“Chiesa di tutti e
particolarmente dei poveri”
La Chiesa popolo di Dio
e famiglia dei discepoli.
La costituzione Lumen gentium
La storia della Lumen gentium
Affrontiamo oggi un altro tema centrale nella riflessione del
Concilio, quello sulla Chiesa. Esso fu oggetto di un lungo dibattito che
cominciò il 2 dicembre 1962. Dall’apertura del Concilio fino a quella data si
era svolto il lavoro che abbiamo già citato per l’elezione dei membri delle
Commissioni conciliari. Esso aveva portato a una larga consultazione dei
vescovi che avevano lavorato all’interno delle Conferenze episcopali e in
riunioni informali, inaugurando quel nuovo spirito e stile di lavoro che dava
grande importanza alla discussione collegiale, alla corresponsabilità, al
protagonismo dei singoli e dei gruppi. Ne abbiamo già fatto cenno nei nostri
incontri precedenti. Anche questi elementi furono alla base del rifiuto
espresso a larga maggioranza per lo schema De
Ecclesia. Si pose anche in questo caso la necessità di elaborare un nuovo
testo come base per la discussione conciliare. Questo venne redatto e inviato
ai vescovi nell’estate 1963, durante la pausa fra la prima e la seconda
sessione del Concilio, e preso in esame all’aprirsi di quest’ultima, dal 4 al
16 ottobre 1963.
Al centro del dibattito vi era soprattutto il tema della
collegialità, cioè del ruolo del collegio dei vescovi, della sua natura ed
autorità, soprattutto in relazione a quella del papa. Infatti una parte dei
vescovi proponeva di attribuire al collegio episcopale (Sinodo, Concilio)
un’autorità pari a quella del papa. Una controversia difficile e intricata che
portò a grandi spaccature e appassionate discussioni, che si risolse in un
compromesso, voluto e operato da Paolo VI, per trovare una formula che
salvaguardasse le sue istanze. Ma accanto a tale argomento, che a dire il vero
oggi ha perso molto della sua centralità nella sensibilità e nel dibattito
attuale, i lavori conciliari produssero un documento ricco e complesso, la Lumen gentium, che ha di fatto
ridisegnato il volto della Chiesa.
La collocazione della Lumen gentium all’interno del disegno
del Concilio
Vorrei a questo punto fare una considerazione generale che mi
sembra importante: ogni testo del Concilio va letto alla luce della totalità
dei documenti, che costituiscono una sinfonia e vanno colti nella loro
complementarità. Il lavoro conciliare infatti ha portato ad una maturazione
della riflessione che si è fatta via via più complessa e ricca e ha ripreso
temi già accennati, cercando di dare al tutto una visione organica che rendesse
conto della estrema complessità di sensibilità e posizioni. Ogni
semplificazione schematica, anche se a volte è necessaria per motivi di
chiarezza, è pertanto da operare con molta cautela, senza assolutizzare un
aspetto piuttosto che un altro.
Il Card. Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI, suggeriva che
il Concilio si prefiggesse di rispondere a due domande: “Chiesa chi sei? Chiesa cosa vuoi essere per il mondo?”, nella
convinzione che la Chiesa quando riflette su se stessa, pensa al mondo. Questa
impostazione metodologica concentra l’attenzione sui due grandi documenti Lumen gentium (auto comprensione della Chiesa
al suo interno) e Gaudium et spes
(auto presentazione della Chiesa nel suo rapporto col mondo esterno), cui fanno
corona gli altri documenti che sviluppavano gli aspetti presenti in quelle
costituzioni (la liturgia, il compito dei Vescovi, dei presbiteri, dei laici,
l’attività missionaria, ecc…).
Ma esiste un altro criterio interpretativo che forse è più
corretto ed organico, e cioè passare da una impostazione che affermava
centralità della Chiesa, alla centralità della Parola di Dio. La Chiesa nasce
dalla Parola di Dio (Dei Verbum), si
forma come una comunione di fede che ha la sua fonte e il suo culmine nella
liturgia (Sacrosanctum concilium), è
essenzialmente comunione, sacramento della presenza di Dio nella storia, popolo
di Dio, corpo di Cristo (Lumen gentium),
il suo scopo è nel servizio al mondo (Gaudium
et spes), è inviata in missione per la salvezza degli uomini (Ad gentes), opera per l’unità dei cristiani (Unitatis Redintegratio); la sua vita si
esprime attraverso i ministeri (Christus
Dominus, Praesbyterorum ordinis, Apostolicam Actuositatem, Perfectae Caritatis),
sviluppando soprattutto alcune attività (Inter
Mirifica, Gravissimum Aeducations) e con uno stile di dialogo e attenzione
alle altre realtà (Oecumenicorum
Ecclesiae, Nostra Aetate), nel rispetto della comune dignità umana (Dignitatis Humanae).
Questo mi sembra l’itinerario concettuale con il quale è
utile considerare la LG all’interno del panorama ampio del Concilio e dei suoi
documenti. Infatti questo tipo di lettura privilegia la priorità della Parola
di Dio e favorisce il primato e la centralità di Cristo e del mistero dell’incarnazione.
Al centro non vi è più la Chiesa come istituzione, come era inteso prima, ma
Cristo, la sua Parola salvifica, il mistero celebrato.
Il testo della LG
La Costituzione
dogmatica sulla Chiesa è strutturata in otto capitoli, secondo il seguente
schema:
cap. 1: Il mistero
della Chiesa (paragrafi 1-8)
cap. 2: Il popolo di
Dio (par. 9-17) cap. 3: La costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare l’episcopato (par. 18-29)
cap. 4: I laici (par. 30-38)
cap. 5: La vocazione universale alla santità nella Chiesa (par. 39-42)
cap. 6: I religiosi (par. 43-47)
cap. 7: L’indole escatologica della Chiesa pellegrina (par. 48-51)
cap. 8: La Beata vergine Maria Madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa (par. 52-69)
Gli otto capitoli potrebbero essere raggruppati in quattro coppie,
che descrivono i diversi aspetti della realtà della Chiesa. La prima coppia (1
e 2) sottolinea la dimensione soprannaturale comunionale, di mistero della Chiesa;
la seconda (3 e 4) descrive la struttura della Chiesa visibile; la terza coppia
(5 e 6) è centrata sulla santità alla quale sono chiamati tutti i credenti; la
quarta ed ultima coppia (7 e 8), infine, afferma la comunione che esiste tra i
credenti sulla terra e coloro che sono già in Dio, tra i quali Maria è la
primizia.
La ricchezza del testo è evidente, ma per non disperdersi in
mille rivoli ci concentreremo su alcuni elementi particolarmente significativi
e che hanno avuto un maggiore influsso sulla vita delle comunità cristiane.
Essi sono: la natura della Chiesa e il rapporto fra dimensione
spirituale e istituzionale;
la sua natura comunionale come
“popolo di Dio”;
il nuovo protagonismo dei laici e il
loro ruolo nella Chiesa;
il rapporto con i cristiani non
cattolici e i credenti non cristiani.
