martedì 15 marzo 2011

Scuola del Vangelo 2010/11 – XVII incontro (II di Quaresima) : Quaresima tempo di riforma per un mondo vecchio

Scuola del Vangelo 2010/11 – XVII incontro
Quaresima tempo di riforma per un mondo vecchio
16 marzo 2011

La Quaresima è un tempo in cui pensare il proprio cambiamento: è tempo dedicato alla riforma, perché non si può arrivare a Pasqua così come siamo sempre stati.

Spesso si è voluto vedere la Quaresima come un tempo di ripiegamento su se stessi, di macerazione interiore, di tristezza incupita. In realtà se così fosse la Quaresima non sarebbe molto diversa dal tempo ordinario, perché un velo di tristezza e rassegnazione copre il nostro mondo e le nostre città. Certo, dobbiamo partire da una coscienza reale di noi stessi, e cioè dalla tristezza di essere polvere e cenere, quali siamo, come abbiamo voluto affermare mercoledì scorso col gesto che apre la Quaresima. C’è infatti una vera tristezza, che è il senso del limite del nostro peccato e della minaccia della morte che grava su di me ogni giorno. Ma la tristezza più comune è una sorta di modestia mesta, che non sente il peso del proprio limite, anzi quasi non può fare a meno del proprio “profilo basso”, funzionale al tenere tutto a basso livello nelle nebbie della rassegnazione. Paolo quando si sente circondato da questa tela di tristezza grida: “Perché se io rattristo voi, chi mi rallegrerà se non colui che è stato da me rattristato?” (2 Cor 2, 2). Rattristare gli altri è un peccato grave, perché li conferma in una rassegnazione cupa che umilia la speranza. Non bisogna mai rattristare nessuno, ma, come dice Paolo: “siamo invece collaboratori della vostra gioia” (ivi, 1,24).

Questa falsa tristezza, impastata di rassegnazione, non si vince con un’emozione, ma accettando la cenere sul capo, cioè guardando alla nostra inadeguatezza e complicità col peccato per vivere la speranza di liberarsene. È il cammino di Quaresima. La gioia del Signore è la nostra forza –insegnano le Scritture. Ma la gioia è anche il segno che, nonostante i problemi, il Signore ha vinto la morte ed è risorto. Gesù prega nel Vangelo di Giovanni perché i suoi discepoli “abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (17,13), dopo aver pregato perché “siano una cosa sola” (ivi,13). La pienezza della gioia è la vittoria della vita sulla morte. A una tale gioia sembra che, figli di un mondo triste e rassegnato, siamo tutti impreparati, come vasi sigillati o rotti, incapaci di contenerla.

La Quaresima dunque non è tempo triste e basta, ma è il tempo in cui dobbiamo prepararci ad una grande gioia, che è vero, ancora non c’è, ma che si intravede al termine del nostro cammino. Ma per poter gustare la gioia bisogna essere pronti ad accoglierla. Questo non è scontato, perché oggettivamente prevalgono sempre i motivi di scontento che quelli per cui gioire: siamo un po’ più invecchiati, la situazione è un po’ peggiorata, ecc… C’è una vera e propria paura di vivere la gioia per un futuro nuovo, che è un segno di vecchiaia del cuore e della vita. Il vecchio infatti non ama la novità, ma preferisce rimpiangere il passato e conservarsi in un presente sempre uguale.

La Quaresima vuol essere questa proposta a chi è invecchiato, prigioniero della tristezza e della rassegnazione: incontrare Cristo nella Pasqua, evento centrale della liberazione dell’uomo dalle catene più antiche. Ma, per questo incontro, bisogna prepararsi per avere occhi, cuore, per non dormire per la tristezza, come i discepoli nel Getsemani, accanto a Gesù che pregava e sudava sangue. Da questa Pasqua sorgono discepoli liberati, che portano la resurrezione nel cuore come fede gioiosa, per liberare il mondo.

La vecchiaia è condizione di ciascuno di noi, come individui, ma è anche una realtà del mondo in cui ci troviamo a vivere.

