“Fonte e Culmine della
vita della Chiesa”
Il rinnovamento
liturgico
e la Costituzione
conciliare Sacrosanctum Concilium
Per valutare in modo adeguato la portata e il contenuto della
prima Costituzione dogmatica del Concilio, la Sacrosanctum Concilium (SC) è utile iniziare gettando uno sguardo su
ciò che aveva preceduto il Concilio, analizzeremo poi come la Costituzione fu
elaborata e vide la luce, nel contesto di quelle prime fasi tumultuose dello
svolgimento del Concilio stesso, e, infine, affronteremo la fase delicata
dell’applicazione della riforma conciliare nel periodo successivo al 1965.
La liturgia organismo
vivo
Va innanzitutto messo in evidenza come la liturgia nel corso
dei secoli ha subito continui processi di evoluzione che in ogni epoca le ha
conferito un aspetto diverso. Questo per motivi diversi:
il primo è di ordine teologico-spirituale: la liturgia è
l’espressione più completa e alta della preghiera cristiana e in quanto tale
risente del clima spirituale nel quale vive il popolo che la celebra. In essa
in qualche modo si rispecchia la realtà dell’incarnazione che ha fatto sì che
la realtà eterna e immutabile della divinità assumesse i tratti storici e
contingenti di un uomo di una certa cultura, di un certo tempo, di una specifica
esperienza e contesto. Questo principio, a volte sottovalutato, come nel caso
della nostalgia attuale per il rito in latino, è stato affermato con forza e
assunto come principio-guida nella SC. Parimenti la liturgia pur essendo sempre
il culto del popolo per il Dio dei cristiani, non è immune dal porsi in dialogo
costruttivo e creativo con la realtà nella quale si inserisce. Ciò non
significa che abbia seguito le mode intellettuali o culturali del tempo, o che
sia stata espressione di quello che la Scrittura chiama con un’espressione
felice lo “Spirito di questo mondo”, ma di certo subì l’influsso dell’idea di
uomo, di fede e di Chiesa che si sono succedute nelle diverse epoche storiche.
Il secondo ordine di motivi è che questi cambiamenti spesso si
sono operati in contesti geografici diversi, per motivi contingenti e spesso
non sono stati condivisi dall’intera comunità ecclesiale, in tempi in cui i
contatti erano meno facili e frequenti. Un segno evidente è lo svilupparsi dei
diversi riti, orientali e occidentali, che restano tuttora legati ad un
contesto geografico e culturale. Ma anche all’interno di ogni rito si sono
create delle differenze, a volte notevoli.
Per usare una similitudine potremmo dire che la liturgia è
come un corpo vivo che respirando e nutrendosi assume naturalmente gli elementi
dall’esterno, pur restando un organismo vivente con le caratteristiche che gli
sono proprie. Se togliamo respiro e nutrimento il corpo muore e resta come
“imbalsamato”: è sempre un corpo, ma mummificato.
Per fare solo alcuni esempi dei cambiamenti avvenuti nel
corso dei secoli:
I fedeli hanno sempre, per tutto il primo millennio, ricevuto
la comunione all'altare e in piedi. Nel sec. XIII appare l'uso di stendere fra
l'altare e i fedeli una tovaglia, sorretta da due accoliti, mentre la
costruzione delle balaustre non compare prima del XVI sec.[1]
Nel IX sec. iniziò l'uso di dare la comunione in bocca,
invece che sulla mano del fedele[2].
Sull'altare in epoca antica non c'era il tabernacolo
eucaristico, che non vi compare mai prima del XV sec., ma neppure vi si
collocavano le immagini del Signore o dei santi. Fu proprio la collocazione
dell'urna con il corpo di san Dionigi sopra, invece che sotto, l'altare di
Saint-Dénis, fuori Parigi, nel XII sec., a dare inizio a una forma di altare in
cui la mensa si riduceva a una forma stretta e lunga e tale da non permettere
più di celebrare rivolti verso il popolo. A Roma, invece, l'uso antico non è
mai stato abbandonato e in San Pietro, ancora nel 1594, papa Clemente VIII consacrò
l'altare maggiore sul quale da allora fino ad oggi (così come accadeva sul
precedente altare di Gregorio Magno e poi su quello che gli viene sovrapposto
nel 1123 da Callisto II) il Papa ha sempre celebrato rivolto al popolo.
La liturgia prima del Vaticano
II
Questo lento progressivo cambiamento portò con sé un
affastellarsi di usi, riti e aggiunte che causarono spesso anche lo snaturamento del
significato originale di alcune parti della liturgia. Dopo la Riforma
protestante, nel processo di reazione cattolica che voleva restituire
credibilità e rigore alla disciplina, oltre che alla spiritualità, della Chiesa
cattolica eliminandone deviazioni ed errori, si avvertì l’esigenza di operare
una riforma organica della liturgia.
