mercoledì 7 novembre 2012

II Incontro sul Concilio - la riforma liturgica - 7 novembre 2012




 
“Fonte e Culmine della vita della Chiesa”
Il rinnovamento liturgico
e la Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium


Per valutare in modo adeguato la portata e il contenuto della prima Costituzione dogmatica del Concilio, la Sacrosanctum Concilium (SC) è utile iniziare gettando uno sguardo su ciò che aveva preceduto il Concilio, analizzeremo poi come la Costituzione fu elaborata e vide la luce, nel contesto di quelle prime fasi tumultuose dello svolgimento del Concilio stesso, e, infine, affronteremo la fase delicata dell’applicazione della riforma conciliare nel periodo successivo al 1965.

La liturgia organismo vivo

Va innanzitutto messo in evidenza come la liturgia nel corso dei secoli ha subito continui processi di evoluzione che in ogni epoca le ha conferito un aspetto diverso. Questo per motivi diversi:

il primo è di ordine teologico-spirituale: la liturgia è l’espressione più completa e alta della preghiera cristiana e in quanto tale risente del clima spirituale nel quale vive il popolo che la celebra. In essa in qualche modo si rispecchia la realtà dell’incarnazione che ha fatto sì che la realtà eterna e immutabile della divinità assumesse i tratti storici e contingenti di un uomo di una certa cultura, di un certo tempo, di una specifica esperienza e contesto. Questo principio, a volte sottovalutato, come nel caso della nostalgia attuale per il rito in latino, è stato affermato con forza e assunto come principio-guida nella SC. Parimenti la liturgia pur essendo sempre il culto del popolo per il Dio dei cristiani, non è immune dal porsi in dialogo costruttivo e creativo con la realtà nella quale si inserisce. Ciò non significa che abbia seguito le mode intellettuali o culturali del tempo, o che sia stata espressione di quello che la Scrittura chiama con un’espressione felice lo “Spirito di questo mondo”, ma di certo subì l’influsso dell’idea di uomo, di fede e di Chiesa che si sono succedute nelle diverse epoche storiche.

Il secondo ordine di motivi è che questi cambiamenti spesso si sono operati in contesti geografici diversi, per motivi contingenti e spesso non sono stati condivisi dall’intera comunità ecclesiale, in tempi in cui i contatti erano meno facili e frequenti. Un segno evidente è lo svilupparsi dei diversi riti, orientali e occidentali, che restano tuttora legati ad un contesto geografico e culturale. Ma anche all’interno di ogni rito si sono create delle differenze, a volte notevoli.

Per usare una similitudine potremmo dire che la liturgia è come un corpo vivo che respirando e nutrendosi assume naturalmente gli elementi dall’esterno, pur restando un organismo vivente con le caratteristiche che gli sono proprie. Se togliamo respiro e nutrimento il corpo muore e resta come “imbalsamato”: è sempre un corpo, ma mummificato.

Per fare solo alcuni esempi dei cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli:

I fedeli hanno sempre, per tutto il primo millennio, ricevuto la comunione all'altare e in piedi. Nel sec. XIII appare l'uso di stendere fra l'altare e i fedeli una tovaglia, sorretta da due accoliti, mentre la costruzione delle balaustre non compare prima del XVI sec.[1]

Nel IX sec. iniziò l'uso di dare la comunione in bocca, invece che sulla mano del fedele[2].

Sull'altare in epoca antica non c'era il tabernacolo eucaristico, che non vi compare mai prima del XV sec., ma neppure vi si collocavano le immagini del Signore o dei santi. Fu proprio la collocazione dell'urna con il corpo di san Dionigi sopra, invece che sotto, l'altare di Saint-Dénis, fuori Parigi, nel XII sec., a dare inizio a una forma di altare in cui la mensa si riduceva a una forma stretta e lunga e tale da non permettere più di celebrare rivolti verso il popolo. A Roma, invece, l'uso antico non è mai stato abbandonato e in San Pietro, ancora nel 1594, papa Clemente VIII consacrò l'altare maggiore sul quale da allora fino ad oggi (così come accadeva sul precedente altare di Gregorio Magno e poi su quello che gli viene sovrapposto nel 1123 da Callisto II) il Papa ha sempre celebrato rivolto al popolo.  