La riflessione
ecclesiologica prima del Concilio Vaticano II
La riflessione teologica sulla Chiesa, o ecclesiologia, nacque e si sviluppò lungo i secoli soprattutto per l’esigenza
di difendersi dagli attacchi che nelle varie epoche venivano portati ad essa, e
di conseguenza aveva i tratti della controversia difensiva e riaffermativa di
alcuni suoi aspetti, piuttosto che quelli di una definizione organica ispirata
alla Scrittura e al pensiero teologico dei padri. Per citarne solo alcuni, i
seguenti sono esempi di questi binomi attacchi-reazioni che si susseguirono,
dal medioevo in poi:
- durante le dispute regaliste[1]
si dovette difendere la libertà della Chiesa dal potere secolare e questo portò
a esaltare la potestà del Papa e dei vescovi;
- nei confronti delle teorie del conciliarismo[2],
l’ecclesiologia concentrò la sua attenzione sul primato e l’autorità assoluta
interna del Papa su tutta la Chiesa;
- nei confronti delle tendenze spiritualiste, come i
movimenti medievali di Wycliff e
Giovanni Hus, si sottolineò l’aspetto visibile e sociale della Chiesa;
- nei confronti della Riforma, che accolse le tendenze
spiritualiste arrivando a negare l’aspetto istituzionale, sacramentale e
gerarchico della Chiesa, l’ecclesiologia cattolica fu indotta a sottolineare
l’istituzionalità della Chiesa e il valore della gerarchia;
- nei confronti del gallicanesimo[3]
e delle varie espressioni dell’episcopalismo[4],
si tornò ad insistere sul potere del Papa all’interno della Chiesa;
- nei confronti dell’assolutismo e del laicismo degli Stati,
la Chiesa rivendica di essere una “societas
perfecta”, degna di stare alla pari con tutte le altre società con un suo
statuto giuridico e statuale;
- infine, nei confronti del razionalismo e del modernismo, si
fissa l’attenzione sull’autorità indiscutibile del magistero ecclesiastico.
Da quanto breve excursus
risulta evidente come l’ecclesiologia si sviluppa, dal Concilio di Trento
(1545-63) al Concilio Vaticano I (1868-70), sotto il segno di una forte
sottolineatura della sua struttura gerarchica verticale di tipo clericale
(vescovi, preti) e dell’autorità assoluta del papa sulla vita della Chiesa.
Tale orientamento affidava agli aspetti giuridici e istituzionali la preminenza
su ogni altro elemento di tipo spirituale o esistenzialmente rilevante per la
vita dei cristiani. I laici hanno uno statuto di “sudditi” sottoposti alla
guida e al potere assoluto della struttura piramidale di cui costituiscono la
base, e ne è un segno il fatto che la loro definizione avviene, fino alla LG,
in forma negativa: i laici sono essenzialmente i “non chierici”.
Nel Vaticano I (1860-70) si affrontò il tema
dell’ecclesiologia. Si riaffermò la nozione di Chiesa come “società perfetta”
gerarchicamente costituita; l’autorità della Chiesa fu fatta coincidere con un
modello sostanzialmente monarchico assolutista avente al vertice il successore
di Pietro, con una struttura fortemente gerarchica e clericale.
Verso gli anni ’20 del XX secolo si assistette ad un
risveglio del pensiero cristiano, sia nel campo teologico, che in quello
liturgico-sacramentale e pastorale. Già abbiamo visto la volta scorsa il
processo di ricomprensione della celebrazione liturgica che dava più importanza
alla dimensione comunitaria e partecipativa del popolo rispetto alla passività
e al formalismo imperante. Analogamente il rafforzarsi degli studi biblici e
patristici facevano riscoprire una dimensione ecclesiale diversa da quella
rigidamente istituzionale-gerarchico-giuridica a quel tempo in vigore.
Questo risveglio rivelò l’insufficienza di una dottrina sulla
Chiesa statica e ferma a categorie istituzionali, sociologiche e giuridiche che
venivano proposte come eterne e intoccabili. Le nuove esperienze e la
riscoperta delle fonti fecero sentire il bisogno di elaborare nuove sintesi e intraprendere nuove
strade. Due sono i concetti-chiave che in questo periodo fanno da perno in
questo ripensamento dell’ecclesiologia.
Il primo è l’idea di Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, che
sostituisce il paradigma di Chiesa come “società perfetta”. Questo concetto
presterà il fianco ad interpretazioni spiritualistiche e misticheggianti, a
danno degli aspetti concreti e comunitari della Chiesa, ma ebbe comunque il
risultato di riportare l’attenzione sulla sua dimensione cristologica e
pneumatologica
L’altro concetto-chiave è quello di comunità, come abbiamo
già visto per la liturgia. Esso è logica conseguenza dell’idea precedente. Se
la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, esso implica la realtà della comunità
come espressione visibile dei legami fra le membra che lo costituiscono,
secondo la classica teologia paolina.
Questi due concetti-chiave facevano emergere due problemi:
quello dell’unità della Chiesa e quello riguardante il rapporto tra Chiesa cattolica
e salvezza. Al primo, è evidente che una concezione di Chiesa come società
visibile istituzionale rispondeva con le categorie giuridiche, perché l’unità
della Chiesa, i criteri di appartenenza ad essa, erano risolti in termini di
appartenenza sociologica e non di adesione spirituale e morale. Con la caduta della
definizione di Chiesa come società giuridicamente ordinata, e la nascita di una
concezione misterica della Chiesa, il problema dell’unità della Chiesa e delle
frontiere stesse della Chiesa si pone in maniera nuova. Il secondo problema
concerneva il fatto che se la Chiesa è una realtà di origine divina l’uomo
giunge alla salvezza solo nella e mediante la Chiesa, come affermava l’antico
assioma “extra Ecclesiam nulla salus”.
La risposta tradizionale dell’appartenenza alla Chiesa “effettiva” e “di
desiderio” (in re e in voto), se risolveva il problema della
possibilità anche per un non cristiano di salvarsi, non dava risposta
all’interrogativo circa la natura del rapporto fra salvezza e Chiesa.
L’enciclica Mystici
Corporis di Pio XII (1943) segnò il superamento definitivo di una pura e
semplice assimilazione della Chiesa ad una società umana. L’identificazione fra
il Corpo mistico di Cristo e la Chiesa cattolica romana portò a risolvere la
dottrina dell’appartenenza a questo corpo: solo i cristiani cattolici sono, di
per sé, membri del corpo della Chiesa e pertanto hanno accesso alla salvezza.
La natura della Chiesa
nella LG, fra dimensione spirituale e istituzionale
Il primo capitolo della LG affronta esplicitamente il tema della
natura della Chiesa, e lo fa superando sia la concezione istituzionale di
società perfetta che quella spiritualista di corpo mistico per affermare invece
una dimensione misterica: si accetta, ovviamente, che la Chiesa abbia la forma
di un’assemblea di persone, socialmente organizzata e strutturata, ma essa è
innanzitutto un sacramento, cioè una realtà soprannaturale. Essa, dunque, non
può essere considerata innanzitutto un’aggregazione umana, poiché la sua natura
non deriva da ideali o scopi umani, ma da Dio stesso.