Il Concilio di Trento, da cui partì il processo cosiddetto di
“controriforma”, affrontò questo tema, e a seguito di esso, fu pubblicata sotto
Papa Pio V nel 1570 una nuova versione del Missale
Romanum. Per la sua redazione furono utilizzati i più antichi manoscritti e
messali a disposizioni, al fine di eliminare errori e falsità e giungere a una
redazione secondo la norma dei Padri della Chiesa e rispettosa della teologia
più accreditata. Il nuovo messale fu dichiarato obbligatorio per l’intera
Chiesa.
Tutto questo non vuol dire che nella tradizione liturgica
della Chiesa ci siano epoche buone ed epoche cattive, forme celebrative
autentiche e altre no. Ciò che è vero è che ci sono forme di preghiera
cristiana più corrispondenti ai bisogni del proprio tempo e altre, valide al
loro tempo, ma meno capaci di rispondere alle esigenze del presente. È il
problema che il Concilio si è posto, pensando alla liturgia.
Il movimento liturgico
Da Trento fino al XIX secolo sostanzialmente cambiò poco o
nulla. Agli inizi del 1800 però in ambiente francese e belga si cominciò ad
avvertire la forte necessità di una riforma liturgica ed ebbe inizio quello che
fu chiamato il “movimento liturgico”, cioè una corrente di pensiero e di azione
che mirava alla trasformazione della liturgia.[3]
Soprattutto si metteva in evidenza come nel corso dei secoli si erano enormemente
ampliate le forme di devozione che avevano conferito alla liturgia sempre più
un carattere intimista e individualistico, a danno della fisionomia comunitaria
dell’azione liturgica, intesa come il culto
della Chiesa-comunità dei credenti.
In Germania il movimento liturgico conobbe uno sviluppo
notevole, portando alcuni ambienti a propugnare una riforma radicale della
liturgia che sostituisse la dimensione essenzialmente verticale della liturgia
post-tridentina (rapporto del singolo fedele con Dio) con una dimensione
orizzontale, comunitaria e popolare. Uno storico moderno così descrive il
movimento riformatore tedesco: “Le nuove
idee avevano pesanti ricadute sul piano della spiritualità , della pastorale e
della stessa ecclesiologia. I riformatori tendevano a cancellare la sostanziale
differenza tra il sacerdozio sacramentale dei presbiteri e il sacerdozio comune
dei laici, in modo da attribuire alla comunità dei fedeli una vera e propria
natura sacerdotale; insinuavano l’idea di una ‘concelebrazione’ del sacerdote
con il popolo; sostenevano che si doveva ‘partecipare’ attivamente alla Messa
dialogando con il sacerdote, con l’esclusione di ogni altra forma di legittima
assistenza al Sacrificio, come la meditazione, il Rosario o altre orazioni
private; propugnavano la riduzione dell’altare a mensa; consideravano la
Comunione extra Missam, le visite al SS.mo
Sacramento, l’adorazione perpetua, come forme extra-liturgiche; manifestavano
scarsa considerazione per le devozioni al Sacro Cuore, alla Madonna, ai Santi
e, più in generale, per la spiritualità e per la morale tradizionale.”[4]
Tante di queste idee, considerate eretiche a quel tempo e severamente
condannate dal futuro Pio XII, allora nunzio in Germania, sembrano oggi descrivere
l’evoluzione che poi la liturgia conobbe, fino ai nostri giorni.
In Belgio dopo gli anni ’20 la riforma liturgica ebbe momenti
forti di sperimentazione nella prassi della fiorente Azione Cattolica e JOC (Gioventù
operaia cattolica) che riuniva giovani, lavoratori e operai in grandi raduni
che avevano nelle grandi celebrazioni liturgiche il loro vertice. In esse si
sperimentavano nuove forme di partecipazione non consuete, come ad esempio, il
dialogo popolo-sacerdote, il canto di tutto il popolo, l’offertorio, ecc…
I papi non restarono indifferenti a questo movimento
innovatore, pur condannandone gli eccessi. Pio X e Pio XI vedevano di buon
occhio un intensificarsi della partecipazione dei laici alla liturgia,
nell’ambito di un programma di ricristianizzazione militante della società
europea in via di secolarizzazione. Pio XII con l’enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947) diede
come un primo riconoscimento ufficiale al movimento liturgico, pronunciandosi
nettamente a favore di una partecipazione attiva dei fedeli alla Messa. Ma
soprattutto papa Pacelli istituì nel 1948 una “Commissione per la riforma
liturgica” che lavorò fino al 1960, con 82 riunioni che portarono ad una serie
di riforme: l’attenuazione del digiuno prima di ricevere l’eucarestia (1943),
la concessione delle Messe vespertine (1946), la semplificazione del Messale e
del Breviario (1945-46), il ripristino della veglia pasquale (1951).
