mercoledì 30 marzo 2011

Scuola del Vangelo 2010/11 – XIX incontro (IV di quaresima) : Un mondo senza speranza è triste e bloccato


Riprendiamo la nostra riflessione di Quaresima partendo da quello che dicevamo l’ultima volta: viviamo in un mondo spento e bloccato, vecchio e senza prospettive. Abbiamo parlato dei martiri del nostro tempo, dai quali riceviamo un messaggio forte, che è il messaggio della croce: vale la pena spendere la vita per gli altri e non per salvare se stessi. Nel primo caso infatti la riceviamo moltiplicata, nel secondo la perdiamo:

“Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà” (Lc 17,33).

Perdere’ la vita significa non solo ‘morire’, ma spenderla per gli altri, come Gesù spiega ai discepoli poco oltre:

non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà” (Lc 18,29-30).

Dare la propria vita, spenderla per gli altri, usarla non solo per se stessi la rende eterna, cioè piena e duratura, e fin da subito più felice. Chi cerca di conservarsi tutto per sé invece la perde, e fin da subito è triste e sempre insoddisfatto. Questo è il messaggio forte della croce che i martiri hanno incarnato nel nostro tempo.


La Quaresima è dunque il tempo in cui noi accompagniamo Gesù che si avvia verso Gerusalemme a rendere questa sua estrema testimonianza, verso la Santa Settimana di Passione: “Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno.” (Mt 16,21) Al sentire questo messaggio forte però l’uomo del mondo vecchio prende le distanze. Non lo fa con cattiveria, ma perché è naturale e istintivo. Il peccato infatti non è solo fare il male per amore del male, ma è anche seguire la corrente, come fosse la cosa più naturale. Infatti appena udite quelle parole di Gesù il Vangelo prosegue: “Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: ‘Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai’. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: ‘Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!’” (Mt 16,22-23).


Gesù sa cosa lo aspetta nella città santa, ma vuole salvare gli uomini, per questo non si risparmia, non salva se stesso, come gli suggerisce Pietro, uomo del compromesso che protesta contro quella prospettiva così funesta. La giudica una sconfitta, un pericolo, un male da evitare a tutti i costi: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai”. Il Signore però sa che non è possibile un compromesso. In fondo Gesù aveva già fatto molto: aveva annunciato il Vangelo per città e villaggi, guarito i malati, liberato gli indemoniati, istruiti i dodici, discusso con gli scribi e i farisei, non poteva bastare? Gesù sa che la sua missione non sarà compiuta se non si spenderà fino in fondo non risparmiando niente di sé, finché cioè non avrà offerto la sua vita per realizzare il piano di Dio che è l’avvento del suo Regno: “non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme.” (Lc 13,33) Sì, per Gesù la vita non ha senso se non spesa per inaugurare nella vecchia Gerusalemme quella nuova Gerusalemme di cui parla il libro dell’Apocalisse: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate».” (Ap 21,1-4)


È solo stando dentro la Gerusalemme vecchia che Gesù potrà inaugurare la nuova Gerusalemme.

È solo vivendo immersi nel mondo vecchio che descrivevamo che noi possiamo affrettare la venuta di un mondo nuovo.


È l’itinerario cha la Quaresima ci propone: dare la vita per realizzare un mondo nuovo, un tempo nuovo, la Gerusalemme che viene dal cielo, nella quale si realizza la salvezza dell’uomo. Così ci si salva, spendendo la vita per realizzare un mondo nuovo che non è il mio.


Ci chiediamo allora: cosa vuol dire “dare la vita” per noi che spesso non siamo nemmeno disposti a dare il nostro tempo o le nostre energie per gli altri? Noi come Pietro cerchiamo il compromesso, la giusta misura: faccio già abbastanza, cos’altro si può pretendere in più da me? Noi ci sentiamo tranquilli e sicuri solo se abbiamo accumulato abbastanza per noi, figurarsi spendere tutto per gli altri ! Il problema è che noi non desideriamo un mondo nuovo (lo dicevamo già l’altra volta), ma anzi temiamo la novità, non speriamo l’avvento di un tempo nuovo, ma vorremmo prolungare all’infinito il nostro presente.


Si pone allora la questione cruciale della nostra salvezza: dove trovare le ragioni per tornare a vivere la speranza che la Scrittura ci indica come la prospettiva che dà senso alla vita dell’uomo e lo porta, perdendola, a ritrovarla piena? I poveri hanno bisogno di liberazione dal male, dalla povertà, dalla violenza: hanno bisogno di speranza per sopravvivere, come del cibo per non morire. Anche sulla riva Sud del Mediterraneo c’è una domanda di liberazione. Possiamo allora partire in questa Quaresima dal bisogno dei poveri, che non hanno rinunciato alla speranza. I poveri del grande mondo, i poveri vicino a noi hanno fame di speranza. Ci sono popoli che, pur senza sapere bene dove andare, chiedono libertà e speranza. Ci sono poveri che pur vivendo in condizioni durissime guardano al futuro con speranza di un tempo migliore. Da loro si alza un gemito che sale al cielo, una invocazione gridata con la forza di chi è nel dolore che per Paolo è decisiva: “tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto; essa non è sola, ma anche noi che possediamo le primizie delle Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Perché nella speranza noi siamo stati salvati.” (Rm 8,22-23)


Il mondo dei poveri vive questa attesa angosciosa e dolorosa, questa speranza che un mondo nuovo nasca al più presto, ma anche noi se abbiamo dentro le primizie dello Spirito, cioè quei primi segni di un amore che nasce nel nostro cuore per essi, possiamo fare nostro quel grido, quella speranza, quell’invocazione di un mondo nuovo che deve essere generato. Se però rifiutiamo quelle primizie, quel fragile germoglio che nasce nella pietà e nella tenerezza per il povero non ci salveremo, “Perché nella speranza noi siamo stati salvati”. Allora possiamo dire che veramente i poveri conoscono la vita più di noi, perché la conoscono attraverso la sofferenza. I poveri gemono aspettando l’adozione a figli: hanno speranza che Dio non si dimentichi di loro ma li prenda sotto la sua protezione paterna. Come i bambini orfani, quando vedono uno che li va a visitare: tendono le mani verso di lui sperando di essere adottati.