La liturgia prima del Vaticano II

Questo lento progressivo cambiamento portò con sé un affastellarsi di usi, riti e aggiunte  che causarono spesso anche lo snaturamento del significato originale di alcune parti della liturgia. Dopo la Riforma protestante, nel processo di reazione cattolica che voleva restituire credibilità e rigore alla disciplina, oltre che alla spiritualità, della Chiesa cattolica eliminandone deviazioni ed errori, si avvertì l’esigenza di operare una riforma organica della liturgia.

Il Concilio di Trento, da cui partì il processo cosiddetto di “controriforma”, affrontò questo tema, e a seguito di esso, fu pubblicata sotto Papa Pio V nel 1570 una nuova versione del Missale Romanum. Per la sua redazione furono utilizzati i più antichi manoscritti e messali a disposizioni, al fine di eliminare errori e falsità e giungere a una redazione secondo la norma dei Padri della Chiesa e rispettosa della teologia più accreditata. Il nuovo messale fu dichiarato obbligatorio per l’intera Chiesa.  

Tutto questo non vuol dire che nella tradizione liturgica della Chiesa ci siano epoche buone ed epoche cattive, forme celebrative autentiche e altre no. Ciò che è vero è che ci sono forme di preghiera cristiana più corrispondenti ai bisogni del proprio tempo e altre, valide al loro tempo, ma meno capaci di rispondere alle esigenze del presente. È il problema che il Concilio si è posto, pensando alla liturgia.

Il movimento liturgico

Da Trento fino al XIX secolo sostanzialmente cambiò poco o nulla. Agli inizi del 1800 però in ambiente francese e belga si cominciò ad avvertire la forte necessità di una riforma liturgica ed ebbe inizio quello che fu chiamato il “movimento liturgico”, cioè una corrente di pensiero e di azione che mirava alla trasformazione della liturgia.[3] Soprattutto si metteva in evidenza come nel corso dei secoli si erano enormemente ampliate le forme di devozione che avevano conferito alla liturgia sempre più un carattere intimista e individualistico, a danno della fisionomia comunitaria dell’azione liturgica, intesa come il  culto della Chiesa-comunità dei credenti.

In Germania il movimento liturgico conobbe uno sviluppo notevole, portando alcuni ambienti a propugnare una riforma radicale della liturgia che sostituisse la dimensione essenzialmente verticale della liturgia post-tridentina (rapporto del singolo fedele con Dio) con una dimensione orizzontale, comunitaria e popolare. Uno storico moderno così descrive il movimento riformatore tedesco: “Le nuove idee avevano pesanti ricadute sul piano della spiritualità , della pastorale e della stessa ecclesiologia. I riformatori tendevano a cancellare la sostanziale differenza tra il sacerdozio sacramentale dei presbiteri e il sacerdozio comune dei laici, in modo da attribuire alla comunità dei fedeli una vera e propria natura sacerdotale; insinuavano l’idea di una ‘concelebrazione’ del sacerdote con il popolo; sostenevano che si doveva ‘partecipare’ attivamente alla Messa dialogando con il sacerdote, con l’esclusione di ogni altra forma di legittima assistenza al Sacrificio, come la meditazione, il Rosario o altre orazioni private; propugnavano la riduzione dell’altare a mensa; consideravano la Comunione extra Missam, le visite al SS.mo Sacramento, l’adorazione perpetua, come forme extra-liturgiche; manifestavano scarsa considerazione per le devozioni al Sacro Cuore, alla Madonna, ai Santi e, più in generale, per la spiritualità e per la morale tradizionale.”[4] Tante di queste idee, considerate eretiche a quel tempo e severamente condannate dal futuro Pio XII, allora nunzio in Germania, sembrano oggi descrivere l’evoluzione che poi la liturgia conobbe, fino ai nostri giorni.

In Belgio dopo gli anni ’20 la riforma liturgica ebbe momenti forti di sperimentazione nella prassi della fiorente Azione Cattolica e JOC (Gioventù operaia cattolica) che riuniva giovani, lavoratori e operai in grandi raduni che avevano nelle grandi celebrazioni liturgiche il loro vertice. In esse si sperimentavano nuove forme di partecipazione non consuete, come ad esempio, il dialogo popolo-sacerdote, il canto di tutto il popolo, l’offertorio, ecc…

I papi non restarono indifferenti a questo movimento innovatore, pur condannandone gli eccessi. Pio X e Pio XI vedevano di buon occhio un intensificarsi della partecipazione dei laici alla liturgia, nell’ambito di un programma di ricristianizzazione militante della società europea in via di secolarizzazione. Pio XII con l’enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947) diede come un primo riconoscimento ufficiale al movimento liturgico, pronunciandosi nettamente a favore di una partecipazione attiva dei fedeli alla Messa. Ma soprattutto papa Pacelli istituì nel 1948 una “Commissione per la riforma liturgica” che lavorò fino al 1960, con 82 riunioni che portarono ad una serie di riforme: l’attenuazione del digiuno prima di ricevere l’eucarestia (1943), la concessione delle Messe vespertine (1946), la semplificazione del Messale e del Breviario (1945-46), il ripristino della veglia pasquale (1951).