Ma com’era in concreto la S. Messa prima del Concilio?
Alcuni elementi caratteristici ci sono ben noti: l’unica
lingua era il latino, la celebrazione spalle al popolo, l’assenza delle
risposte liturgiche da parte del popolo, l’impossibilità per i preti di
concelebrare, l’irrilevanza che il popolo non solo capisse ma nemmeno sentisse
le parole pronunciate dal sacerdote, ecc…
Una colorita descrizione di un anziano prete ci rende bene lo
spirito con cui era partecipata la messa in ambiente popolare: “Com’erano belle e ben vissute le messe di
una volta. Quelle dei tempi antecedenti la riforma liturgica del Vaticano II.
Di quando io muovevo i primi passi da chierichetto, sovente al mattino presto,
quando ancora era buio e faceva freddo.
Erano belle soprattutto
le messe della domenica, in primis la “messa granda” che
sapeva proprio di sacro. Era così sacra che gli uomini in parte stavano in
fondo alla chiesa, in parte nel coro dietro l’altare, in parte appartati in
sacristia, perfettamente indifferenti al rito e a quello che accadeva in
presbiterio ma occupati a parlare di affari e di cronaca paesana. Per non dire
di chi stava fuori. Soprattutto fino alla preghiera di consacrazione. Perché
prima la messa non contava, era al massimo affare del prete, dei bambini e
delle donne. Anche se qualcuna di queste magari diceva il rosario. Tanto non è
che si capisce più di tanto l’evento liturgico. E alla comunione fatta alla
balaustra e in ginocchio gli uomini non andavano. Eccetto a Pasqua, ma “fatta”
una settimana prima, alle sette della “domenica delle palme”.
E a proposito di
Pasqua, la “madre di tutte le Veglie” (Sant’Agostino!), la Veglia del Sabato
Santo, la celebrazione più importante di tutto l’anno vedeva presenti quattro
gatti. Però tutto sapeva di sacro. Così di sacro che invece di coinvolgere nel
rito escludeva.”[5]
Un’altra testimonianza riporta: “Allora, cinquant’anni fa, prima del Concilio, il grosso di chi andava
ad «assistere» alla messa, per osservare il «precetto» più che per celebrare il
giorno del Signore, arrivava in chiesa a ridosso del Vangelo e usciva alla
comunione, restando lo stretto indispensabile, spesso con l’aria annoiata.
Questo obbligo sociale era poi particolarmente importante per politici,
amministratori, direttori di banca, imprenditori, impiegati. Molti uomini,
soprattutto in provincia, restavano addirittura fuori, sul sagrato. ... Molti
di quei praticanti domenicali che si limitavano agli higlights della messa (dal Vangelo alla comunione)
cominciarono infatti a sentire in italiano le letture del Vangelo, di Paolo di
Tarso, dell’Antico Testamento, per la prima volta. Perché in latino neppure
molti laureati le capivano bene, e poi possedevano quel tono solenne e soave di
formule misteriose che erano rassicuranti come mantra … In italiano invece si
capivano fin troppo bene, e certe cose non andavano proprio bene. Erano
scandalose, davano fastidio, erano «sovversive» e mandavano di traverso il
pranzo domenicale. Ricordo una signora che andò a protestare con il parroco
«perché va bene, è la Bibbia, ma la mia donna di servizio sarda, a sentire
quelle cose così papali papali, insomma non era il caso, poteva anche essere
traviata»… Sì, disse proprio così «traviata»… dalla Parola di Dio! Come, del
resto, un mio lontano zio acquisito, avvocato che non aveva mai esercitato,
proprietario terriero e immobiliare, buona persona, tra le prime tessere del
Partito Popolare nel piccolo paese di mia madre, che una domenica di Ferragosto
avvicinò mio padre e gli disse: «Ma quelle parole, dovevano proprio essere
lette? Insomma, come rettamente interpretare quella parole che possono
suscitare rivolta, disordine, rancori…?». Mio padre rispose: «Ma è il profeta
Amos». «Amos chi?», replicò il lontano parente. «Il profeta dell’Antico
testamento». «Appunto, e che bisogno c’era di leggerlo, e per giunta alla messa
domenicale, e addirittura in italiano?»”[6]
Nell’impossibilità di seguire il rito, il popolo era esortato
a svolgere nel tempo della messa le proprie devozioni personali (preghiere,
rosari, giaculatorie, ecc…) o gli erano rivolti sermoni in cui un predicatore
impartiva insegnamenti morali, sempre nel mentre si svolgeva l’azione liturgica,
per lo più senza nesso con le letture della Messa, ma secondo schemi pedagogici
popolari precostituiti.