“La Chiesa è sacramento in Cristo. Cristo è la
luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera
dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15),
illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della
Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia
il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il
genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore
chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la
propria missione universale.” (LG 1)
Il termine latino sacramentum
(che traduce il termine greco misterion
da cui la definizione “dimensione misterica” della Chiesa, che non ha nulla a
che vedere con il significato “misterioso” che ha in italiano) nel linguaggio
biblico esprime un evento di salvezza, presente nel progetto di Dio sin
dall’eternità e rivelato all’uomo nella storia. Più particolarmente, nella
tradizione ecclesiale, è stato inteso come “sacramento” ogni segno visibile che
manifesta la salvezza operata da Dio, la sua “grazia”: Dio è invisibile ma
quando si fa conoscere e si comunica all’uomo utilizza lo stesso linguaggio
umano, abbassandosi al livello delle creature, manifestandosi attraverso realtà
concrete e tangibili che l’uomo può conoscere e comprendere. Ogni sacramento è pertanto
lo strumento di cui Dio si serve per operare nel mondo. La storia della
salvezza è un susseguirsi di modi con i quali Dio si rivela in maniera
“sacramentale”.
Gesù di Nazaret è stato il “segno” e lo “strumento” della
presenza di Dio in mezzo agli uomini. Dopo la sua morte e la sua risurrezione
non è più visibilmente presente fra noi. Il Padre ha inviato sulla Chiesa lo
Spirito che agiva in Gesù, perché oggi essa è chiamata a rendere presente ed
efficace l’azione di salvezza che Dio continua a compiere attraverso il Signore
risorto, nella potenza dello Spirito di Gesù, per mezzo dei cristiani, chiamati
ad essere membra del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. In questo modo essa può a
diritto essere definita un ”sacramento” che, per opera dello Spirito, rende operante
la salvezza di Dio nella storia.
“Per una non debole
analogia la Chiesa è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti come la
natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui
indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa
serve allo Spirito di Cristo” (LG 8).
LG afferma che la Chiesa, come Cristo, è coinvolta nella
duplice dimensione dell’incarnazione: una invisibile, spirituale, poiché essa è
un modo con il quale lo Spirito di Dio agisce; l’altra visibile, terrena,
poiché la sua azione avviene nella storia. Queste due dimensioni, come nella
persona di Cristo, non possono essere separate, per cui non esiste una Chiesa
spirituale diversa o divisa da una Chiesa istituzionale, e la dimensione
visibile ha solo una funzione di strumento a servizio di quella invisibile, ed ha
motivo di esistere solo se si basa su di quest’ultima.
La categoria di “sacramento” utilizzata in LG si rivela
feconda. La Chiesa come “evento misterico” non si identifica colo con le sue
strutture visibili, ma nello stesso tempo la sua dimensione storica di vita
sociale e comunitaria è il segno indispensabile perché si realizzi nell’oggi la
salvezza che Cristo continua ad operare. “L’ecclesiologia
sacramentaria supera così decisamente ogni tentazione di giuridismo e di
sociologismo e allo stesso tempo non permette fuggitive divagazioni nel mistero
dell’invisibile che svuoterebbe di senso la comunità storica e tutte le sue
componenti strutturali”[5].
In tal modo alla Chiesa è stata restituita la collocazione
che le è propria:
l’ecclesiologia precedente aveva favorito una specie di
idolatria della Chiesa, la quale appariva come il termine finale del disegno
salvifico di Dio, giungendo quasi ad una identificazione della Chiesa con il regno
di Dio. Il Vaticano II ha respinto questa identificazione, recuperando una
distinzione fra Chiesa e regno di Dio. Essa ne è l’inizio, il germe storico che
prepara la sua venuta finale, (il “già e non ancora” in tensione escatologica);
l’ecclesiologia precedente aveva identificato Chiesa visibile
e corpo di Cristo, con la conseguenza di leggere la Chiesa come il Cristo
stesso che prolunga la sua incarnazione nella storia. Il Vaticano II, anche qui
senza arrivare ad una opposizione, sfuma questa identificazione: la Chiesa è
concepita come strumento al servizio di Cristo e della sua opera salvifica.
La Chiesa visibile, in conclusione, non è più il centro e il
fine del disegno salvifico di Dio, ma è sacramento, cioè strumento, al servizio
di esso, che è più grande e va oltre la Chiesa visibile, ma che non può
giungere al suo compimento senza di essa.
Essa vive tra il già della Pasqua di Cristo e il non-ancora
della sua Parusia. In un certo senso la Chiesa è l’escatologia già presente e
realizzata, ma nel mistero: la realtà del Regno è già presente nella Chiesa,
ancora in modo imperfetto, ma realmente. Tale dimensione escatologica
conferisce un grande dinamismo alla Chiesa e all’insieme delle sue strutture,
nessuna delle quali può pretendere la definitività e immutabilità: “Ecclesia semper reformanda”.
La natura comunionale
della Chiesa “popolo di Dio”
LG cita una lunga serie di immagini scritturistiche che si
riferiscono alla Chiesa:
“Come già nell'Antico
Testamento la rivelazione del regno viene spesso proposta in figure, così anche
ora l'intima natura della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie,
desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o
anche dalla famiglia e dagli sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri
dei profeti. …ovile … gregge … podere o campo di Dio … tralci … edificio di Dio
… dimora di Dio nello Spirito … tempio santo … Gerusalemme celeste … madre
nostra … sposa dell'Agnello … corpo di Cristo…” (LG 6)
Ma quella che in LG ha la preminenza è l’immagine della Chiesa
come “popolo di Dio”, anch’essa di origine biblica, tanto da divenirne il
titolo del cap. II. LG afferma come nell’Antico Testamento Israele ha il ruolo
di “popolo” che Dio si è scelto e col quale ha realizzato l’alleanza nella
Legge, in opposizione alle “nazioni”, che adorano gli idoli. La Chiesa, sin
dalle origini, si è riconosciuta erede delle promesse che Dio aveva fatto al popolo
d’Israele e ha compreso se stessa come il “nuovo popolo di Dio” (cfr. Gal
6,16), nato dal sacrificio del Cristo, che ha compiuto la nuova ed eterna
alleanza. Affermare che la Chiesa è “popolo di Dio” significa, in primo luogo, ricollegarsi
alle radici ebraiche del Cristianesimo nella storia della salvezza vissuta dal
popolo d’Israele (cfr. Rm 9-11).