Ma com’era in concreto la S. Messa prima del Concilio?

Alcuni elementi caratteristici ci sono ben noti: l’unica lingua era il latino, la celebrazione spalle al popolo, l’assenza delle risposte liturgiche da parte del popolo, l’impossibilità per i preti di concelebrare, l’irrilevanza che il popolo non solo capisse ma nemmeno sentisse le parole pronunciate dal sacerdote, ecc…

Una colorita descrizione di un anziano prete ci rende bene lo spirito con cui era partecipata la messa in ambiente popolare: “Com’erano belle e ben vissute le messe di una volta. Quelle dei tempi antecedenti la riforma liturgica del Vaticano II. Di quando io muovevo i primi passi da chierichetto, sovente al mattino presto, quando ancora era buio e faceva freddo.

Erano belle soprattutto le messe della domenica, in primis la “messa granda” che sapeva proprio di sacro. Era così sacra che gli uomini in parte stavano in fondo alla chiesa, in parte nel coro dietro l’altare, in parte appartati in sacristia, perfettamente indifferenti al rito e a quello che accadeva in presbiterio ma occupati a parlare di affari e di cronaca paesana. Per non dire di chi stava fuori. Soprattutto fino alla preghiera di consacrazione. Perché prima la messa non contava, era al massimo affare del prete, dei bambini e delle donne. Anche se qualcuna di queste magari diceva il rosario. Tanto non è che si capisce più di tanto l’evento liturgico. E alla comunione fatta alla balaustra e in ginocchio gli uomini non andavano. Eccetto a Pasqua, ma “fatta” una settimana prima, alle sette della “domenica delle palme”.

E a proposito di Pasqua, la “madre di tutte le Veglie” (Sant’Agostino!), la Veglia del Sabato Santo, la celebrazione più importante di tutto l’anno vedeva presenti quattro gatti. Però tutto sapeva di sacro. Così di sacro che invece di coinvolgere nel rito escludeva.”[5]

Un’altra testimonianza riporta: “Allora, cinquant’anni fa, prima del Concilio, il grosso di chi andava ad «assistere» alla messa, per osservare il «precetto» più che per celebrare il giorno del Signore, arrivava in chiesa a ridosso del Vangelo e usciva alla comunione, restando lo stretto indispensabile, spesso con l’aria annoiata. Questo obbligo sociale era poi particolarmente importante per politici, amministratori, direttori di banca, imprenditori, impiegati. Molti uomini, soprattutto in provincia, restavano addirittura fuori, sul sagrato. ... Molti di quei praticanti domenicali che si limitavano agli higlights della messa (dal Vangelo alla comunione) cominciarono infatti a sentire in italiano le letture del Vangelo, di Paolo di Tarso, dell’Antico Testamento, per la prima volta. Perché in latino neppure molti laureati le capivano bene, e poi possedevano quel tono solenne e soave di formule misteriose che erano rassicuranti come mantra … In italiano invece si capivano fin troppo bene, e certe cose non andavano proprio bene. Erano scandalose, davano fastidio, erano «sovversive» e mandavano di traverso il pranzo domenicale. Ricordo una signora che andò a protestare con il parroco «perché va bene, è la Bibbia, ma la mia donna di servizio sarda, a sentire quelle cose così papali papali, insomma non era il caso, poteva anche essere traviata»… Sì, disse proprio così «traviata»… dalla Parola di Dio! Come, del resto, un mio lontano zio acquisito, avvocato che non aveva mai esercitato, proprietario terriero e immobiliare, buona persona, tra le prime tessere del Partito Popolare nel piccolo paese di mia madre, che una domenica di Ferragosto avvicinò mio padre e gli disse: «Ma quelle parole, dovevano proprio essere lette? Insomma, come rettamente interpretare quella parole che possono suscitare rivolta, disordine, rancori…?». Mio padre rispose: «Ma è il profeta Amos». «Amos chi?», replicò il lontano parente. «Il profeta dell’Antico testamento». «Appunto, e che bisogno c’era di leggerlo, e per giunta alla messa domenicale, e addirittura in italiano?»”[6]

Nell’impossibilità di seguire il rito, il popolo era esortato a svolgere nel tempo della messa le proprie devozioni personali (preghiere, rosari, giaculatorie, ecc…) o gli erano rivolti sermoni in cui un predicatore impartiva insegnamenti morali, sempre nel mentre si svolgeva l’azione liturgica, per lo più senza nesso con le letture della Messa, ma secondo schemi pedagogici popolari precostituiti.

