martedì 8 gennaio 2013

Preghiera del 9 gennaio 2013


Lc 9,10-17


Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora li prese con sé e si ritirò in disparte, verso una città chiamata Betsàida. Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.

Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: "Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta". Gesù disse loro: "Voi stessi date loro da mangiare". Ma essi risposero: "Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente". C'erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: "Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa". Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Commento

Cari fratelli e care sorelle, abbiamo ascoltato un brano del Vangelo che ci è molto noto. Esso parla del miracolo che Gesù fece moltiplicando pane e pesce per la folla affamata. Il fatto che ci è noto però, come purtroppo capita spesso con la Scrittura, non ci aiuta ad andare in profondità nella comprensione di queste parole evangeliche. È infatti facile subire la tentazione, in questo come in altri casi, di ritenere scontato e  già noto quanto il Vangelo vuole dirci. Ma esso, dimentichiamo, è parola di Dio, e in quanto tale non è un testo letterario  che appartiene al passato, ma qualcosa di vivo, che vive con noi e interpreta la nostra vita mentre essa si svolge. È quello che dice il papa Gregorio Magno: “La Bibbia cresce assieme a chi la legge”.

In questo senso mi sembra particolarmente significativo leggere questo brano a pochi giorni di distanza dalla celebrazione della grande festa di Natale con i poveri che ci ha visti partecipi, in modi diversi, qui in una chiesa inconsuetamente imbandita a festa.

Il miracolo di Gesù infatti nasce dalla compassione per la folla desiderosa di ascoltarlo al punto da trascurare persino la preoccupazione per sé di mangiare e riposare. Il bisogno di ascoltare di quella gente è davvero grande! Non si parla nel Vangelo di richieste di guarigioni, come in altre pagine evangeliche, o di altre domande concrete. La folla ha desiderio di sentire da Gesù l’annuncio della buona notizia per il quale egli è nato fra di noi. Così, allo stesso modo, le tante persone venute giovedì scorso erano desiderose di ricevere un invito, di essere desiderati e considerati in un tempo, quello delle festività natalizie, nel quale paradossalmente chi è fuori dai normali circuiti sociali sente ancora più forte l’esclusione e la mancanza di un ambiente familiare che li accolga.

A questa piccola folla che abbiamo incontrato noi abbiamo riferito la buona notizia di un invito non nostro, ma di Gesù a farsi adottare come figli da Dio. Sì, le folle dei poveri sono come folle di orfani in cerca di adozione, di qualcuno che li chiami per nome, che ricordi il loro volto, che  gli voglia bene come figli, e noi siamo chiamati a riferire loro la buona notizia che c’è un Dio così desideroso di adottarli da nascere e farsi piccolo come un bambino, pur di stare loro accanto. È il Vangelo del Natale che diviene carne e vita vissuta e raggiunge gli umili e i poveri prima di tutti, come avvenne con i pastori nella notte di Betlemme.

Ma non solo questa festa rivela il gran bisogno dei poveri di un invito e un annuncio gioioso, ma, in qualche modo, mette a nudo anche un nostro bisogno. Sì, perché di quegli stessi pani e pesci moltiplicati si nutrirono anche i discepoli. Cinque pani e due pesci non sono grande cosa per saziare nemmeno i soli discepoli, e anche loro furono beneficati dello stesso miracolo e della stessa misericordia compassionevole di Gesù. Anche noi siamo stati nutriti alla mensa del servizio, che ci ha restituito la dignità di una umanità che, come dicevamo domenica scorsa riferendoci ai magi, rivela tutta la sua preziosità e bellezza solo quando si china il ginocchio e il capo in atteggiamento dell’umile servo. Sì, la festa con i poveri ci ha resi partecipi della stessa gioia e ha ridato anche a noi la dignità che spesso nella vita quotidiana risulta appannata e come messa da parte, e cioè quella di far parte della famiglia dei figli adottivi di Dio.

Troppo facilmente infatti noi cerchiamo di recidere questo legame che ci unisce a Dio, rivendicando autonomia e autosufficienza. Il vestito del figlio adottivo ci sta stretto, preferiamo quello del figlio cresciuto che guarda con un po’ di superiorità, se non commiserazione, un padre invecchiato e ormai privo di autorità su di noi.  

Fratelli e sorelle, non dimentichiamo quello che abbiamo vissuto in quell’occasione privilegiata, non facciamoci rirendere dalla consueta routine della normalità quotidiana. Ricordiamo la gioia di essere stati servi e portavoce dell’invito di Dio a far parte della sua famiglia. È l’invito che riceviamo ogni domenica, seduti alla mensa dell’eucarestia sulla quale il Signore Gesù ci offre tutto se stesso perché noi impariamo a fare lo stesso. Da quella mensa impariamo il valore e la bellezza di essere servi umili dei poveri e familiari di Dio, la dignità più alta a cui un uomo possa aspirare.  

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