In secondo luogo,
l’idea che la Chiesa sia un “popolo” rivela che essa si definisce a partire
dalla comunione: i cristiani non sono individui isolati, che si chiudono nella
loro personale esperienza di fede, per quanto profonda possa essere, né
rappresentano una massa indistinta di persone, in cui la dignità di ciascuno si
perde nell’anonimato: essi sono un popolo, in cui lo Spirito agisce attraverso
ogni persona, per il bene di tutti:
“Dio volle
santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra
loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la
verità e lo servisse nella santità. Scelse quindi per sé il popolo israelita,
stabilì con lui un'alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua
storia se stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però
avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi
in Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per
mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo.”
(LG 9)
Questo popolo, inoltre, è diverso dai popoli che compongono
il mondo: esso non è costituito in virtù di legami politici o sociali, di razza
o di cultura tra coloro che ne fanno parte. E’, invece, il popolo “di Dio“,
stabilito dal Padre, che chiama tutti gli uomini alla salvezza operata dal
Figlio e che, nello Spirito, raduna tutti coloro che tale salvezza hanno
accolto, al punto che, nella Chiesa, come afferma S. Paolo, “non c’è più ebreo o pagano, schiavo o
libero, uomo o donna, perché tutti voi siete una cosa sola in Cristo Gesù”
(Gal 4,28). LG 9 elenca le principali caratteristiche del popolo di Dio:
“Questo popolo messianico
ha per capo Cristo «dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la
nostra giustificazione» (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome
che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per
condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora
lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare
come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il
regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere
ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a
compimento, … Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente
l'universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge,
costituisce tuttavia per tutta l'umanità il germe più forte di unità, di
speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di
carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione
di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è
inviato a tutto il mondo.” (LG9)
Pertanto esso:
· ha un capo, che è il Cristo, il
quale, con la sua morte e risurrezione, ha fondato la Chiesa;
· su di essa Egli regna mediante il suo
Spirito, ora che “siede alla destra del Padre”; Sottolineando che il capo della
Chiesa è Cristo si toglie alla vita ecclesiale ogni strutturazione di tipo
puramente mondano. Tutte le obbedienze all’interno della Chiesa sono da
collocare all’interno dell’obbedienza a Cristo, che è il vero capo della Chiesa.
La stessa autorità nella Chiesa non è concepibile né descrivibile mediante il
ricorso a modelli umani di qualunque natura essi siano (monarchici,
parlamentari, democratici,..);
· ha una condizione, che è la
condizione dei figli di Dio, i quali non sono servi, ma eredi (cfr. Rm
8,14-17);
· ha una legge, che è scritta nel cuore
dei credenti, e li spinge ad amare con l’amore del Cristo. Sottolineando che la
legge di questo popolo è il precetto di amare come Cristo ci ha amato, il
Concilio suggerisce che i rapporti tra i membri della Chiesa devono ispirarsi
non a modelli sociali mondani, sia pure elevati, ma sono da viversi in termini
di risposta all’amore di Cristo verso la Chiesa. La Chiesa non è una società,
ma una comunione.
· Il popolo di Dio, inoltre, non vive
separato dal mondo, ma, anzi, ha un significativo ruolo nella storia; lungi dal
sentirsi estraneo alle vicende terrene, esso è chiamato ad essere presente nel
mondo per servirlo e per testimoniare l’amore di Dio per gli uomini;
· L’azione del popolo di Dio per il
mondo, infine, non si esaurisce nella promozione del progresso morale e civile
degli uomini: essa tende ad instaurare il Regno di Dio tra gli uomini, verso il
quale la Chiesa cammina, come l’antico Israele dell’esodo avanzava verso la
terra promessa.
Da questa sommaria descrizione della Chiesa come popolo di
Dio derivano alcune conseguenze teologiche particolarmente significative.
La prima conseguenza è l’esclusione di ogni forma di
clericalizzazione della Chiesa. La Riforma protestante del sec. XVI aveva
insistito sulla Chiesa come comunità radunata dalla Parola, fino a negare il
ministero ordinato. L’ecclesiologia cattolica vi aveva contrapposto un’immagine
di Chiesa dove l’elemento clericale gerarchico era visto come il principale. E
così si operò una specie di spaccatura nella Chiesa fra una gerarchia, erede
del ruolo di Cristo, e la comunità che le stava di fronte in modo subordinato.
Se la Chiesa è popolo di Dio, essa non è solamente un determinato gruppo o
autorità, ma è sempre l’intero popolo di Dio, composto da membri
fondamentalmente uguali tra loro, come afferma LG 32:
“Non c'è quindi che un
popolo di Dio scelto da lui: «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo»
(Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo,
comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non
c'è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni.
Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe
o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché «non c'è né Giudeo né
Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi
siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11)”.
Questa fondamentale uguaglianza non significa appiattimento
delle diversità né egualitarismo paritario, ma evidenzia il battesimo, comune a
tutti, come l’elemento più significativo e fondamentale di tutte le diversificazioni
gerarchizzanti. La distinzione istituzionale tra gerarchia e laicato non è il
primo aspetto da tener presente circa l’essenza della Chiesa, ma il comune
carattere di battezzati.
La seconda conseguenza da sottolineare è che questo popolo
è di Dio, e di nessun altro. La Chiesa non nasce dalla volontà dell’uomo,
non è riunita dalla volontà dei suoi membri di mettersi insieme, non è riunita sulla
base di affinità psicologiche o culturali, o di condivisione di programmi
politico-sociali o di manifesti ideologici. Il popolo di Dio è riunito da Dio;
nasce e cresce per sua volontà, è convocato dalla sua Parola, non dalle nostre
parole; segue le sua decisione, non le nostre decisioni; è convocato per dare lode
a Dio, non a sé; per essere testimone del suo messaggio, non dei nostri; vive
per servire gli interessi di Dio, non i propri; per tenere alto nella storia
umana il “peso” di Dio, non per servire la propria o altrui potenza.
Una terza conseguenza da mettere in rilievo è l’idea di storicità.
L’espressione “popolo di Dio” rimanda alla peregrinazione del popolo eletto
attraverso il deserto. La LG sottolinea che questo peregrinare caratterizza
costantemente il popolo di Dio anche nel tempo attuale:
“Come già l'Israele
secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio (Dt 23,1
ss.), così il nuovo Israele dell'era presente, che cammina alla ricerca della
città futura e permanente (cfr. Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo
(cfr. Mt 16,18)” (LG
9).
Questa nozione di storicità comprende l’idea di mutabilità, di
verifica costante, di permanente riforma. E’ importante, per l’esatta
comprensione del mistero della Chiesa, osservare che essa, fondata da Cristo in
maniera definitiva in quanto alla sua costituzione fondamentale, è anche
immessa nella storia ed è in continua tensione escatologica verso il Regno. Ciò
significa che essa non può evitare di fare i conti con le dimensioni temporali
e geografiche della vita dell’uomo. Il popolo mette in atto i doni di Dio, ne è
sacramento, non malgrado la storia, bensì proprio grazie alla storia.
