mercoledì 19 dicembre 2012

V incontro sul Concilio - La Chiesa e il mondo - 19 dicembre 2012


 



“Nulla vi è di genuinamente umano
che non trovi eco nel cuore dei discepoli di Cristo”
La Chiesa e il mondo contemporaneo, simpatia e partecipazione.
La costituzione Gaudium et spes

 

Il carattere “pastorale” della Gaudium et spes

Il 7 dicembre 1965 il Concilio Vaticano II approvò la costituzione GS concludendo così i lavori necessari alla sua elaborazione durati più di tre anni.

Centouno anni e un giorno prima Pio IX aveva promulgato l’enciclica Quanta Cura, in cui la Chiesa si poneva di fronte al mondo attraverso il Sillabo, cioè l’elenco che conteneva i principali errori del tempo e la relativa condanna. La prospettiva di quell’enciclica di Pio IX rivelava le ansie e i timori della Chiesa di fronte a quel tempo poco decifrabile e giudicato in rottura con la Chiesa. L’atteggiamento di fondo era quello di evidenziare e condannare quello che andava male.

Nella GS, invece, non mancano certo gli accenni ad una preoccupazione per il distacco tra i contenuti evangelici e la cultura contemporanea, ma la Chiesa non vuole più giudicare dall’alto della dottrina l’umanità che ha di fronte, ma piuttosto vuole comprenderla dal suo interno, ponendosi dentro la storia dell’umanità, non ignorando le luci e le ombre, il positivo e il negativo, ma standole a fianco dentro il cammino della storia, proprio come ha fatto Dio mandando Gesù a condividere la condizione umana.

Tra tutti i documenti prodotti dal Concilio Vaticano II, la Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo si distingue.

La sua straordinarietà è data anzitutto dal genere: tra gli innumerevoli documenti prodotti in duemila anni di cristianesimo mai un Concilio aveva promulgato una costituzione pastorale. Sembra quasi una contraddizione di termini, di certo era una totale novità, tanto che i padri conciliari dovettero introdurre un’approfondita spiegazione che chiarisse il genere dello scritto e il suo carattere vincolante. La costituzione, infatti, non espone soltanto principi fondamentali di fede, ma si esprime in merito a questioni concrete del mondo contemporaneo, esamina i cosiddetti “segni dei tempi”, parla della scienza e della cultura, del matrimonio e della famiglia, dell’ordine sociale, del lavoro, dell’economia, della pace e della guerra, evocando persino quella nucleare: in poche parole parla dell’uomo e del suo mondo, all’uomo.

Con l’aggettivo “pastorale” si intende quindi la traduzione e l’attuazione della fede nella vita vissuta concreta, termine che non va inteso in contrapposizione con “dottrinale”. Piuttosto, l’atteggiamento pastorale presuppone un fondamento dottrinale. La pastorale non può né vuole sostituirsi alla dottrina o aggirarla; essa vuole impiegarla nelle situazioni concrete ed in esse valorizzarla.

Ecco perché, ulteriore novità, con questo documento, il Concilio non si rivolge soltanto ai propri fedeli, ma a tutta la famiglia umana. Infatti nel titolo non si legge “messaggio della Chiesa al mondo contemporaneo”, ma “la Chiesa nel mondo contemporaneo”. La Chiesa non si pone davanti al mondo come Mater et Magistra, titolo di una precedente enciclica di Giovanni XXIII,[1] ma pensa a se stessa come una realtà facente parte del mondo, solidale con esso. Un atteggiamento che, come vedremo, è totalmente nuovo, che si fonda sulla realtà dell’Incarnazione di Cristo e si coniuga secondo un modello dialogico, cioè basato sul dialogo paritario di realtà diverse ma non opposte né estranee. Un modo totalmente nuovo di essere Chiesa, non previsto all’inizio dei lavori.

La redazione della GS

La costituzione pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo è, molto probabilmente, il documento di più articolata elaborazione in tutta la storia del Concilio Vaticano II: c’è chi conta fino a dodici stesure. È un testo che porta i segni di un lavoro faticoso e lungo, segnato da numerose difficoltà: la fatica per l’individuazione dell’oggetto di studio, la scelta del metodo di indagine, l’individuazione dei destinatari a cui rivolgersi, fecero sì che il documento fosse l’ultimo ad essere approvato dall’assemblea conciliare.

Quando il 20 ottobre 1964 lo schema preparatorio fu presentato alla prima discussione in aula, la sua storia era già lunga e travagliata.

Fin dall’apertura del Concilio era forte l’esigenza di riflettere sui rapporti della Chiesa con il mondo. I Cardinali Suenens e Montini avevano espresso il desiderio di una trattazione del tema della Chiesa ad extra, cioè nel suo rapporto con il mondo.  L’Assemblea stessa era stata pensata e voluta da Papa Giovanni XXIII come tentativo di ripensare nuovi modi per trasmettere la fede in un mondo cambiato e ormai secolarizzato, che poneva sempre più la religione tra le esperienze secondarie della vita, come espresse nel suo discorso di apertura: non si trattava di fissare dogmi, disse papa Roncalli, ma di dire all’uomo, trasformato dagli eventi dell’era moderna, che il Cristo, con la sua Buona Novella, restava sempre l’unica fonte di verità e di salvezza.