Da notare come i testi citati mettano bene in evidenza quanto la Messa era un elemento ulteriore che sanciva l’assenza della Bibbia dalla vita dei cristiani. Quella che sarebbe dovuta essere l’occasione migliore per porgere ai fedeli la Scrittura aiutandoli nella sua comprensione con l’omelia, era invece, da questo punto di vista, del tutto inutile.

La Sacrosanctum Concilium: prima Costituzione dogmatica del Vaticano II

La prima fase del Concilio, dalla sua apertura fino a al 20 ottobre 1062, vide il ribaltamento totale delle previsioni. Nella fase preparatoria del Concilio alcune Commissioni avevano lavorato all’elaborazione di schemi perché fossero approvati. Tali Commissioni erano costituite da rappresentanti eminenti della Curia romana e il loro lavoro aveva come scopo la riaffermazione solenne della dottrina degli ultimi papi e la condanna degli errori già stigmatizzati. Era opinione condivisa, anche di Giovanni XXIII, che il Concilio avrebbe volentieri approvato gli Schemi proposti e nel giro di due-tre mesi il lavoro si sarebbe concluso.

In realtà fin dalla prima sessione emerse come i Padri conciliari avessero tutte le intenzioni di discutere realmente delle questioni affrontate dagli schemi, di entrare nella sostanza in essi contenuta e non di dare un semplice assenso formale alle deliberazioni già prese. Ben presto nell’aula conciliare si delinearono due fronti diversi: uno rappresentato dagli ambienti curali romani, favorevoli ad una rapida ed indolore conclusione del Concilio, senza scossoni né discussioni; un altro rappresentato da alcuni vescovi e cardinali del centro-Europa (Achille Liénart, vescovo di Lille, Josef Frings, arcivescovo di Colonia, Julius Döpfner, arcivescovo di Monaco, Franz König, arcivescovo di Vienna, Léon-Joseph Suenens, arcivescovo di Bruxelles-Malines, ecc…), appoggiati anche da sudamericani e alcuni italiani, che, prendendo sul serio le parole del papa di aperura del Concilio, vedevano in questa grande assise mondiale l’occasione per vivere una “nuova pentecoste” della Chiesa.

Fin dai primi giorni si intensificarono gli incontri dei Padri conciliari fuori della basilica, per stabilire contatti, scambiare opinioni e punti di vista, elaborare strategie per l’apertura di una nuova fase del Concilio, anche avvalendosi dei migliori teologi del tempo. Risultato di questo complesso e articolato lavoro dietro le quinte fu il rifiuto in aula di tutti gli schemi preparati dalle Commissioni, e il rimescolamento delle carte con l’ingresso di molti rappresentanti internazionali all’interno delle Commissioni incaricate di rielaborare i nuovi schemi di documenti da sottoporre all’assemblea.[7] Si impone pertanto fin da subito un nuovo modello assembleare di lavoro, sia nelle sessioni plenarie, a cui partecipano tutti i Padri conciliari, che nelle Commissioni, di cui fanno parte un terzo circa dei convenuti, più i teologi e i periti.

Il risultato delle strategie messe in campo fu quello di eliminare tutto il lavoro preparatorio, per cui degli schemi predisposti l’unico che rimase in piedi fu quello sulla liturgia. Proprio questo, che doveva essere il quinto, divenne il primo ad essere discusso, a partire dal 22 ottobre, quarta Congregazione generale del Concilio. La sua approvazione definitiva avvenne nell’aula conciliare della Basilica Vaticana il 4 dicembre 1963 alle ore 11 con una votazione plebiscitaria: 2147 padri risposero placet e soltanto 4 risposero non placet. La discussione in concilio si era protratta dal 22 ottobre al 13 novembre 1962 con 662 interventi (di cui 328 letti in aula), mentre la Commissione conciliare di liturgia presieduta dal Card. Larraona e composta di 25 padri e 26 periti vi aveva dedicato 56 riunioni generali, chiedendo al concilio 100 votazioni e ottenendo 85 modifiche allo schema.

