone solo la fonte di grattacapi e polemiche. E il salmo continua dicendo che la vita insieme dei fratelli e delle sorelle è come un olio profumato che rende bello il volto di Aronne, cioè è la bellezza che si spande attorno a sé di un volto felice, e poi che è come la rugiada che scende sul monte e irriga l’aridità di quelle zone desertiche rendendole feconde e capaci di vita, come ci fa diventare “l’essere con l’altro”, fecondi di vita buona.

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