Nonostante questo forte interesse, il rifiuto degli schemi della fase preparatoria, e il lavoro richiesto per la preparazione delle prime due Costituzioni non permise di giungere ad un  testo definitivo durante la prima sessione conciliare.

Nel gennaio 1963, dopo la conclusione della prima sessione, monsignor Hengsbach presentò formalmente la richiesta alla Commissione per l’apostolato dei laici affinché il Concilio si interessasse dei problemi sociali. La Commissione, presieduta dal cardinale F. Cento, trasmise tale richiesta alla Commissione centrale che l’accolse. Ma se la necessità di un dialogo della Chiesa con il mondo era fortemente sentita, non era altrettanto chiaro come attuarlo, quali dovevano essere i principi essenziali, quale linguaggio, quale struttura dare al documento. Ecco perché si decise di assegnare il compito per la redazione di uno schema a una Commissione mista: alla Commissione Teologica originariamente incaricata e presieduta dal cardinale Ottaviani, furono affiancati alcuni membri della Commissione per l’apostolato dei laici.

Il primo schema pre-conciliare, a tutti noto come Schema XVII, si titolava: De praesentia Ecclesiae et activa in mundo hodierno. Era composto da un’introduzione e sei capitoli: De admirabili vocatione hominis; De persona humana in societate; De matrimonio et familia; De culturae progressu rite promuovendo; De ordine economico at de iustitia sociali; De comunitate gentium et pace. Il lavoro di redazione terminò nel maggio 1963 ma, quando fu presentato alla Commissione Centrale, nel successivo luglio, non fu accettato perché ritenuto insufficiente, soprattutto nel capitolo riguardante la vocazione dell’uomo.

Intanto il 3 giugno del 1963, papa Giovanni morì. Il cardinal Montini, eletto papa col nome di Paolo VI il 21 dello stesso mese, fin dal giorno successivo alla sua elezione manifestò l’intenzione di far proseguire il Concilio. Nel discorso di apertura della seconda sessione conciliare tra i quattro punti programmatici pose proprio il tema del dialogo Chiesa-mondo.

Ci fu un tentativo di apportare alcune modifiche allo schema XVII e il 4 luglio 1963 venne presentato un lavoro dal titolo: De praesentia efficaci Ecclesiae in mundo hodierno. Il testo, ancora una volta, fu respinto. Fu dato incarico al presidente della commissione centrale, Suenens, di preparare un nuovo testo. Il cardinale diede vita al gruppo di Malines formato dai teologi di Lovanio a cui si aggregarono altri studiosi.

Il nuovo schema, redatto nel settembre 1963, De activa praesentia Ecclesiae in mundo aedificando, fu organizzato in due sezioni: la prima dal titolo La missione propria della Chiesa, era indirizzata ai cristiani, la seconda, formata da due parti: Il mondo da edificare e I compiti della Chiesa nei confronti del mondo, era rivolta a tutti gli uomini. Ma anche questa bozza non piacque: rivelava, a differenza del primo, un carattere marcatamente dogmatico. In realtà il problema, percepito sin dall’inizio, ma rimasto silenzioso fino ad ora, veniva fuori impetuosamente: come si doveva procedere per elaborare una riflessione della Chiesa sul mondo?

Si aprì quindi il dibattito tra le due tendenze opposte: da una parte coloro che sostenevano che i problemi sociali dovevano essere affrontati con metodo teologico e a partire dai dati della Rivelazione, dall’altra la posizione di chi affermava che ogni riflessione della Chiesa sul mondo, dovesse partire da esso, dalla realtà e parlare agli uomini in un linguaggio moderno e comprensibile. Metodo deduttivo il primo, induttivo il secondo. Per risolvere il problema e superare tale contrasto, fu costituita una Sottocommissione Centrale mista incaricata di redigere un ulteriore schema, ormai indicato come Schema XIII.

La sottocommissione, presieduta dal cardinale Guano, optò per uno schema formato da un esteso capitolo dottrinale a cui si aggiunsero una serie di appendici riguardanti le problematiche mondane.

Riassumendo, il lavoro dei vari gruppi prima della presentazione conciliare aveva prodotto tre differenti schemi: il primo redatto dalla Commissione mista che sembrava prediligere una prospettiva più sociologica, il secondo redatto dal gruppo di Malines, che preferiva una prospettiva più dogmatica, infine un terzo schema che ritornava, almeno inizialmente, ad un carattere più sociologico. Le due tendenze furono vive e manifeste durante tutto il percorso redazionale del documento. In verità ancora oggi, nel testo definitivo a nostra disposizione, è possibile individuarle ad una lettura approfondita.

