martedì 13 novembre 2012

Preghiera del 14 novembre 2012


 
 
2Cor 11,16-32

 Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri un pazzo. Se no, ritenetemi pure come un pazzo, perché anch'io possa vantarmi un poco. Quello che dico, però, non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto, nella fiducia che ho di potermi vantare. Dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch'io. Infatti voi, che pure siete saggi, sopportate facilmente gli stolti. In realtà sopportate chi vi rende schiavi, chi vi divora, chi vi deruba, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia. Lo dico con vergogna, come se fossimo stati deboli!

Tuttavia, in quello in cui qualcuno osa vantarsi - lo dico da stolto - oso vantarmi anch'io. Sono Ebrei? Anch'io! Sono Israeliti? Anch'io! Sono stirpe di Abramo? Anch'io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte.

Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?

Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco.

 

L’apostolo Paolo scrive ai cristiani della città di Corinto con tutta la forza dell’amore di chi ha fondato quella comunità e ha annunciato ad essa il Vangelo. In queste parole emerge tutto l’orgoglio dell’apostolo per il suo lavoro di evangelizzatore.

Ci possiamo chiedere: non è sbagliato vantarsi come fa Paolo? Non è eccessivo questo rivendicare i propri diritti nei confronti della comunità di Corinto come se fosse in credito davanti a loro?

L’apostolo inizia rivendicando il diritto di vantarsi, e lo chiama “follia”. Sì, perché Paolo non si vanta dei suoi meriti, ma di aver introdotto nella vita di quei fratelli la follia dell’amore di Cristo. Lo dice ad alta voce perché vuole strappare quei cristiani dalla tiepidezza di chi si fa trascinare dal fascino della normalità e accetta abbastanza volentieri la schiavitù dell’accettare di essere come tutti. Egli rivendica invece il privilegio di avere introdotto la follia dell’amore di Cristo, così diverso dal modo normale di comportarsi.

C’è chi si ammanta dei meriti di una vita onesta e virtuosa, giusta e saggia, senza eccessi e senza sbagli. Come è facile sentirsi appagati di potersi vantare di questo! Dice Paolo. Ma lui trova invece il motivo del suo vanto in un amore che va ben oltre tutto ciò. Lo si vede nella fatica con cui l’apostolo ha saputo vivere tutto ciò. Fatica di costruire la comunità, fatica, di provare le sofferenze di chi sta male, di vivere in sintonia on gli altri più che con se stessi. Fatica di farsi quasi violenza nell’uscire dalla gabbia dell’autoreferenzialità per far entrare con forza i fratelli e le sorelle nel proprio orizzonte, anzi farne i protagonisti e oggetto di un amore sbilanciato ed eccessivo. È questa la follia di cui si vanta Paolo, un voler bene che va oltre i limiti ragionevoli, che si carica di quello che non gli spetta, che va oltre il dovuto. Eppure è questo l’unica cosa che dà senso alla vita, la rende piena e vera.

Sì Paolo ha capito che la vera felicità è spogliarsi di sé, cioè delle proprie convinzioni e abitudini, dei giudizi scontati e delle reazioni spontanee, per potersi rivestire della vita che Cristo dona: “Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza.”

Impariamo anche noi a vantarci non del nostro essere convinti e forti, sicuri di noi e intransigenti, ma del nostro essere vulnerabili e fragili, del lasciarci colpire e ferire dall’altro, del provare sempre il bisogno di una forza non nostra e di una protezione che da soli non ci sappiamo dare. Solo così, fratelli e sorelle, potremo con Paolo anche noi, nella nostra umile vita, sentirci orgogliosi non di quello che abbiamo saputo fare e costruire, di quanto abbiamo capito e saputo, ma di quanto ci siamo fatti da parte per dare tutto lo spazio a Dio e al suo mite e umile farsi tutto a tutti.

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