mercoledì 23 marzo 2011

Scuola del Vangelo 2010/11 – XVIII incontro

Icona dei Nuovi Martiri - Basilica di S. Bartolomeo, Roma


Scuola del Vangelo 2010/11 – XVIII incontro
I martiri del XX e XXI secolo:
testimoni di un amore che fa vivere


Abbiamo parlato la volta scorsa di un mondo vecchio e spaventato che non riesce a trovare le ragioni per una gioia vera. Un velo di falsa tristezza egocentrica copre tutto facendo sì che per niente valga la pena gioire, ma nemmeno c’è niente per cui valga la pena di soffrire. E’ il modo di vivere tipico del nostro mondo Occidentale ricco ma allo stesso tempo insoddisfatto, sazio ma sempre alla ricerca di esperienze più forti, incapace di generosità perché schiavo di una mentalità opportunista che dà valore solo a ciò che conviene a me, scontento e lamentoso di tutto ma senza che l’insoddisfazioni porti mai alla decisione di cambiare vita, ecc…. La descrizione potrebbe essere ancora molto lunga, ma già ne abbiamo parlato altre volte.

L’uomo occidentale di certo non si è svegliato così com’è dall’oggi al domani. È stato un processo lungo e progressivo che ha portato dalla seconda metà del Novecento, il secolo del “noi” di ferro, delle ideologie collettive (di destra o di sinistra ma sempre collettive), del nazionalismo che abbraccia un popolo in una patria comune, dall’89 con il processo di unificazione di una Europa divisa da steccati e muri, fino ad un ribaltamento di prospettiva e all’affermarsi di ciò che potremmo definire la “privatizzazione dell’io” negli ultimi venti o trent’anni. Dalle assemblee e dall’euforia del collettivo del ’68 e anni seguenti, si è passati al personal. Tutto è individuale in un misto di narcisismo e di cinismo. Si è smarrito il noi. La felicità è diventata trarre il massimo delle emozioni dall’attimo che si vive: una privatizzazione della felicità come piacere personale. Felicità non è mai esperienza condivisa ma uno status privato, al massimo assieme ad un altro. Si è andato quindi affermando l’io con le sue emozioni, incapace di comunicare e solidarizzare con altri, dei quali ha paura come di nemici o rivali, restando così prigioniero di una tristezza solitudinaria di fondo.

L’11 settembre 2001, di fronte ad un mondo individualista e intento a fare affari per migliorare la propria posizione, si è presentato un “noi” fresco e aggressivo, terribile, quello dell’islam. Le società musulmane sono salite alla ribalta come un mondo magmatico, dalle forti passioni collettive, in cui l’individuo sembra perdersi nella folla e in sentimenti condivisi. Un mondo così fa paura, non solo perché nel suo seno sono potute attecchire ideologie violente come quelle di Al Qaeda (ma questo è avvenuto nella storia e ripetutamente anche in seno alle società cristiane, pensiamo all’IRA in Irlanda o l’ETA nei Paesi Baschi o lo stesso terrorismo delle Brigate Rosse ecc…), ma anche perché ci sembra un mondo in cui l’individuo si annulla nel collettivo. Ma l’islam si è svelato come un mondo diverso dalla caricatura di Osama ben Laden, comprendendo invece al suo interno tante diversità: lo si vede in questi giorni in cui in alcuni Paesi del Nord Africa e della Penisola Arabica queste diverse “anime” islamiche si manifestano, rompendo quella omogeneità granitica che prima sembravano possedere. Il mondo individualista resta però diffidente e spaventato della riva Sud così massificata e collettiva.