L’accoglienza plebiscitaria dello Schema fu dovuto al fatto che il lungo processo di preparazione alla riforma liturgica aveva dissodato il terreno e favorito l’elaborazione di un testo che rispondeva alle esigenze del tempo. Infatti proprio il tema della liturgia era stato uno dei più citati nelle risposte dei vescovi alla lettera di convocazione del Concilio.

In più, la SC non solo ebbe l'onore di inaugurare il Concilio, ma impostò anche un metodo di lavoro, un nuovo linguaggio meno tecnico e più biblico. Ne prefigurò perfino il programma nello stesso prologo.[8] Infatti, nel cap. I della costituzione sono già presenti una serie di temi che emergeranno nei successivi documenti: dalla natura e missione della Chiesa all'incontro con le altre chiese, dalla Parola di Dio al nuovo rapporto con il mondo, dall'annuncio dei vangelo alla celebrazione eucaristica, culmine e fonte della vita ecclesiale.

A tal proposito va sottolineato come la SC esercitò un influsso anche nei documenti successivi. Prescindendo dal legame e dalla ripresa con Lumen gentium, Dei Verbum e Unitatis redintegratio, citiamo il caso emblematico di SC 10. In esso la liturgia, in specie l'eucaristia, è definita «culmen et fons della vita della chiesa». L'affermazione ritorna con riferimento esplicito all'eucaristia in ben cinque documenti conciliari.

Analisi della SC

Il documento si preoccupa di esporre, prima di tutto, la natura della liturgia e i suoi elementi costitutivi. Per farlo, la SC inizia presentando la volontà salvifica universale di Dio, che si è attuata nella storia attraverso i profeti e che ha raggiunto il suo culmine in Cristo (SC 5). L’opera della redenzione umana, realizzata in Cristo, continua nella Chiesa che la celebra nel sacrificio e nei suoi sacramenti (SC 6).

Già da questo inizio l’inserimento della liturgia nell’opera redentrice di Cristo la sottrae all’orizzonte angusto dell’ascesi individuale e alla fissità ritualistica e la inserisce nel flusso incessante della storia, vista sotto l’angolatura cristiana di “storia della salvezza”. Da qui parte l’affermazione della necessità, oltre che della possibilità, di operare una riforma.[9]

Proviamo ad enucleare i punti principali della costituzione:

1. La liturgia, come la Chiesa, è sacramento che rende presente il mistero pasquale. Questa dimensione sacramentale condivisa dalla liturgia e dalla Chiesa sta all’origine della corrente riformatrice e modifica nel profondo il Cristianesimo tradizionale rimettendo al centro il principio dell’Incarnazione. In questa dinamica il mondo non è rigettato, ma assunto come parte integrante del mistero, cosicché viene rivisitato il rapporto con le espressioni della cultura e della vita umana, vivificate dall’interno dallo Spirito che soffia nel mondo anche attraverso la celebrazione del rito.

Se da un lato la Chiesa rinuncia a gestire direttamente il mondo, rifiutando la visione anacronistica degli “intransigenti”, dall’altro essa si sente parte integrante di questo mondo, lotta con tutti gli uomini di buona volontà perché esso sia liberato dal male e ribadisce la sua vocazione di essere segno della presenza di Dio nel mondo, cosa che la liturgia attua concretamente.

2. La liturgia, come la Chiesa, vive costantemente in una tensione escatologica. Cioè il presente della Chiesa e dell’uomo è sempre un “già”, cioè vive in un tempo in cui il Regno è già stato inaugurato dal Signore Gesù con la sua azione salvifica e redentrice, ma questa realtà è ancora parziale , imperfetta e in uno stato di “non ancora” e tende pertanto alla pienezza che deve venire. L’eucaristia in sommo grado anticipa il banchetto escatologico della Gerusalemme celeste, ma non determina uno stato permanente, è un’anticipazione fragile del Regno (SC 8)[10]. La Chiesa è essa stessa in posizione intermedia; è santa e peccatrice, anticipa ma non esaurisce il Regno. La liturgia come la Chiesa risultano essere sempre in situazione di riforma esattamente perché sono in tensione escatologica. Risuona in queste parole la sensibilità orientale per la quale la liturgia è un angolo di paradiso, uno squarcio di cielo che si apre nella vita ordinaria. Essa ci ricorda all’interno dell’ordinarietà la straordinarietà del Regno, che in essa già sperimentiamo, ma alla cui pienezza dobbiamo tendere, senza mai accontentarci o rinunciare.