L’elemento storico non costituisce qualcosa di estrinseco, né di ostile, né uno
scenario esteriore nel quale si svolgerebbe un’azione celeste. Se Cristo si è
incarnato, significa che l’intera opera di Dio deve prendere forma dentro la
storia e mediante la storia.
Un quarto elemento è il fatto che essere “popolo di Dio”
significa anche essere “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la
nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere
meravigliose” (1 Pt 2,9; cfr. Es 19,5-6; Is 43,20-21). I cristiani quindi partecipano
delle tre funzioni regale, profetica e sacerdotale. Cosa significa
questo? Gesù di Nazaret è stato riconosciuto come il Messia promesso dalle
Scritture (Mc 8,29-30): cioè, in Lui si sono realizzate le promesse di Dio
sull’invio di un personaggio consacrato dallo Spirito perché fosse re, profeta
e sacerdote.
Tali qualità sono state vissute da Gesù in una maniera nuova
rispetto a come Israele se lo aspettava. Egli si è manifestato come un re,
certamente (Mc 15,2 e paralleli), ma ha affermato: “Il mio Regno non è di questo mondo” (Gv 18,36); ha inoltre
dichiarato che “il Figlio dell’uomo non è
venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per
molti” (Mc 10,45 e paralleli), interpretando la sua regalità come servizio.
Gesù è stato un profeta (Mc 8,28 e paralleli; Mt 21,11.46; ecc.), ma egli
era non solo un portavoce di Dio, ma la stessa Parola di Dio che si è fatta
uomo, il Verbo incarnato (Gv 1,14). Gesù, infine, pur non appartenendo alla
classe sacerdotale giudaica, ha vissuto la sua condizione sacerdotale
compiendo l’unico sacrificio efficace per la salvezza del mondo, offrendo se
stesso come l’“Agnello di Dio” (Gv
1,29.36; Ap 5,6, ecc.) e divenendo così il sommo ed unico Sacerdote e Mediatore
tra Dio e gli uomini (cfr. la lettera agli Ebrei). Lo Spirito di Cristo, effuso
sulla Chiesa, la consacra come un popolo regale, profetico e sacerdotale.
Ogni cristiano, che nel battesimo viene segnato con l’unzione
crismale, sigillata con la cresima, diventa membro del corpo di Cristo, che è
la Chiesa, e partecipa alla triplice unzione regale, profetica e sacerdotale di
Cristo. Per questo egli è chiamato a mettersi al servizio del mondo perché sia
costruito e accolto il Regno di Dio nella storia (funzione regale); a
testimoniare con la parola e con la vita l’evangelo di Gesù (funzione
profetica); ad offrire se stesso in comunione con il sacrificio del Signore per
glorificare Dio e per la santificazione, cioè trasformazione, del mondo
(funzione sacerdotale).
Il nuovo protagonismo
dei laici e il loro ruolo nella Chiesa
Il Concilio Vaticano II è stato il primo Concilio che nella
storia della Chiesa ha dedicato una specifica attenzione ai laici. Se ne è
occupato espressamente nel cap. IV della LG, e in un apposito decreto
sull’apostolato dei laici, l’Apostolicam
actuositatem.
Innanzitutto vanno fatte alcune importanti premesse
terminologiche. Nel parlare dei ministeri ordinati il termine “gerarchia” viene
declinato tramite l’universo linguistico della “pastoralità”, spostando il
discorso dal piano giuridico a quello sacramentale e ministeriale, e,
parimenti, nel descrivere la relazione fra ministri ordinati e laici invece di potestas si parla di “diaconia”, cioè servizio
fra diversi ministeri e carismi.
Il termine “laico” deriva dal greco laós, che significa “popolo”, indica, dunque, colui che appartiene
al popolo. Questo termine non compare mai nel Nuovo Testamento; solo a partire
dai primi secoli del Cristianesimo, e soprattutto durante l’età medievale, esso
viene utilizzato dagli autori cristiani per distinguere nella Chiesa quei
membri del popolo di Dio non ordinati né consacrati.
Il vecchio Codice di diritto canonico del 1917, descriveva
semplicemente come “non chierici”, senza definire gli elementi caratterizzanti
la loro funzione. Con il Concilio Vaticano II è esplicitata la nota positiva
che li individua: secondo la LG, i laici si distinguono non tanto, in negativo,
per la mancanza del sacramento dell’Ordine, ma, in positivo, perché essi sono
caratterizzati dal cosiddetto “carattere
secolare” (LG 31), ossia dalla condizione di vivere immersi nelle realtà
del mondo (saeculum, in latino, vuol
dire anche “mondo”):
“i fedeli cioè, che,
dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio
e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e
regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la
missione propria di tutto il popolo cristiano. Il carattere secolare è proprio
e peculiare dei laici.” (LG 31)
La vocazione e la missione di tutto il popolo di Dio è dunque
per tutti quella di trasformare il mondo cercando il Regno di Dio. Per i laici
questo compito si svolge in modo particolare dall’interno stesso delle realtà umane.
Essi realizzano l’unica missione della Chiesa, la salvezza del mondo, in modo
diverso dai membri ordinati e consacrati:
“Per loro vocazione è
proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e
ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i singoli
doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e
sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Lì sono chiamati da Dio a
contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del
mondo” (LG 31).
Dal di dentro delle diverse dimensioni della vita, quella
sociale, politica, familiare, culturale, economica, ecc..., i laici sono
chiamati a realizzare il Regno di Dio come il sale che si perde nel cibo per
dargli sapore, come il lievito che si confonde nella pasta per farla crescere (cfr.
Mt 5,13-14; 13,33), lavorando perché le realtà umane siano orientate dallo
Spirito Santo verso il Regno.
Dopo aver definito le caratteristiche che contraddistinguono
i laici nella Chiesa, il cap. IV della LG descrive la triplice funzione
sacerdotale, profetica e regale che essi sono chiamati ad esercitare per la
salvezza del mondo. Si è già detto che le tre funzioni derivano dallo stesso
ministero di Gesù e che sono radicate nel sacramento del battesimo; esse
riguardano, pertanto, tutti i membri del popolo di Dio, che le attuano in
maniera diversa: gli ordinati e i consacrati in un modo, i laici in un altro.
a) La funzione sacerdotale
I laici dunque partecipano del sommo ed unico sacerdozio di
Cristo, il solo mediatore tra Dio e l’uomo (1Tm 2,5-6). Ma mentre i ministri
ordinati lo esercitano soprattutto nell’offerta a Dio del Corpo di Cristo e nel
presiedere il culto della comunità, i laici presentano a Dio un culto
spirituale, che è rappresentato dall’offerta della loro vita:
“Tutte le loro opere,
le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il
lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello
Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza,
diventano sacrifici spirituali graditi a Dio per Gesù Cristo; e queste cose
nella celebrazione dell’eucaristia sono piissimamente offerte al Padre insieme
all’offerta del corpo del Signore” (LG 34).