Da noi la privatizzazione dell’io ha portato un’altra conseguenza, cui facevamo cenno di sfuggita anche l’altra volta, e cioè il rifiuto della storia: un io che vuol star bene oggi, nel presente, rifiuta la fatica e i rischi di costruire un futuro e cerca di conservare a tutti i costi il presente così come è. Tutto è presente. Non vale la pena di preoccuparsi del futuro. Non interessa entrare nei meccanismi di trasformazione dei mondi, andare fuori da sé e dal proprio piccolo ambiente. È il modo di vivere dell’Europa: un condominio di io, bloccato, quasi paralizzato e intento a gestire i propri privilegi in una estenuante contrattazione interna, più appassionato sulle razze animali e sulle qualità di cibi e vini che sulle sorti delle società del mondo.
Un mondo tutto preso dal piccolo quotidiano è anche un mondo che non si alza contro Dio, come è avvenuto con il comunismo o il nazismo nel Novecento. Non si sente nemmeno il bisogno di sfidare Dio, perché si vive senza Dio. Dio infatti è più grande del mio io, non può essere circoscritto al mio piccolo mondo o alla mia esperienza privata. Dio è Dio di un popolo e lo si incontra se si accetta di essere una figlia o un figlio di quel popolo che Lui si è scelto, di una storia che coinvolge tanti e dà un futuro a tanti.

Davanti a questo scenario la Chiesa diventa qualcosa di inattuale, obsoleto, perché è un popolo, una famiglia, una identità collettiva che ambisce addirittura a raccogliere tutto il genere umano in un unico abbraccio familiare.

Joseph Ratzinger ha scritto: “L’inattualità’ della Chiesa, è, da un lato, la sua debolezza – essa viene emarginata – ma può essere la sua forza. Forse gli uomini possono percepire che contro l’ideologia della banalità, che domina il mondo, è necessaria un’opposizione, e che la Chiesa può essere moderna, proprio essendo antimoderna, opponendosi a ciò che dicono tutti. Alla Chiesa tocca il ruolo di opposizione profetica …”

I profeti sono sempre inattuali nel contesto del loro mondo. Geremia, ad esempio, è ossessionato da chi lo considera un uomo che semina terrore del futuro. La Quaresima, già abbiamo accennato, è il tempo opportuno in cui vincere il clima di anemia di speranza, di sfilacciamento del noi, di felicità come piacere individuale e solo di un momento, di spegnimento della storia nell’attimo presente dell’io.
Spesso però, di fronte alla profezia della Quaresima, noi siamo mediatori: non vorremmo abbracciare il mondo così come è, che avvertiamo essere ingiusto e estraneo allo spirito del Vangelo, ma allo stesso tempo non ci sentiamo nemmeno in grado di allontanarcene perché è il nostro mondo, e abbiamo paura a differenziarci. La fede cristiana accetta i peccatori, anche i grandi peccatori – lì può abbondare la grazia! – ma è inconciliabile con i mediatori. E’ il senso delle parole della lettera alla chiesa di Laodicea citata nel libro dell’Apocalisse: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.” (Ap 3,15-16)

Davanti a questa idea di mediazione vorrei oggi con voi soffermarmi un po’ davanti alla testimonianza dei martiri del nostro secolo (XX e XXI).

I martiri
Sono persone che hanno creduto che il cristianesimo è una cosa seria. Il martirio è una realtà che dal ‘900 ha assunto una dimensione notevole: decine e decine di migliaia sono le persone uccise perché hanno creduto al Vangelo e lo hanno vissuto in situazioni in cui il mondo voleva intimidire coloro che volevano il bene. Sono stati vittime dei regimi totalitari: comunismo in Europa dell’Est e Russia, del nazifascismo, in Europa occidentale; vittime della violenza diffusa di società disgregate, come in Africa, o di organizzazioni mafiose e di narcotraffico, come in America Latina o in Italia meridionale; vittime dell’intolleranza religiosa e del terrorismo di matrice religiosa, come in Iraq, India, Pakistan, Nigeria, Indonesia, ecc….

Sono migliaia e migliaia di persone che hanno vissuto il Vangelo in modo radicale e serio, ma non sono eroi nel senso tradizionali della parola, cioè non sono persone che hanno cercato e sfidato la morte, non hanno disprezzato la vita, anzi, l’amavano. Ad esempio Mons. Romero, vescovo ucciso il 24 marzo 1980 mentre celebrava la S. Messa perché era un difensore coraggioso dei poveri vittima dell’ingiustizia e della violenza di bande armate organizzate dalle potenti famiglie di possidenti terrieri. Egli otto giorni prima di essere ucciso affermò: “Finché il popolo viene sistematicamente assassinato dalle forze di repressione della giunta, io, che sono un semplice servitore del popolo, non ho nessun diritto di cercare misure di sicurezza. Vi prego di non fraintendermi: io non voglio morire, perché so che il popolo non lo vuole, ma non posso tutelare la mia vita come se fosse più importante della loro vita.”