3. La liturgia, come la Chiesa, è una realtà di Popolo. La liturgia è etimologicamente un’ “azione corale del Popolo di Dio”. L’uso di questo termine, abbastanza raro nella tradizione teologica cattolica che preferiva il più comune “Messa”, è la chiara testimonianza del programma di riforma del Vaticano II:

“È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato» (1 Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia.” (SC 14).

“In tale riforma l'ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria.” (SC 21)

“Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa, che è «sacramento dell'unità », cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò tali azioni appartengono all'intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva.” (SC 26)

“Nella liturgia, infatti, Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il suo Vangelo; il popolo a sua volta risponde a Dio con il canto e con la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l'assemblea nel ruolo di Cristo, vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti.” (SC 33).

SC declericalizza la liturgia in una visione del sacerdozio comune dei fedeli.[11] “Giustamente perciò la liturgia è ritenuta quell’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo mediante il quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale” (SC 7).

Per significare in modo concreto questa dimensione di popolo SC ritorna con particolare insistenza sul concetto di “partecipazione attiva”, termine usato più di 20 volte nel testo: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti.” (SC 48)

Tanto è sentita la dimensione comunitaria della liturgia che SC amplia le possibilità di concelebrazione dei sacerdoti, evitando il paradosso di un individualismo cosi esasperato dei preti che, anche se celebravano nello stesso momento e nella stessa chiesa, dovevano farlo in altari distinti, mai assieme.[12]

4. La liturgia, come la Chiesa, è vivificata dalla Parola di Dio. Un altro elemento centrale è la riscoperta della Parola di Dio, che riacquista anche nella liturgia la sua centralità:

“Nella celebrazione liturgica la sacra Scrittura ha una importanza estrema. Da essa infatti si attingono le letture che vengono poi spiegate nell'omelia e i salmi che si cantano; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preghiere, le orazioni e i carmi liturgici; da essa infine prendono significato le azioni e i simboli liturgici. Perciò, per promuovere la riforma, il progresso e l'adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga favorito quel gusto saporoso e vivo della sacra Scrittura, che è attestato dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali.” (SC 24).

La Bibbia era la grande assente nella vita della Chiesa, e la liturgia ne soffriva grandemente. La costituzione Dei Verbum se ne occuperà ampiamente, ma fin dalla SC si intuisce che la reimmissione con forza della Scrittura nella vita della Chiesa sarà uno dei pilastri della prospettiva di rinnovamento conciliare.

“Affinché risulti evidente che nella liturgia rito e parola sono intimamente connessi: 1) Nelle sacre celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta” (SC 35).

“Affinché la mensa della parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia in modo che, in un determinato numero di anni, si legga al popolo la maggior parte della sacra Scrittura.” (SC 51)

Sempre a questo proposito viene data importanza all’omelia riportandola al suo ruolo primitivo: spiegazione della Scrittura ascoltata e non discorso edificante di contenuto morale: “La predicazione poi attinga anzitutto alle fonti della sacra Scrittura e della liturgia, poiché essa è l'annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo, mistero che è in mezzo a noi sempre presente e operante, soprattutto nelle celebrazioni liturgiche.” (SC 35);

“Si raccomanda vivamente l'omelia, che è parte dell'azione liturgica. In essa nel corso dell'anno liturgico vengano presentati i misteri della fede e le norme della vita cristiana, attingendoli dal testo sacro. Nelle messe della domenica e dei giorni festivi con partecipazione di popolo non si ometta l'omelia se non per grave motivo.” (SC 52)

Anche la preghiera dei fedeli ritorna ad essere la risposta del popolo alla Parola di Dio ascoltata.

Si ristabilisce con forza l’unità della liturgia della Parola con quella eucaristica. Mentre prima si riteneva, come abbiamo sentito raccontare dai testimoni, che la prima fosse solo una pia devozione, mentre solamente la seconda avesse la consistenza del sacramento e l’obbligo del precetto, ora si mette in chiaro come l’una trae fondamento e consistenza dall’altra essendo indissolubilmente connesse fra loro: “Le due parti che costituiscono in certo modo la messa, cioè la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, sono congiunte tra di loro così strettamente da formare un solo atto di culto. Perciò il sacro Concilio esorta caldamente i pastori d'anime ad istruire con cura i fedeli nella catechesi, perché partecipino a tutta la messa, specialmente la domenica e le feste di precetto.” (SC 56)

Il ruolo decisivo della Parola, fatto emergere fin dall’inizio da SC, oltre ogni polemica, ha prodotto una nuova familiarità con la Bibbia ed è stato uno dei fattori fondamentali per il rinnovamento spirituale, teologico e pastorale della Chiesa.