L’eucaristia, il centro del culto e della vita cristiana,
vede dunque i laici come soggetti attivi, che insieme al sacerdote, offrono a
Dio sé stessi e il mondo nel quale vivono, perché esso sia trasformato e
santificato dallo Spirito insieme al pane ed al vino. In questo modo anche i
laici contribuiscono a “consacrare il
mondo”, come dice LG, orientandolo verso il Regno.
Alcuni ministeri di fatto concretizzano questa funzione
sacerdotale dei laici: la partecipazione e l’animazione della preghiera,
l’animazione liturgica, ecc…
b) La funzione profetica
Allo stesso modo essi esercitano la funzione profetica che è
propria di tutto il popolo di Dio. Attraverso i laici, infatti, l’annuncio
della fede si diffonde in tutti gli ambiti della vita degli uomini “perché la forza del vangelo risplenda nella
vita quotidiana, familiare e sociale” (LG 35). Questo annuncio deve essere
realizzato nell’annuncio della Parola e nella sua pratica nella vita: la
proclamazione del Vangelo, confermata dalle opere, è profezia efficace rivolta
a tutti.
Alla funzione profetica possono essere correlati alcuni
ministeri di fatto: il ministero della catechesi, l’evangelizzazione
missionaria, la proclamazione liturgica della parola di Dio, le varie attività
pastorali e di annuncio, ecc…
c) La funzione regale
La funzione regale corrisponde all’esigenza di porsi al
servizio del mondo lavorando in ogni campo nel quale sono inseriti per ricondurre
le realtà umane al disegno originario di Dio. Con varie espressioni il Concilio
descrive lo scopo della funzione regale dei laici:
“portino efficacemente
l’opera loro perché i beni creati, secondo l’ordine del Creatore e la luce del
suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla
cultura ..., e siano tra loro più giustamente distribuiti ...; risanino le
istituzioni e le condizioni di vita del mondo .... Così agendo impregneranno di
valore morale la cultura e i lavori dell’uomo” (LG 36).
Anche la funzione regale dei laici nella Chiesa può essere
svolta in maniera diversificata: ad esempio, attraverso le attività nel sociale,
o l’impegno politico e a servizio degli altri, ecc…
Il rapporto con gli
altri cristiani e i non cristiani
Una delle intuizioni fondamentali della Chiesa del Concilio è
stata la consapevolezza di essere essa stessa inserita in un mistero, come
dicevamo, che la comprende ma allo stesso tempo supera i suoi limitati confini
visibili. Da un lato, infatti, si è riconosciuto il valore della presenza della
Spirito anche al di fuori della Chiesa cattolica; dall’altro è stato ribadito
con forza il carattere escatologico della Chiesa, che la proietta in una
dimensione futura.
Prima del Concilio i rapporti con le altre Chiese e comunità
cristiane e con i fedeli di altre religioni erano visti con grande sospetto,
sconsigliati e, spesso, vietati. Un pesante rifiuto colpiva i non cattolici,
pur con sfumature diverse, condannando come “irenismo” e debolezza di fede
l’apprezzamento per i cristiani non cattolici, vista come accettazione dell’errore.
La dottrina affermava che «la Chiesa di
Cristo è la Chiesa cattolica», in tal modo non vi era alcuna possibilità di
dialogo con i non cattolici, se non l’invito a ritornare nella Chiesa cattolica
da cui si erano separati a causa degli errori dottrinali.
A partire dal secolo XIX, e poi nel XX si è notevolmente
sviluppato il movimento ecumenico, che esprimeva tra i cristiani, specialmente
i protestanti, l’esigenza di ristabilire l’unità della Chiesa primitiva che nel
corso della storia si era persa. Il termine ecumenismo,
dalla parola greca oikoumène, cioè mondo
intero, è stato adottato dalle Chiese con valenza di universalità.
All'interno della Chiesa cattolica, almeno fino al Concilio
Vaticano II, si può notare una forte resistenza all’accettazione di questo atteggiamento;
nel 1950 L' Enciclopedia Cattolica
alla voce “ecumenismo” riportava: “è la
teoria più recente escogitata dai... protestanti... per raggiungere l'unione
delle chiese cristiane... Per i cattolici sono precluse le vie dell'ecumenismo
nel senso originario del termine.”
LG è il primo segnale di un mutato atteggiamento della Chiesa
cattolica, che troverà conferma più estesa nel decreto conciliare espressamente
dedicato all’ecumenismo, l’Unitatis
redintegratio (1964). Il Concilio ha anche, per la prima volta, affermato l’impegno
della Chiesa nel dialogo inter-religioso con gli Ebrei, i Musulmani e con le
altre religioni mondiali, nella dichiarazione Nostra aetate (1965).
Nella LG si afferma come il Nuovo Testamento riconosca che la
Chiesa è l’unico strumento attraverso il quale Gesù Cristo continua a salvare
gli uomini: “Chi crederà e sarà
battezzato sarà salvo, chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,16; cfr. Gv
3,15). I Padri della Chiesa ripetevano che “fuori
della Chiesa non c’è salvezza (Extra ecclesiam nulla salus)”. Anche il
Concilio conferma che la comunione con la Chiesa è necessaria per ottenere la
salvezza:
“Questa Chiesa, in
questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa
cattolica (subsistit
in), governata dal successore di Pietro e dai vescovi in
comunione con lui [13],
ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di
santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla
Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica.” (LG 8)
LG usa una formula che ha una certa ambivalenza: “subsistit in”. Essa è interpretabile in
modo opposto: o che la Chiesa di Cristo è
presente nella Chiesa cattolica, ma, di conseguenza, non si esaurisce in
essa; oppure che la Chiesa consiste nella
Chiesa cattolica, quindi esclude ogni altra realtà ecclesiale dall’appartenenza
al corpo di Cristo. La discussione e la disputa è accesa, e ha fautori dell’una
come dell’altro partito, di certo il seguito del testo sembra propendere verso
la prima interpretazione, riconoscendo
che anche fuori della Chiesa cattolica si trovino “parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri
della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” (LG 8). In ogni
caso si tratta di un enorme discostamento dalla condanna senza appello della
dottrina precedente.
Più oltre specifica che tutti gli uomini sono chiamati alla
comunione con la Chiesa, anche se sono concretamente uniti ad essa secondo vari
gradi, in maniera più o meno consapevole (LG 13). I cattolici che accettano la
sua organizzazione gerarchica e vivono l’esperienza dei sacramenti, sono
pienamente incorporati alla Chiesa (LG 14). Ad un secondo grado appartengono i
cristiani non cattolici: essi sono uniti alla Chiesa per molteplici ragioni. Tutti,
infatti, condividono le verità fondamentali del messaggio cristiano, come la
comunione trinitaria, l’incarnazione del Figlio di Dio, l’ascolto delle
Scritture, alcuni sacramenti, come il battesimo e, in molti casi, l’eucaristia
e alcuni altri, vivono una vita nello Spirito, che agisce in loro e attraverso
di loro (LG 15).