Da notare come i testi citati mettano bene in evidenza quanto
la Messa era un elemento ulteriore che sanciva l’assenza della Bibbia dalla
vita dei cristiani. Quella che sarebbe dovuta essere l’occasione migliore per
porgere ai fedeli la Scrittura aiutandoli nella sua comprensione con l’omelia, era
invece, da questo punto di vista, del tutto inutile.
La Sacrosanctum Concilium: prima Costituzione dogmatica del Vaticano
II
La prima fase del Concilio, dalla sua apertura fino a al 20
ottobre 1062, vide il ribaltamento totale delle previsioni. Nella fase
preparatoria del Concilio alcune Commissioni avevano lavorato all’elaborazione
di schemi perché fossero approvati. Tali Commissioni erano costituite da rappresentanti
eminenti della Curia romana e il loro lavoro aveva come scopo la riaffermazione
solenne della dottrina degli ultimi papi e la condanna degli errori già stigmatizzati.
Era opinione condivisa, anche di Giovanni XXIII, che il Concilio avrebbe
volentieri approvato gli Schemi proposti e nel giro di due-tre mesi il lavoro
si sarebbe concluso.
In realtà fin dalla prima sessione emerse come i Padri
conciliari avessero tutte le intenzioni di discutere realmente delle questioni
affrontate dagli schemi, di entrare nella sostanza in essi contenuta e non di
dare un semplice assenso formale alle deliberazioni già prese. Ben presto
nell’aula conciliare si delinearono due fronti diversi: uno rappresentato dagli
ambienti curali romani, favorevoli ad una rapida ed indolore conclusione del
Concilio, senza scossoni né discussioni; un altro rappresentato da alcuni
vescovi e cardinali del centro-Europa (Achille Liénart, vescovo di Lille, Josef
Frings, arcivescovo di Colonia, Julius Döpfner, arcivescovo di Monaco, Franz
König, arcivescovo di Vienna, Léon-Joseph Suenens, arcivescovo di
Bruxelles-Malines, ecc…), appoggiati anche da sudamericani e alcuni italiani,
che, prendendo sul serio le parole del papa di aperura del Concilio, vedevano
in questa grande assise mondiale l’occasione per vivere una “nuova pentecoste”
della Chiesa.
Fin dai primi giorni si intensificarono gli incontri dei
Padri conciliari fuori della basilica, per stabilire contatti, scambiare
opinioni e punti di vista, elaborare strategie per l’apertura di una nuova fase
del Concilio, anche avvalendosi dei migliori teologi del tempo. Risultato di
questo complesso e articolato lavoro dietro le quinte fu il rifiuto in aula di
tutti gli schemi preparati dalle Commissioni, e il rimescolamento delle carte
con l’ingresso di molti rappresentanti internazionali all’interno delle
Commissioni incaricate di rielaborare i nuovi schemi di documenti da sottoporre
all’assemblea.[7] Si impone
pertanto fin da subito un nuovo modello assembleare di lavoro, sia nelle
sessioni plenarie, a cui partecipano tutti i Padri conciliari, che nelle
Commissioni, di cui fanno parte un terzo circa dei convenuti, più i teologi e i
periti.
Il risultato delle strategie messe in campo fu quello di
eliminare tutto il lavoro preparatorio, per cui degli schemi predisposti
l’unico che rimase in piedi fu quello sulla liturgia. Proprio questo, che
doveva essere il quinto, divenne il primo ad essere discusso, a partire dal 22
ottobre, quarta Congregazione generale del Concilio. La sua approvazione
definitiva avvenne nell’aula conciliare della Basilica Vaticana il 4 dicembre
1963 alle ore 11 con una votazione plebiscitaria: 2147 padri risposero placet
e soltanto 4 risposero non placet. La discussione in concilio si era
protratta dal 22 ottobre al 13 novembre 1962 con 662 interventi (di cui 328
letti in aula), mentre la Commissione conciliare di liturgia presieduta dal Card.
Larraona e composta di 25 padri e 26 periti vi aveva dedicato 56 riunioni
generali, chiedendo al concilio 100 votazioni e ottenendo 85 modifiche allo
schema.
L’accoglienza plebiscitaria dello Schema fu dovuto al fatto
che il lungo processo di preparazione alla riforma liturgica aveva dissodato il
terreno e favorito l’elaborazione di un testo che rispondeva alle esigenze del
tempo. Infatti proprio il tema della liturgia era stato uno dei più citati nelle
risposte dei vescovi alla lettera di convocazione del Concilio.