5. La liturgia, come la Chiesa, è missionaria. La missionarietà della liturgia non è solo legata al congedo nel finale di ogni celebrazione, che impegna i fedeli alla testimonianza nel mondo. Vi è un aspetto missionario assai meno ovvio, che interpreta la missione della Chiesa in modo nuovo. SC rivolge molta attenzione a che la liturgia “parli la lingua” delle persone a cui si rivolge. Specifica in tal senso in modo esplicito come essa debba adattarsi all’indole e alle tradizioni dei vari popoli con quel processo che si chiama “Inculturazione”:

 “La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità; rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nel costume dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico.” (SC37).

Tale processo di estroversione della Chiesa si inserisce nel clima culturale degli anni ’60, quando i cristiani si trovavano a far fronte ad un forte impegno missionario verso i popoli non cristiani. Oggi però lo stesso identico discorso vale per ogni contesto culturale che, in seguito ai processi di secolarizzazione, diviene sempre più estraneo alla fede. Anche sotto questo punto di vista il Concilio richiede un impegno più avanzato nel campo della possibilità di inculturazione della fede, come aveva già previsto Giovanni XXIII nel discorso d’apertura: “Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata”.[13]

Il rapporto con la cultura e con le culture è talmente intrinseco al messaggio cristiano che il dialogo non riguarda solo l’attitudine di porgere il Vangelo, ma implica anche il riconoscere e accogliere il meglio dell’interlocutore. Si potrebbe parlare qui di nucleo determinante della riforma conciliare perché avviene il passaggio da un cristianesimo dell’identità ad un cristianesimo che accetta le differenze e vi scorge un motivo di arricchimento reciproco.

Il Concilio intende la riforma della Chiesa come dialogo costruttivo con le culture perché l’Incarnazione è la legge di ogni evangelizzazione. Rimanere pietrificati su una mediazione storica unica significa alla fine tradire il Vangelo. È una forma di secolarismo, anche se il riferimento è a un secolo passato e non a quello contemporaneo. Il quinto pilastro della riforma, cioè la missione intesa come esposizione dell’identità della Chiesa alla differenza del mondo per dare e per ricevere, rappresenta dunque un vero passaggio epocale nella storia della Chiesa.

La riforma liturgica dopo il Concilio

Toccò a Paolo VI promulgare solennemente la Costituzione dogmatica SC. In quell’occasione egli disse:

“Non è stata senza frutto l'ardua e intricata discussione su uno dei temi, il primo esaminato ed il primo, in certo senso, nell'eccellenza intrinseca e nell'importanza per la vita della chiesa, quello sulla sacra liturgia, ed oggi da noi solennemente promulgato. Esulta l'animo nostro per questo risultato. Noi vi ravvisiamo l'ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto, la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia, prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che noi possiamo fare al popolo cristiano con noi credente e orante, e primo invito al mondo perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta l'ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e le speranze umane per Cristo e nello Spirito Santo”.[14]

Con la promulgazione della SC Paolo VI decise la costituzione di una Commissione per l’applicazione della Costituzione sulla santa liturgia[15] che aveva il compito precipuo di curare l’applicazione concreta delle novità contenute nel documento conciliare.

Fu modificato il rito della messa, il cui nuovo ordinamento fu messo in vigore e dichiarato obbligatorio da papa Paolo VI con la costituzione apostolica "Missale Romanum" del 3 aprile 1969.

Per favorire una partecipazione cosciente, attiva e semplice dei fedeli fu, di fatto, abolito l’uso del latino a favore delle lingue moderne.

I riti sono stati semplificati e ai partecipanti sono stati attribuiti ruoli distinti (sacerdote, lettore, coro, accoliti, ecc…).

Furono poi eliminati doppioni, recuperati testi pretridentini e rivisti altri. Il nuovo Missale Romanum fu pubblicato nel 1970. La riforma della messa poté dirsi conclusa nel 1975 con l’introduzione di due ulteriori preghiere eucaristiche di riconciliazione. A causa della resistenza di una minoranza la riforma dovette essere imposta con la massima autorità papale. Nel Messale del 2000, pubblicato nel 2002, sono stati introdotti tre nuovi canoni per le messe con i bambini e quattro varianti per messe celebrate in particolari occasioni.