Anche coloro che professano una religione non cristiana, come
gli Ebrei e i Musulmani, che credono in un solo Dio e si riconoscono, come i
cristiani, figli di Abramo, o come i fedeli di tutte le religioni mondiali, che
riconoscono una vita soprannaturale, tendono verso la comunione con la Chiesa
(o, come si esprime LG 16, “sono ordinati
al popolo di Dio”). E anche gli atei senza colpa, coloro, cioè, che, per
non averlo conosciuto, negano l’esistenza di Dio, ma che pure agiscono seguendo
anche inconsapevolmente la voce di Dio che parla nella coscienza, non sono
esclusi dal disegno di salvezza che Dio realizza attraverso la Chiesa (LG 16).
Le novità sono insomma straordinarie. Per ricapitolare: la “Chiesa
di Cristo” non è semplicemente la “Chiesa cattolica”, come affermato in
precedenza, ma «sussiste in» essa. È la base teologica per un ecumenismo che apprezzi
gli elementi ecclesiali presenti anche nelle altre comunità cristiane. L'adozione
dell'espressione “subsistit in”,
anziché del precedente “est”», consente di superare quella stretta
identificazione fra Corpo mistico e Chiesa cattolica che si trovava ancora
nella Mystici Corporis di Pio XII.
L'espressione “subsistit in” fu
intenzionalmente sostituita a “est”»,
proprio per permettere il riconoscimento delle caratteristiche ecclesiali di
altre comunità cristiane, salva restando la persistenza indefettibile
dell'unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica (cfr. UR 4). Allo stesso
scopo tende, in maniera più esplicita, l'ulteriore precisazione che parecchi
elementi di santificazione e di verità, pur trovandosi fuori della Chiesa
cattolica visibile, sono doni propri della Chiesa di Cristo, e quindi spingono
verso l'unità cattolica.
Un'altra importante e famosissima affermazione ecumenica si
trova in LG 14: “Sono pienamente (plene)
incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo spirito di
Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essi
istituiti.” L'attuale plene
(pienamente) sostituisce il reapse
(veramente) della Mystici Corporis,
aprendo quindi lo spazio a forme di appartenenza reali ma incomplete, quali
quella dei fratelli di altre confessioni cristiane. Questi principi verranno
ripresi e applicati in LG 15 e in UR.
Si supera lo schema precedente del “ritorno a Roma” unico possibile
itinerario ecumenico precedentemente ammesso daella Chiesa cattolica, per
immaginare un cammino di unione che passi attraverso un processo di progressivo
riavvicinamento nell’amore:
“A questo si aggiunge
la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali; anzi, una certa vera
unione nello Spirito Santo, poiché anche in loro egli opera con la sua virtù
santificante per mezzo di doni e grazie e ha dato ad alcuni la forza di
giungere fino allo spargimento del sangue. Così lo Spirito suscita in tutti i
discepoli di Cristo desiderio e attività, affinché tutti, nel modo da Cristo
stabilito, pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo Pastore. E
per ottenere questo la madre Chiesa non cessa di pregare, sperare e operare,
esortando i figli a purificarsi e rinnovarsi perché l'immagine di Cristo
risplenda più chiara sul volto della Chiesa.” (LG 15)
L’eredità della LG
Come già negli altri incontri, evidenziamo ora l’eredità che
dalla LG giunge fino a noi interpellandoci come figli della Chiesa, membri del
popolo di Dio, ecc…
Il primo elemento è la natura non istituzionale della
chiesa. Spesso nella percezione comune essa è identificata nelle strutture o
nei ruoli istituzionali, e la vita cristiana si riduce a un’appartenenza
formale e burocratica. Cosa vuol dire invece partire da un senso di
appartenenza che si fondi sulla Scrittura e a partire da essa trovi la via di
una conversione personale che ci fa vivere come parte di un “corpo” visibile
che agisce nella storia? L’istituzione protegge, dà un’identità forte,
deresponsabilizza, suggerisce un senso di diritto o quantomeno un conto del
dare-avere, suscita logiche carrieristiche o di ruoli sociali, ecc…
Altrettanto, un’immagine solo spiritualistica della Chiesa la
spoglia della sua dimensione storica e vitale, rinchiudendola nel mondo
dell’intimismo romantico o psicologico, delle scelte ineffabili che non hanno
bisogno di un riscontro nella storia, dell’esaltazione del “sentire” sul
“vivere”, ecc…
Infine esistono forme di clericalismo anche nei laici, oltre
che naturalmente nei preti, che tendono a professionalizzare la fede come un
fatto per specialisti addetti ad essa, lasciando ai “profani” un ruolo passivo
e privo di iniziativa e responsabilità.
Il secondo elemento è la dimensione di popolo di Dio.
Questo elemento mi sembra particolarmente importante in questo nostro tempo
dominato da una concezione individualista dell’uomo che atomizza l’esperienza
umana in un itinerario che non incrocia mai l’altro. Ne abbiamo parlato spesso:
tutta l’esperienza cristiana non è nemmeno concepibile al di fuori della
comunità del fratelli e sorelle e nel rapporto stretto con l’Altro che è Dio.
La liturgia, la missione, la testimonianza, l’impegno, la carità, non è immaginabile
in un itinerario individuale. Questa è forse la sfida più grande che ci
troviamo ad affrontare all’interno della Chiesa, che è pervasa dallo spirito
individuale, e nel confronto con il mondo. La Chiesa è innanzitutto dimensione
collettiva, afferma la rilevanza dell’altro, si esprime nella fraternità, nell’assemblearietà
(dalla parola greca ekklesìa assemblea).
Non si capisce, dicevano i Padri, il rapporto con Dio senza fare esperienza di
un rapporto stabile e profondo con i fratelli: “Non ha Dio per Padre chi non ha la Chiesa come madre”.[6]
Il terzo elemento è il posto dei laici nella Chiesa.
Anche in questo caso, come accennato precedentemente, una mentalità clericale e
antiquata della Chiesa ci spinge a considerarli sempre in seconda linea,
deresponsabilizzati e depotenziati. LG pone di nuovo i “semplici” fedeli nel
loro ruolo di protagonisti della vita di fede non solo personale (intimismo),
non solo responsabili della propri salvezza personale (spiritualismo), non
obbedienti esecutori. Ai laici, o meglio, a tutti i membri del popolo di Dio,
che è per stragrande maggioranza costituito dai laici, è affidata in toto la realizzazione del Regno,
attraverso quella santificazione, cioè quella conformazione della propria vita
e di quella delle realtà in cui vivono alla vita di Cristo e al Vangelo. Porsi
fuori da questa logica ci fa porre fuori della Chiesa i cui confini non sono
quelli dell’istituzione ma innanzitutto della sua realtà spirituale di
sacramento. Se il cristiano non è segno dell’operare di Dio nella storia vuol
dire che rifiuta la sua vocazione e la salvezza di cui la Chiesa è luogo unico:
“Extra Ecclesiam nulla salus” va
pertanto inteso anche, o forse soprattutto, in questo senso. Non per definire
chi non vi è mai entrato, piuttosto chi, pur conoscendone la porta e avendone
sperimentato la realtà, preferisce starsene fuori tranquillo e disimpegnato.