UN MONDO VECCHIO


Due incontri fa’ abbiamo parlato di quanto in questi giorni sta avvenendo nella riva Sud del Mediterraneo, in Egitto, Tunisia e Libia. Parlavamo di un vento di novità (che purtroppo in Libia sta lasciando dietro di sé una scia di sangue per gli scontri che ancora si susseguono) che però il nostro mondo occidentale fa fatica ad accogliere con un senso di positiva riapertura di un futuro che per molti popoli sembrava irrimediabilmente chiuso da una cappa opprimente. È un esempio di come la novità di uno scoppio inatteso di libertà e di speranza possa essere ingrigito e involgarito dalla paura che noi uomini del Nord abbiamo che i nostri privilegi vengano intaccati da questi eventi.

Questo atteggiamento è rivelatore della paura di un mondo vecchio, il nostro, che chiede al grande mondo di non disturbarlo. Ne è un esempio la politica italiana verso la Libia: prima, quando si trattava di fare affari e bloccare gli immigrati Gheddafi è stato trattato ridicolmente con tutti gli onori, fino al baciamano tributatogli dal nostro Presidente del Consiglio; poi, al momento della rivolta, l’imbarazzata presa di distanza dal raìs di fronte alle critiche del mondo a tanta opportunistica cecità di fronte alla palese assenza di libertà e democrazia in Libia; infine, ora che le cose si mettono male per i rivoltosi contro il regime di Gheddafi il Governo è diventato più prudente perché prima o dopo si prevede la possibilità concreta che ci dovrà di nuovo avere a che fare con Gheddafi a capo della Libia. Pertanto si aspetta e si sta a guardare, senza prendere posizione. Ma Gheddafi ha bombardato con l’aviazione il suo popolo che manifestava chiedendo libertà e democrazia, come si può restare neutrali? Scriveva giustamente nel 1904 il grande filosofo e letterato spagnolo Miguel de Unamuno: “Viviamo in piena gerontocrazia … subendo l’imposizione di vecchi incapaci di comprendere lo spirito giovane e che mormorano: Non spingete ragazzi…”. Sì, il mondo soffre di anemia di passioni. Padre Davide Turoldo, prete e poeta cristiano, parlava di senilità dello spirito in una sua poesia:

Signore, salvami dal colore grigio dell’uomo adulto
e fa’ che tutto il popolo sia liberato da questa senilità dello spirito.
Ridonaci la capacità di piangere e di gioire;
fa’ che il popolo ritorni a cantare nelle tue chiese.”

La capacità di piangere e gioire con gli altri è la passione per la storia che va avanti fra mille sfide, che mostra volti nuovi e pone domande inedite, che non si può arrestare perché mi disturba con la sua irruenza fastidiosa. La storia è la giovinezza di un uomo e di un popolo, e vivendola dal di dentro ci è data la possibilità di rendere nobile la mia vita, perché finalmente amo non solo me stesso.

In realtà oggi in Europa e in tutto l’Occidente benestante si è rinunciato a fare la storia, ma ci si difende dalla storia. Quel che conta è il mio “io”. Sì, un mondo di tanti io che non si amano e che non si piacciono, che si scontrano gli uni contro gli altri, che non guardano al futuro insieme. E attraverso la storia Dio opera, mediante le correnti profonde dello Spirito di cui parlava La Pira, che agiscono determinandone la direzione. Giovanni Paolo II aveva forte questo senso della storia come un terreno nel quale Dio opera, non al di sopra dell’uomo, ma con il suo consapevole aiuto. Ad esempio già vecchio e malato, al termine della sua vita, non smetteva di esprimere la speranza di un futuro nuovo che la storia dell’umanità poteva conoscere:

Sono impressionato dal sentimento di paura che dimora sovente nel cuore dei nostri contemporanei. Il terrorismo subdolo che può colpire in qualsiasi istante e ovunque; il problema non risolto del Medio Oriente, con la Terra Santa e l’Iraq; gli scossoni che scompigliano il Sud America, particolarmente l’Argentina, la Colombia e il Venezuela; i conflitti che impediscono a numerosi Paesi africani di dedicarsi al proprio sviluppo; le malattie che propagano il contagio e la morte; il problema grave della fame, in modo speciale in Africa; i comportamenti irresponsabili che contribuiscono all’impoverimento delle risorse del pianeta: ecco altrettanti flagelli che minacciano la sopravvivenza dell’umanità, la serenità delle persone e la sicurezza delle società.
3. Ma tutto può cambiare. Dipende da ciascuno di noi. Ognuno può sviluppare in se stesso il proprio potenziale di fede, di probità, di rispetto altrui, di dedizione al servizio degli altri. …
È dunque possibile cambiare il corso degli eventi quando prevalgono la buona volontà, la fiducia nell’altro, l’attuazione degli impegni assunti e la cooperazione fra partner responsabili.
” (Discorso di Giovanni Paolo II al Corpo Diplomatico - Lunedì, 13 gennaio 2003).

Tante volte questa mentalità di rinuncia alla storia si ritrova tra di noi. Il problema del tramonto politico o economico dell’Europa sui grandi scenari del mondo non è perché ci sono gli islamici che minacciano la nostra identità o perché troppi immigrati premono sulle coste, o a causa della crisi economica; il vero problema è che viviamo un tramonto della speranza, e con essa della simpatia, della passione per cambiare, del sogno di fare cose grandi, della capacità di piangere e gioire con gli altri, in una parola della voglia di un nuovo futuro, proprio quello che la Pasqua viene a portare nel mondo con la vittoria della vita sulla morte.

Siamo malati di anemia di speranza, stanchi, invecchiati, spaventati. Così guardiamo i fatti a Sud del Mediterraneo. Così ci guardiamo l’un l’altro, incapaci di un sogno comune, di fare comunità. È l’incapacità di essere un “noi”. Pensiamo alla difficoltà a gioire per questa festa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Certo non tutto qui da noi è perfetto e la situazione attuale può non essere del tutto soddisfacente, ma la diffidenza a gioire di questa storia comune nasce proprio da questa diffidenza a guardare al futuro insieme, in tanti, come una comunità larga che ha una storia passata in comune e un destino futuro da costruire assieme. Si preferisce invece chiudersi nel particolarismo: la mia regione, città, quartiere, condominio, fino all’”io e basta”. Così la storia, che necessariamente è un processo comune, corre in avanti e noi ne restiamo fuori, presi ciascuno dalla propria vicenda individuale che però non è storia. I vecchi sono anemici di speranza e di simpatia.

CHE FARE?

Non possiamo rischiare di arrivare a Pasqua come uomini del vecchio mondo, perché rifiuteremmo il suo dono di vita nuova. La Quaresima è tempo opportuno per fare una profonda riforma del nostro vivere, a partire da alcuni aspetti che determinano l’essere “vecchio”.

Il primo modo in cui dimostriamo la nostra paura di vecchi è questo: guardare agli altri e al mondo con gli occhi del proprio tornaconto. Il metro di giudizio per le persone e i fatti è “quello che mi conviene”. Giudicare infatti in base al bene e al giusto per gli altri espone a rischi, è più faticoso e ci chiede di prenderci responsabilità e magari anche di pagare di persona. Giudicare in base al bene e al giusto per me stesso ci pone al riparo da questi rischi.

La soluzione di un problema è allontanarlo da me: pensiamo alle politiche sull’immigrazione, i respingimenti, la chiusura delle frontiere, ecc…

Non solo quello che non vedo (che ormai poche sono le cose che possono dirsi nascoste) ma quello che decido che non mi riguarda non esiste per me: pensiamo alla condizione degli anziani allontanati dalle famiglie e dal tessuto sociale ordinario per rinchiuderli nei cronicari dove sono invisibili. Quanti dicono: no, di certe cose non me ne posso occupare perché sono tropo sensibile e poi ci sto male. Addirittura si arriva al paradosso che una presunta propria sensibilità è motivo valido per fregarsene degli altri: allora è meglio essere un po’ meno sensibili e meno egoisti.