In più, la SC non solo ebbe l'onore di inaugurare il Concilio,
ma impostò anche un metodo di lavoro, un nuovo linguaggio meno tecnico e più
biblico. Ne prefigurò perfino il programma nello stesso prologo.[8]
Infatti, nel cap. I della costituzione sono già presenti una serie di temi che
emergeranno nei successivi documenti: dalla natura e missione della Chiesa
all'incontro con le altre chiese, dalla Parola di Dio al nuovo rapporto con il
mondo, dall'annuncio dei vangelo alla celebrazione eucaristica, culmine e fonte
della vita ecclesiale.
A tal proposito va sottolineato come la SC esercitò un influsso
anche nei documenti successivi. Prescindendo dal legame e dalla ripresa con Lumen
gentium, Dei Verbum e Unitatis redintegratio, citiamo il caso
emblematico di SC 10. In esso la liturgia, in specie l'eucaristia, è definita «culmen
et fons della vita della chiesa». L'affermazione ritorna con riferimento
esplicito all'eucaristia in ben cinque documenti conciliari.
Analisi della SC
Il documento si preoccupa di esporre, prima di tutto, la
natura della liturgia e i suoi elementi costitutivi. Per farlo, la SC inizia
presentando la volontà salvifica universale di Dio, che si è attuata nella
storia attraverso i profeti e che ha raggiunto il suo culmine in Cristo (SC 5).
L’opera della redenzione umana, realizzata in Cristo, continua nella Chiesa che
la celebra nel sacrificio e nei suoi sacramenti (SC 6).
Già da questo inizio l’inserimento della liturgia nell’opera
redentrice di Cristo la sottrae all’orizzonte angusto dell’ascesi individuale e
alla fissità ritualistica e la inserisce nel flusso incessante della storia,
vista sotto l’angolatura cristiana di “storia della salvezza”. Da qui parte
l’affermazione della necessità, oltre che della possibilità, di operare una riforma.[9]
Proviamo ad enucleare i punti principali della costituzione:
1. La liturgia, come la Chiesa, è sacramento che rende
presente il mistero pasquale. Questa dimensione sacramentale condivisa
dalla liturgia e dalla Chiesa sta all’origine della corrente riformatrice e
modifica nel profondo il Cristianesimo tradizionale rimettendo al centro il
principio dell’Incarnazione. In questa dinamica il mondo non è rigettato, ma
assunto come parte integrante del mistero, cosicché viene rivisitato il
rapporto con le espressioni della cultura e della vita umana, vivificate
dall’interno dallo Spirito che soffia nel mondo anche attraverso la
celebrazione del rito.
Se da un lato la Chiesa rinuncia a gestire direttamente il
mondo, rifiutando la visione anacronistica degli “intransigenti”, dall’altro
essa si sente parte integrante di questo mondo, lotta con tutti gli uomini di
buona volontà perché esso sia liberato dal male e ribadisce la sua vocazione di
essere segno della presenza di Dio nel mondo, cosa che la liturgia attua
concretamente.
2. La liturgia, come la Chiesa, vive costantemente in una
tensione escatologica. Cioè il presente della Chiesa e dell’uomo è sempre
un “già”, cioè vive in un tempo in cui il Regno è già stato inaugurato dal
Signore Gesù con la sua azione salvifica e redentrice, ma questa realtà è
ancora parziale , imperfetta e in uno stato di “non ancora” e tende pertanto
alla pienezza che deve venire. L’eucaristia in sommo grado anticipa il
banchetto escatologico della Gerusalemme celeste, ma non determina uno stato
permanente, è un’anticipazione fragile del Regno (SC 8)[10].
La Chiesa è essa stessa in posizione intermedia; è santa e peccatrice, anticipa
ma non esaurisce il Regno. La liturgia come la Chiesa risultano essere sempre
in situazione di riforma esattamente perché sono in tensione escatologica. Risuona
in queste parole la sensibilità orientale per la quale la liturgia è un angolo
di paradiso, uno squarcio di cielo che si apre nella vita ordinaria. Essa ci
ricorda all’interno dell’ordinarietà la straordinarietà del Regno, che in essa
già sperimentiamo, ma alla cui pienezza dobbiamo tendere, senza mai accontentarci
o rinunciare.
3. La liturgia, come la Chiesa, è una realtà di Popolo.
La liturgia è etimologicamente un’ “azione corale del Popolo di Dio”. L’uso di
questo termine, abbastanza raro nella tradizione teologica cattolica che
preferiva il più comune “Messa”, è la chiara testimonianza del programma di
riforma del Vaticano II:
“È ardente desiderio
della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena,
consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è
richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano,
«stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato» (1 Pt 2,9;
cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo. A tale piena e attiva
partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro
della riforma e della promozione della liturgia.” (SC 14).
“In tale riforma
l'ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante
realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo
cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una
celebrazione piena, attiva e comunitaria.” (SC 21)
“Le azioni liturgiche
non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa, che è «sacramento
dell'unità », cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi.