Sono persone che hanno vissuto quello che l’altra volta dicevamo essere la logica inversa di quella di questo nostro mondo. Questo ci insegna che bisogno sempre cercare il proprio tornaconto, mentre loro hanno ceduto che l’interesse degli altri veniva prima del loro; il bene degli altri e la fiducia in Dio valevano più della loro vita stessa. I martiri dimostrano con la loro testimonianza quanto sia falso quello che la gente grida a Gesù in croce: “salva te stesso!” Non è risparmiando la propria vita che la si salva, perché una vita spesa a fare solo il proprio interesse è una vita persa, sprecata, usata male e quindi gettata al vento. La vera salvezza, cioè fare il proprio interesse, è spenderla per gli altri, in modo serio e radicale.

Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze religiose del Pakistan è stato ucciso il 2 marzo 2011 a Islamabad. Si era impegnato nella lotta contro la legge sulla blasfemia, che in Pakistan consente di condannare chiunque sia accusato di bestemmia. La sua storia è molto bella: figlio del mondo cristiano povero dei villaggi, 750.000 persone umiliate da una società non solo islamica ma ancora feudale. I cristiani sono poveri, abitano spesso in villaggi, come quello di Yohannabad, ormai inglobato in Lahore, un grande compound di cristiani. Sono rassegnati all’umiliazione di una società feudale e musulmana, società di pochi ricchi e di masse di servi. Bhatti ha studiato e si è fatto strada con l’aiuto di un grande vescovo pakistano, Mons. Lobo, fino a poco fa vescovo di Feisalabad. Lobo lo aveva fatto studiare e lui era diventato un cristiano diverso, pieno di forza e speranza. Come ministro, Bhatti ha lavorato con coraggio: contro la legge della blasfemia, per migliorare la situazione dei cristiani, per difendere i cristiani dai pogrom. Questo gli ha valso tante minacce. Ma lui ha rivelato una grande forza: la forza di sperare. Ha lasciato un testamento spirituale in cui dice:

Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.
Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita.

Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.

Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna".

I martiri, come Bhatti, mostrano una fede che rende giovani i vecchi e rende anziani nella sapienza i giovani: uno spirito di speranza per cui non ci si lascia bloccare dall’impossibile e si crede che tutto può cambiare; uno spirito di amore per cui si dà la propria vita per gli altri e non ci si lascia legare dall’amore per sé. Essere cristiani è una cosa seria, perché è essere tutti profeti nel nostro tempo.

Ma potremmo dire: anche noi dobbiamo sperare di morire per poterci salvare?

Non si tratta di desiderare o augurarci la morte, ma di fare nostro l’atteggiamento di queste persone che non hanno cercato il compromesso per salvare se stessi e non rinnegare il mondo, ma hanno creduto di dover offrire tutta la loro vita, fino a rischiarla, per fare l’interesse del Signore e degli altri e non tenerla per sé, cercando la propria convenienza.

Mons. Romero diceva che ciascuno deve essere pronto a dare la vita, come la dà la madre al figlio, giorno per giorno, prendendosi cura di lui.

Ecco allora che i martiri si fanno nostri compagni in questo tempo di Quaresima e ci indicano una via di uscita dal clima grigio e spaventato del nostro mondo vecchio e individuale. Alla paura di rimetterci, al timore di cambiare qualcosa, al rifiuto di gioire veramente e soffrire veramente, i martiri hanno contrapposto la serietà di una vita vissuta fino in fondo, non senza timore e trepidazione, ma senza umiliarsi sotto la schiavitù della propria convenienza a tutti i costi.

Prendiamo i martiri come nostri compagni in questi giorni di Quaresima e imitiamo il loro essere cristiani desiderosi di non fare compromessi ma di compromettersi con Vangelo nel mondo, fino a rimetterci e a perdere la vita, quella che tutti vogliono conservare, anche a costo di buttarla via per ciò che non vale niente.

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