L’idea che quotidianamente dobbiamo confrontarci sulle priorità della nostra vita in base alle esigenze della storia che ci pongono di fronte ci sconvolge. Il ritmo della nostra vita è ormai impostato e senza possibilità di scelta autonoma, ed è lui a determinare le nostre scelte su cosa è più importante e cosa di meno: ad esempio lo scorso mercoledì delle ceneri c’è stato chi si è raccomandato che la preghiera delle 19.00 non andasse troppo per le lunghe, perché poi c’era la cena. Nemmeno passa per l’anticamera della mente che per la preghiera delle ceneri, che viene una volta l’anno e inaugura un tempo forte come la Quaresima, la cena potesse subire un ritardo di 10 o 15 minuti. Non sia mai che il ritmo regolare della nostra vita sia messo in discussione, fosse pure dalle ceneri, fosse pure per 10 minuti. La priorità è già decisa dalla vita, dalle abitudini, dai ritmi e dai giudizi istintivi.

Questi e tanti altri esempi che potremmo fare ci fanno toccare con mano come la vecchiaia del cuore ci fa essere sclerotici, rigidi nelle abitudini e nei modi di pensare, spaventati delle novità, desiderosi che il presente si ripeta senza cambiamento per l’eternità: se siamo così, come potremo accogliere il dono della vita nuova a Pasqua?

Per poter gioire della novità infatti è richiesta un’apertura fiduciosa al futuro, la disponibilità a vivere con speranza, come fece Abramo, di cui ci S. Paolo parla ai Romani:

“[Abramo] ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo - aveva circa cento anni - e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento.” (Rm 4, 19-21)

Abramo, nonostante fosse avanti negli anni, davanti alla promessa assurda di Dio di concedergli una discendenza numerosa e una terra non reagì come un vecchio spaventato dalla novità, ma accettò di riformare se stesso, il suo modo di vivere. Cambiò le priorità della sua vita: invece di prepararsi una serena vecchiaia, godendosi quello che aveva ottenuto e assicurandosi la continuità del presente sereno, accettò di compiere un cammino lungo e pericoloso, di rischiare anche di perdere tutto, di faticare per raggiungere la gioia di un futuro nuovo, cioè diventare “padre di molti popoli”. Questo “sperare contro ogni speranza” fu il suo modo di “avere fede”, dice Paolo, vincendo l’invecchiamento del cuore e della vita.

Oggi la Quaresima ci pone la stessa domanda di Dio ad Abramo: vuoi vincere la paura da vecchio per accogliere la gioia della vita nuova che la Pasqua viene a portarci?

Per accogliere questa proposta di Dio dobbiamo fare come Abramo ed invertire il punto di vista: non guardare agli altri e al mondo con gli occhi del proprio tornaconto, ma farsi dettare l’agenda e il calendario dal tornaconto di Dio e degli altri. È quello che Paolo ammira tanto in Timoteo: “Infatti, non ho nessuno d'animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo”. (Fil 2, 20-21).

Cercare gli interessi di Cristo” significa, un po’ come già accennavamo il mercoledì delle ceneri, accettare che la priorità non sia sempre il mio interesse, ma siano le “necessità” degli altri: quello che ci chiede la Scrittura, le domande dei poveri, le richieste dei fratelli e delle sorelle, le domande delle folle e la preoccupazione che incontrino il Signore e il Vangelo, quella capacità di piangere e gioire con gli altri di cui parlavamo poco fa e che ci rende protagonisti felici della storia e non lamentosi e paurosi rinchiusi in un angoletto. Questo ci fa vedere il mondo con occhi nuovi e ci fa sperare ed attendere la novità che è il Vangelo: buona notizia. Vivere con questa ottica invertita ci permette di vincere le paure e di non desiderare la conservazione del presente, ma aprirci alla speranza, come Abramo, in vista del dono di una vita che ci spiazza e ci ridona un futuro nuovo.

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