Perciò tali azioni appartengono all'intero corpo della Chiesa, lo manifestano e
lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo
la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva.” (SC 26)
“Nella liturgia,
infatti, Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il suo Vangelo; il
popolo a sua volta risponde a Dio con il canto e con la preghiera. Anzi, le
preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l'assemblea nel ruolo di
Cristo, vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti.” (SC 33).
SC declericalizza la liturgia in una visione del sacerdozio
comune dei fedeli.[11]
“Giustamente perciò la liturgia è
ritenuta quell’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo mediante il
quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno,
realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di
Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale”
(SC 7).
Per significare in modo concreto questa dimensione di popolo
SC ritorna con particolare insistenza sul concetto di “partecipazione attiva”,
termine usato più di 20 volte nel testo: “Perciò
la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o
muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi
riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente,
piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla
mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza
macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino
ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano
perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente
tutto in tutti.” (SC 48)
Tanto è sentita la dimensione comunitaria della liturgia che
SC amplia le possibilità di concelebrazione dei sacerdoti, evitando il
paradosso di un individualismo cosi esasperato dei preti che, anche se
celebravano nello stesso momento e nella stessa chiesa, dovevano farlo in
altari distinti, mai assieme.[12]
4. La liturgia, come la Chiesa, è vivificata dalla Parola
di Dio. Un altro elemento centrale è la riscoperta della Parola di Dio, che
riacquista anche nella liturgia la sua centralità:
“Nella celebrazione
liturgica la sacra Scrittura ha una importanza estrema. Da essa infatti si
attingono le letture che vengono poi spiegate nell'omelia e i salmi che si
cantano; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preghiere, le
orazioni e i carmi liturgici; da essa infine prendono significato le azioni e i
simboli liturgici. Perciò, per promuovere la riforma, il progresso e
l'adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga favorito quel gusto
saporoso e vivo della sacra Scrittura, che è attestato dalla venerabile
tradizione dei riti sia orientali che occidentali.” (SC 24).
La Bibbia era la grande assente nella vita della Chiesa, e la
liturgia ne soffriva grandemente. La costituzione Dei Verbum se ne occuperà ampiamente, ma fin dalla SC si intuisce
che la reimmissione con forza della Scrittura nella vita della Chiesa sarà uno
dei pilastri della prospettiva di rinnovamento conciliare.
“Affinché risulti
evidente che nella liturgia rito e parola sono intimamente connessi: 1) Nelle
sacre celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante,
più varia e meglio scelta” (SC 35).
“Affinché la mensa
della parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, vengano
aperti più largamente i tesori della Bibbia in modo che, in un determinato
numero di anni, si legga al popolo la maggior parte della sacra Scrittura.” (SC 51)
Sempre a questo proposito viene data importanza all’omelia
riportandola al suo ruolo primitivo: spiegazione della Scrittura ascoltata e
non discorso edificante di contenuto morale: “La predicazione poi attinga anzitutto alle fonti della sacra Scrittura
e della liturgia, poiché essa è l'annunzio delle mirabili opere di Dio nella
storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo, mistero che è in mezzo a
noi sempre presente e operante, soprattutto nelle celebrazioni liturgiche.” (SC
35);
“Si raccomanda vivamente
l'omelia, che è parte dell'azione liturgica. In essa nel corso dell'anno
liturgico vengano presentati i misteri della fede e le norme della vita
cristiana, attingendoli dal testo sacro. Nelle messe della domenica e dei
giorni festivi con partecipazione di popolo non si ometta l'omelia se non per
grave motivo.” (SC
52)
Anche la preghiera dei fedeli ritorna ad essere la risposta
del popolo alla Parola di Dio ascoltata.
Si ristabilisce con forza l’unità della liturgia della Parola
con quella eucaristica. Mentre prima si riteneva, come abbiamo sentito
raccontare dai testimoni, che la prima fosse solo una pia devozione, mentre solamente
la seconda avesse la consistenza del sacramento e l’obbligo del precetto, ora
si mette in chiaro come l’una trae fondamento e consistenza dall’altra essendo
indissolubilmente connesse fra loro: “Le
due parti che costituiscono in certo modo la messa, cioè la liturgia della
parola e la liturgia eucaristica, sono congiunte tra di loro così strettamente
da formare un solo atto di culto. Perciò il sacro Concilio esorta caldamente i
pastori d'anime ad istruire con cura i fedeli nella catechesi, perché
partecipino a tutta la messa, specialmente la domenica e le feste di precetto.”
(SC 56)
Il ruolo decisivo della Parola, fatto emergere fin
dall’inizio da SC, oltre ogni polemica, ha prodotto una nuova familiarità con
la Bibbia ed è stato uno dei fattori fondamentali per il rinnovamento
spirituale, teologico e pastorale della Chiesa.