Un mutamento molto visibile – non previsto dal Concilio – fu la mutata posizione del sacerdote celebrante con il volto verso l’assemblea e non più spalle al popolo. Tale mutamento ha reso necessari mutamenti architettonici in quasi tutte le chiese. Vennero infine rimosse le balaustre poste di fronte all’altare a separare il presbiterio dall’assemblea.

Il nuovo orientamento della liturgia ha comportato anche una rivalutazione del canto dei fedeli. In vari paesi le conferenze episcopale hanno elaborato appositi libri contenenti gli inni liturgici proposti.

La concelebrazione è divenuto il modo ordinario, e non più eccezionale, di celebrare.

La riforma liturgica post-conciliare non ha mancato, fin dall'inizio, di suscitare incomprensioni in taluni ambienti. D'altronde, un argomento così vitale per la vita della chiesa, qual è la liturgia, non poteva non suscitare interesse e clamore, segno tangibile della sua centralità, e ciò accade ancora oggi.
Si è detto che la riforma è andata molto oltre quanto previsto dal Concilio. Ciò è vero, se ci si riferisce alla lettera dei documenti conciliari. In realtà il processo di aggiornamento iniziato dei modi di celebrare ha portato ad una comprensione più profonda e, soprattutto, all’ingresso nella vita della Chiesa dello spirito stesso con cui è stata elaborata la SC. Il processo avviato ha portato con sé la necessità di portare a compimento quanto la lettera solamente accennava o intuiva, una volta messo il testo a confronto con la vita delle comunità e con le urgenti necessità pastorali del tempo presente


[1] Josef Andreas Jungmann, Missarum Solemnia, vol. II, Marietti 1953, Casale M., p. 282.
[2] Ivi, p. 286.
[3] In Francia va’ citato il benedettino Dom Prosper Guéranger che nella sua opera di riformatore del monachesimo occidentale affrontò la questione liturgica oeprando un ritorno alle origine dell’antica tradizione romana, dopo le trasformazioni apportate dal protestantesimo e dal giansenismo. In Belgio un altro benedettino, Dom Lambert Beauduin si pose a capo di un movimento di riforma che aveva come scopo eliminare lo spirito individualistico per dare alla liturgia il senso comunitario che le era proprio.
[4] Roberto De Mattei, Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta, Lindau, Torino, 2010, pp. 58-59.
[5] Giampiero Laugero, “Erano così belle le Messe di una volta?”, in La Guida, 7 marzo 2008.
[6] Paolo Giuntella, L’aratro, l’ipod e le stelle, diario di viaggio di un laico cristiano, Paoline, 2008, pp. 16-17.
[7] Il teologo progressista Chenu circa gli schemi preparatori scrive che hanno una prospettiva “strettamente intellettualistica”, si limitano a denunciare gli “errori intra-teologici, senza accennare alle drammatiche domande che gli uomini si pongono, siano essi cristiani o meno, a causa di un mutamento della condizione umana, esteriore e interiore, quale la storia non ha mai registrato … il Concilio diventa un’operazione di pulizia intellettuale nelle mura della scolastica.” Marie-Dominique Chenu, Diari del Vaticano, (a cura di Alberto Melloni), Il Mulino, Bologna 1996, p. 57.
[8] “Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di doversi occupare in modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia.” SC 1.
[9] “Perché il popolo cristiano ottenga più sicuramente le grazie abbondanti che la sacra liturgia racchiude, la santa madre Chiesa desidera fare un'accurata riforma generale della liturgia. Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o addirittura devono variare, qualora si siano introdotti in esse elementi meno rispondenti alla intima natura della liturgia stessa, oppure queste parti siano diventate non più idonee. In tale riforma l'ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria.” SC 21
[10] “Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l'inno di gloria; ricordando con venerazione i santi, speriamo di aver parte con essi; aspettiamo come Salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli comparirà, egli che è la nostra vita, e noi saremo manifestati con lui nella gloria”. SC 8.
[11] Il tema del sacerdozio comune dei fedeli poggia su un’ecclesiologia del Popolo di Dio, qui solo accennata, e sarà oggetto di riflessione approfondita del Concilio più in la, specialmente, come vedremo meglio, nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium.
[12] SC 57.
[13] Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia 5.
[14] Paolo VI, allocuzione Tempus iam advenit 34.
[15] Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.

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