Il quarto elemento riguarda il nostro rapporto con gli
altri cristiani e credenti. Sembra un campo
per specialisti e addetti ai lavori, ma la realtà globalizzata del nostro
contesto sociale ci spinge sempre più ad assumere una responsabilità anche in
questo terreno. Un cristiano in Italia non può più permettersi di ignorare chi
è il fratello ortodosso, o protestante o musulmano o ebreo, o sikh, o induista,
ecc… Questa infatti è una forma di disprezzo che rivela uno scarso senso
ecclesiale, nel senso che non ci interessa essere testimoni credibili della
nostra fede, e che la fede degli altri non ci interroga. Cosa potranno pensare
del cristianesimo i musulmani vedendo come si vive nelle città occidentali? Il
modo con cui accogliamo o rifiutiamo gli stranieri, o li sfruttiamo sul lavoro
negandogli spesso i diritti basilari, parla anche del nostro modo di essere cristiani.
Come essere sacramento di Dio anche per essi? Come far sentire il desiderio di
Gesù che “tutti siano una sola cosa”
(cfr. Gv 17,21-22).
Queste e tante altre sfide mi sembra restino ancora aperte, e
forse lo saranno sempre, e lo Spirito del Concilio le fa giungere fino a noi
perché animino le ossa aride e ridiano vita alla comunità convocata dalla
Parola (cfr. Ez 37) perché incarni in modo autentico la Chiesa corpo di Cristo,
sacramento di salvezza nel mondo.
[1] Con il termine regalismo
si indica in ambito storiografico una o un insieme di dottrine che sostengono
il diritto di un monarca o di una corte ad esercitare autorità giuridica e
teologica sul clero nazionale. Tale sistema di dottrine si contestualizza in Europa generalmente nelle lotte contro l'autorità papale della Chiesa
romana e i privilegi fiscali delle diocesi.
[2] Il conciliarismo è una dottrina che si consolidò nei sec. XIV e XV, ed
ebbe ampia diffusione ma anche importanti effetti nei tempi successivi, secondo
la quale il Concilio ecumenico ha autorità superiore al Papa (Concilio di
Costanza, 1415, quando fu arso al rogo Hus, e che vide l’assenza del Papa,
fuggito per il pericolo di essere catturato). Il decreto Haec Sancta
uscito da Costanza sancisce che nella Chiesa il potere deriva direttamente da
Cristo e che la Chiesa è “l’insieme dei credenti”, contro il concetto
che si era imposto secondo cui la Chiesa si identificava col Papa. Secondo i
conciliaristi la convocazione del Concilio non è esclusiva del pontefice e può
legittimamente deliberare in fatto di dottrina, teologia e materie
politico-sociali, in autorità sopraordinata a quella rivendicata dal Papa e può
persino, all’occorrenza, sottoporre il Pontefice a giudizio, anche di eresia
(come fu chiesto per Bonifacio VIII). Il Dictatus papae di Gregorio VII
del 1075 (la cui lettura mi ha sconvolto, mi si consenta … ), il consolidamento
del potere del Principato pontificio e dei suoi effetti nel periodo avignonese
ed oltre, la centralizzazione e l’esclusiva delle nomine di posti e ruoli sia
ecclesiali che politici nelle mani del Pontefice e con effetti capillari in
Europa, avevano creato un disequilibrio nel quale nessuna delle Istituzioni
esistenti era in grado di fungere da contrappeso.
Si rendeva pertanto necessario, almeno attraverso l’unico
strumento che sembrava legittimato a farlo, il Concilio, riequilibrare e
frenare questa arbitrarietà assoluta e incontrollabile. Tuttavia, nei fatti, a
seguito del Grande Scisma, dell’insofferenza diffusa da parte di Stati,
principati e Signorie, della fiscalità da rapina imposta dalla Chiesa, il
Papato si trovò nella necessità di rispondere in maniera adeguata al
Conciliarismo che avrebbe creato pericolosi precedenti e avrebbe minato un
potere così faticosamente acquisito e rivendicato, per quanto già terribilmente
diminuito. Il Papato rispose a questi attacchi attraverso una capillare e
strategica opera diplomatica, fatta di accordi e compromessi da un lato, e con
la convocazione di Concili che all’apparenza erano “riformatori” e di blande
concessioni (Concilio Lateranense 1512) ma che in sostanza ribadivano che
spetta solo al Papa convocare, trasferire e sciogliere il Concilio. Dopo lunghe
vicende storiche la “chiusa” si ebbe soltanto nel Concilio Vaticano I (1870) in
cui si sancì il dogma dell’infallibilità del Papa.
[3]
Il gallicanesimo è una
dottrina politico religiosa che ha per oggetto l'organizzazione della Chiesa
cattolica in Francia (la Chiesa gallicana) largamente autonoma dal papa. Pur riconoscendo al papa un primato d'onore e di giurisdizione, ne contesta il potere
assoluto, in favore dei consigli generali della Chiesa e dei sovrani nei loro Stati. Il suo opposto è l'ultramontanismo.
In pratica ciò si traduce
soprattutto nel controllo stretto dei sovrani francesi sulle nomine e sulle
decisioni dei vescovi. Quantunque rispettosa del papato, questa dottrina
dispone alcuni limiti al suo potere; in particolare insegna che l'autorità dei
vescovi riuniti in concilio è superiore a quella del papa.
Il maggior rappresentante di
questa corrente fu Jacques Bénigne Bossuet, vescovo di Meaux (XVII secolo), che si occupò della redazione
dei quattro articoli gallicani del 1682 sottoscritti dai vescovi di Francia. Bossuet riprese le decisioni del Concilio di Costanza (1414 - 1418), in cui si affermava che il concilio ecumenico è l'organo supremo in materia di
autorità e insegnamento in seno alla Chiesa.
[4]
L’episcopalismo
è una teoria sorta nel Medioevo sulla costituzione della Chiesa fondata
sull’ufficio del vescovo. Si è manifestato o come teoria conciliare, vale a
dire come rivendicazione del diritto di primato che spetta ai vescovi radunati
in concilio, superiori al pontefice, o come rivendicazione di determinati
diritti originari e ordinari che spettano ai vescovi come tali e che, non
essendo concessi dal papa, non possono essere da lui limitati o abrogati.
[5]
S. Dianich, “Ecclesiologia”, in Dizionario di Teologia Interdisciplinare,
vol. 2, p. 23. La prospettiva sacramentale è quella prevalentemente
adottata dagli ecclesiologi odierni, ed è quella presente, sia pure in modo
molto variegato, nelle opere di teologi come Semmelroth, Rahner, Schillebeeckx,
Ratzinger, Balthasar, Congar, De Lubac.
[6]
Cipriano, L'unità della chiesa cattolica,
III-VI-VII
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