5. La liturgia, come la Chiesa, è missionaria. La
missionarietà della liturgia non è solo legata al congedo nel finale di ogni
celebrazione, che impegna i fedeli alla testimonianza nel mondo. Vi è un
aspetto missionario assai meno ovvio, che interpreta la missione della Chiesa
in modo nuovo. SC rivolge molta attenzione a che la liturgia “parli la lingua”
delle persone a cui si rivolge. Specifica in tal senso in modo esplicito come
essa debba adattarsi all’indole e alle tradizioni dei vari popoli con quel
processo che si chiama “Inculturazione”:
“La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune
generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità;
rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei
vari popoli. Tutto ciò poi che nel costume dei popoli non è indissolubilmente
legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se
possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella liturgia,
purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico.” (SC37).
Tale processo di estroversione della Chiesa si inserisce nel
clima culturale degli anni ’60, quando i cristiani si trovavano a far fronte ad
un forte impegno missionario verso i popoli non cristiani. Oggi però lo stesso
identico discorso vale per ogni contesto culturale che, in seguito ai processi
di secolarizzazione, diviene sempre più estraneo alla fede. Anche sotto questo
punto di vista il Concilio richiede un impegno più avanzato nel campo della
possibilità di inculturazione della fede, come aveva già previsto Giovanni
XXIII nel discorso d’apertura: “Altra
cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute
nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono
enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata”.[13]
Il rapporto con la cultura e con le culture è talmente
intrinseco al messaggio cristiano che il dialogo non riguarda solo l’attitudine
di porgere il Vangelo, ma implica anche il riconoscere e accogliere il meglio
dell’interlocutore. Si potrebbe parlare qui di nucleo determinante della
riforma conciliare perché avviene il passaggio da un cristianesimo
dell’identità ad un cristianesimo che accetta le differenze e vi scorge un motivo
di arricchimento reciproco.
Il Concilio intende la riforma della Chiesa come dialogo
costruttivo con le culture perché l’Incarnazione è la legge di ogni
evangelizzazione. Rimanere pietrificati su una mediazione storica unica
significa alla fine tradire il Vangelo. È una forma di secolarismo, anche se il
riferimento è a un secolo passato e non a quello contemporaneo. Il quinto
pilastro della riforma, cioè la missione intesa come esposizione dell’identità
della Chiesa alla differenza del mondo per dare e per ricevere, rappresenta
dunque un vero passaggio epocale nella storia della Chiesa.
La riforma liturgica dopo il Concilio
Toccò a Paolo VI promulgare solennemente la Costituzione
dogmatica SC. In quell’occasione egli disse:
“Non è stata senza
frutto l'ardua e intricata discussione su uno dei temi, il primo esaminato ed
il primo, in certo senso, nell'eccellenza intrinseca e nell'importanza per la
vita della chiesa, quello sulla sacra liturgia, ed oggi da noi solennemente
promulgato. Esulta l'animo nostro per questo risultato. Noi vi ravvisiamo
l'ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto, la preghiera
prima nostra obbligazione; la liturgia, prima fonte della vita divina a noi
comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che noi
possiamo fare al popolo cristiano con noi credente e orante, e primo invito al
mondo perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta
l'ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e le
speranze umane per Cristo e nello Spirito Santo”.[14]
Con la promulgazione della SC Paolo VI decise la costituzione
di una Commissione per l’applicazione
della Costituzione sulla santa liturgia[15]
che aveva il compito precipuo di curare l’applicazione concreta delle novità contenute
nel documento conciliare.
Fu modificato il rito della messa, il cui nuovo ordinamento
fu messo in vigore e dichiarato obbligatorio da papa Paolo VI con la
costituzione apostolica "Missale
Romanum" del 3 aprile 1969.
Per favorire una partecipazione cosciente, attiva e semplice
dei fedeli fu, di fatto, abolito l’uso del latino a favore delle lingue
moderne.
I riti sono stati semplificati e ai partecipanti sono stati
attribuiti ruoli distinti (sacerdote, lettore, coro, accoliti, ecc…).
Furono poi eliminati doppioni, recuperati testi pretridentini
e rivisti altri. Il nuovo Missale Romanum
fu pubblicato nel 1970. La riforma della messa poté dirsi conclusa nel 1975
con l’introduzione di due ulteriori preghiere eucaristiche di riconciliazione.
A causa della resistenza di una minoranza la riforma dovette essere imposta con
la massima autorità papale. Nel Messale del 2000, pubblicato nel 2002, sono
stati introdotti tre nuovi canoni per le messe con i bambini e quattro varianti
per messe celebrate in particolari occasioni.