La volta scorsa ci chiedevamo se la Chiesa non è qualcosa di antiquato e non attuale. I più giovani per lo più non credono che valga la pena spendere la propria vita per un ideale così antico, vecchio di oltre 2000 anni, non moderno. Ma anche noi, più anziani, avvolti in un’ombra di tristezza, siamo occupati a risparmiarci per cercare una felicità che è il proprio piacere e soddisfazione, e non crediamo che la Chiesa sia uno strumento per cambiare il mondo attuale e realizzarne uno nuovo. Ci siamo abituati ad essa, alla sua compagnia come ad una vecchia amica, moglie, compagna, che non suscita più passione e da cui non ci aspettiamo più niente di nuovo. Le soddisfazioni le si trovano altrove, non certo da lei. Allo stesso tempo siamo affezionati, perché la conosciamo da tanto, ci ha accompagnato a lungo, è casa nostra e l’abbiamo adattata a noi, come un vestito usurato che ha preso al forma del nostro corpo.


Nessuno vuole cambiare il mondo o inaugurare una nuova fase della storia. Nessuno pensa che la Chiesa abbia questo come suo scopo primario, e per questo Dio la conserva e la protegge, come luogo della profezia, cioè dove si può intravedere fin da ora e pregustare il tempo nuovo e il mondo nuovo che è la prospettiva futura.


Gesù dice in questo tempo di Quaresima: “Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo. … Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. ... Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.” (Lc 21,10-11;25-28). Gesù parla di un mondo in preda alla violenza e all’angoscia: è quello che vediamo attorno a noi. È il momento di alzare il capo per attendere la liberazione, e non tenerlo più chino a vedere solo se stessi. Non illudiamoci di essere al sicuro, al riparo dai disastri della vita, se non li guardiamo in faccia, se ci risparmiamo dalla tristezza di puntare lo sguardo su di essi. Facciamocene allora carico, sostenendo, almeno un po’ il peso della vita che grava spesso eccessivamente sulle spalle troppo gracili di tanti poveri. Non ci sentiamo forti e autosufficienti! E non a caso la Quaresima si apre proprio con il segno della debolezza umana: la cenere. La Quaresima parla con il simbolo antichissimo della polvere grigia della cenere: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3,19)


Sono le parole che Dio dice all’uomo all’inizio del suo cammino terreno, intriso della debolezza, del peccato e condannato a morire. Se vivi convinto di essere al sicuro, forte e autosufficiente, appagato dell’amore per te stesso, non sei che polvere! Hai in bocca il sapore della polvere. Facciamo nostra questa coscienza di debolezza condividendola con chi questa debolezza non può nasconderla, come i poveri. Non preoccuparti per quel che sei, preoccupati per la tua coscienza finta, per la tua interiorità pietrificata, per la tua paura paralizzante!


Abramo ricevette la visita di Dio a Mamre con l’annuncio della fecondità per la vita sua e di sua moglie: quale grande speranza avere un erede! Da quel momento, prese a parlare con Dio come un amico, senza dimenticare che era polvere. Infatti egli disse: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore io che sono polvere e cenere” (Gen 18,27). Avendo la coscienza della sua umile statura fu preso dal desiderio di salvare i giusti nella città di Sodoma, pur sentendosi polvere.


A volte noi diciamo: ma cosa posso fare io che sono un poveraccio e non conto niente? Come può un uomo umile avere grandi sogni, sognare come Abramo di salvare i giusti di un’intera, enorme città, come era Sodoma? Come posso vivere una tale speranza, tanto da ambire a far cambiare progetti a Dio che ha deciso di annientarla? Lo stesso potremmo dirlo sulla vita di tanti poveri sui quali ci sembra incomba una condanna definitiva e inappellabile. Che posso farci io? Sì, l’uomo può ambire a tanto se accoglie il Signore nella sua tenda, se si confida con lui, se accoglie le sue parole e le crede vere per sé, come fece Abramo a Mamre.


Solo se accetterai di essere polvere e cenere, avrai l’ardire di parlare al Signore in Quaresima e di spenderti per il sogno di un mondo nuovo e di un tempo nuovo. C’è bisogno di pregare per questo, di lavorare concretamente e di incamminarti con Gesù verso Gerusalemme a dare l’estremo annuncio che la vita è salvata se spesa per gli altri. Per ciascuno c’è una Gerusalemme, cioè un luogo e un’ora in cui ci è chiesto di dare tutta la nostra vita.


Chiediamoci seriamente: dov’è la nostra Gerusalemme? Dove e quando spendo la mia vita per gli altri? Non restiamo fuori dalla città, come ci consiglia il Pietro pauroso che è in ciascuno di noi, non ritraiamoci spaventati, ma come Abramo, sapendo di essere cenere, fidiamo nella forza del Signore e non nella nostra, facciamoci compagni della speranza dei poveri di un mondo e un tempo nuovo e, al termine della Quaresima, riceveremo anche noi la forza di una vita che risorge dalla morte e non finisce più.

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