Un mutamento molto visibile – non previsto dal Concilio – fu
la mutata posizione del sacerdote celebrante con il volto verso l’assemblea e
non più spalle al popolo. Tale mutamento ha reso necessari mutamenti
architettonici in quasi tutte le chiese. Vennero infine rimosse le balaustre poste
di fronte all’altare a separare il presbiterio dall’assemblea.
Il nuovo orientamento della liturgia ha comportato anche una
rivalutazione del canto dei fedeli. In vari paesi le conferenze episcopale
hanno elaborato appositi libri contenenti gli inni liturgici proposti.
La concelebrazione è divenuto il modo ordinario, e non più
eccezionale, di celebrare.
La riforma liturgica post-conciliare non ha mancato, fin
dall'inizio, di suscitare incomprensioni in taluni ambienti. D'altronde, un
argomento così vitale per la vita della chiesa, qual è la liturgia, non poteva
non suscitare interesse e clamore, segno tangibile della sua centralità, e ciò
accade ancora oggi.
Si è detto che la riforma è andata molto oltre quanto
previsto dal Concilio. Ciò è vero, se ci si riferisce alla lettera dei
documenti conciliari. In realtà il processo di aggiornamento iniziato dei modi
di celebrare ha portato ad una comprensione più profonda e, soprattutto, all’ingresso
nella vita della Chiesa dello spirito stesso con cui è stata elaborata la SC.
Il processo avviato ha portato con sé la necessità di portare a compimento
quanto la lettera solamente accennava o intuiva, una volta messo il testo a
confronto con la vita delle comunità e con le urgenti necessità pastorali del
tempo presente
[1] Josef Andreas Jungmann, Missarum Solemnia, vol. II, Marietti
1953, Casale M., p. 282.
[2]
Ivi, p. 286.
[3]
In Francia va’ citato il benedettino Dom Prosper Guéranger che nella sua opera
di riformatore del monachesimo occidentale affrontò la questione liturgica
oeprando un ritorno alle origine dell’antica tradizione romana, dopo le
trasformazioni apportate dal protestantesimo e dal giansenismo. In Belgio un
altro benedettino, Dom Lambert Beauduin si pose a capo di un movimento di
riforma che aveva come scopo eliminare lo spirito individualistico per dare
alla liturgia il senso comunitario che le era proprio.
[4] Roberto
De Mattei, Il Concilio Vaticano II, una
storia mai scritta, Lindau, Torino, 2010, pp. 58-59.
[5]
Giampiero Laugero, “Erano così belle le Messe di una volta?”, in La Guida, 7 marzo 2008.
[6] Paolo
Giuntella, L’aratro, l’ipod e le stelle,
diario di viaggio di un laico cristiano, Paoline, 2008, pp. 16-17.
[7]
Il teologo progressista Chenu circa gli schemi preparatori scrive che hanno una
prospettiva “strettamente
intellettualistica”, si limitano a denunciare gli “errori intra-teologici, senza accennare alle drammatiche domande che
gli uomini si pongono, siano essi cristiani o meno, a causa di un mutamento
della condizione umana, esteriore e interiore, quale la storia non ha mai
registrato … il Concilio diventa un’operazione di pulizia intellettuale nelle
mura della scolastica.” Marie-Dominique Chenu, Diari del Vaticano, (a cura di Alberto Melloni), Il Mulino, Bologna
1996, p. 57.
[8]
“Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana
tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle
istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire
all'unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a
chiamare tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di doversi occupare in
modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia.” SC 1.
[9]
“Perché il popolo cristiano ottenga più sicuramente le grazie abbondanti che la
sacra liturgia racchiude, la santa madre Chiesa desidera fare un'accurata
riforma generale della liturgia. Questa infatti consta di una parte immutabile,
perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel
corso dei tempi possono o addirittura devono variare, qualora si siano
introdotti in esse elementi meno rispondenti alla intima natura della liturgia
stessa, oppure queste parti siano diventate non più idonee. In tale riforma
l'ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante
realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo
cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una
celebrazione piena, attiva e comunitaria.” SC 21
[10]
“Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia
celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale
tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale
ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere
delle milizie celesti cantiamo al Signore l'inno di gloria; ricordando con
venerazione i santi, speriamo di aver parte con essi; aspettiamo come Salvatore
il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli comparirà, egli che è la
nostra vita, e noi saremo manifestati con lui nella gloria”. SC 8.
[11] Il tema
del sacerdozio comune dei fedeli poggia su un’ecclesiologia del Popolo di Dio,
qui solo accennata, e sarà oggetto di riflessione approfondita del Concilio più
in la, specialmente, come vedremo meglio, nella costituzione dogmatica sulla
Chiesa Lumen gentium.
[12] SC 57.
[13]
Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia 5.
[14] Paolo
VI, allocuzione Tempus iam advenit
34.
[15] Consilium ad exsequendam Constitutionem de
Sacra Liturgia.
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