Siamo finalmente ad una svolta: il dibattito, seppure a volte polemico, aveva portato a precisare la prospettiva con la quale riflettere sul rapporto Chiesa-mondo. Non una semplice relazione, ma una partecipazione della Chiesa, secondo la logica dell’incarnazione, ai problemi del mondo contemporaneo. Purtroppo ci fu una grande disattenzione: questa fondamentale indicazione di monsignor Guano, benché accompagnasse il testo, era stata scritta dopo il testo stesso. Risultato fu una netta discrasia tra la Relatio ed il Textus.

Il 21 ottobre 1964, il “Testo di Zurigo” fu presentato per la prima volta in aula conciliare con il titolo: De ecclesia in mundo huius temporis. Nell’intenzione della Commissione di coordinamento il testo doveva servire come base per la discussione dei padri, durante i lavori conciliari. Lo schema risultava formato da quattro capitoli di contenuto dogmatico che trattavano della vocazione dell’uomo, della posizione della Chiesa in relazione al mondo, del compito del cristiano. A questa prima parte si aggiungevano gli allegati che trattavano della persona nella società, del matrimonio, della cultura, della vita economica, della comunità internazionale, della pace.

In aula conciliare si notò subito la discordanza tra le linee guida proferite da monsignor Guano e il testo. Naturalmente anche la struttura e il metodo riflettevano le incertezze dei contenuti. Quando la discussione iniziò, i padri dovevano esprimere le loro opinioni su un testo la cui struttura si presentava fortemente disarticolata data dalla scelta di confinare le problematiche mondane solo a degli allegati. Infine tutte quelle incertezze rendevano difficile l’individuazione dei destinatari. Ci furono 170 interventi orali e 200 scritti: il testo non fu approvato per la mancanza di unità e per le numerose ripetizioni.

Alla luce di questi fatti, approfittando dell’interruzione dei lavori conciliari, si pensò di elaborare un nuovo progetto. Nel novembre 1964, la Sottocommissione plenaria mista si riunì per riordinare il lavoro. Il “Testo di Zurigo”, seppur non accettato dai padri conciliari, fu riconosciuto come base da cui partire. Occorreva però rielaborare nuovamente il testo secondo le direttive scaturite dall’assemblea. Si decise di dare il compito ad un redattore unico, P. Haubtmann, coordinato da B. Häring e dai presidenti delle due Commissioni.

A gennaio 1965, nel primo incontro tenutosi ad Ariccia, i partecipanti trovarono un nuovo testo: era formato da una prima parte composta da tre capitoli e da una seconda parte formata dal vecchio quarto capitolo più gli allegati. Avevano finalmente maturato l’idea che, per una corretta impostazione dell’argomento, le appendici non potevano essere secondarie ma parti integranti del testo stesso. Da tale acquisizione si lasciava definitivamente il metodo tradizionale abituale, cioè enunciare principi che in seconda istanza si applicavano alle realtà umane, per assumere un metodo che privilegiava il primato dell’analisi delle realtà mondane che successivamente si rileggevano alla luce della Rivelazione.

Dopo molto lavoro si giunse così allo schema definitivo: una introduzione, una prima parte a carattere dottrinale formata da quattro capitoli, una seconda parte a carattere sociale formata da cinque capitoli. Avevano sperato in un prolungarsi dei lavori conciliari per risolvere le varie incongruenze, ma le disposizioni generali furono altre: la sessione conciliare del ‘65 sarebbe stata l’ultima.

Il lavoro venne così presentato in aula conciliare il 21 settembre 1965: il testo corretto risultava più unitario ed elaborato. La principale caratteristica che, più che una novità, costituì una precisazione, fu la qualifica di costituzione Pastorale data allo schema, che manteneva il titolo La Chiesa nel mondo contemporaneo con cui era ormai noto già da due anni.

Una novità è invece l’estensione dell’orizzonte dei destinatari: “[Il Concilio Vaticano II] senza esitazione rivolge ora la parola non soltanto ai figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma anche a tutti quanti gli uomini.” (GS 2)

Ancora una volta sorsero difficoltà: vi furono ben 574 interventi di disapprovazione. Le critiche riguardavano il titolo, la forma letteraria, la poca chiarezza dei contenuti. La discussione si fissò su alcuni punti particolari: l’ateismo, il matrimonio, la pace e la guerra. Dopo la discussione conciliare tutti gli interventi furono analizzati da dieci sottocommissioni che redissero un testo presentato in aula il 13 novembre 1965. I nuovi esposti furono addirittura ventimila. Il testo fu riscritto totalmente e poi di nuovo modificato in centinaia dei suoi punti e, tutto ciò in due mesi.

La proclamazione ufficiale avvenne il 4 dicembre 1965. Tre giorni dopo si chiudeva il Concilio Vaticano II.

Struttura e contenuti della GS

La costituzione pastorale consta di due parti, ma è un tutto unitario. Viene detta pastorale appunto perché, sulla base di principi dottrinali, intende esporre l'atteggiamento della Chiesa in rapporto al mondo e agli uomini d'oggi. Pertanto, né alla prima parte, più dottrinaria, manca l'intenzione pastorale, né alla seconda, prevalentemente pastorale, l'intenzione dottrinale.

Nella prima parte, si espone la visione dell'uomo, del mondo nel quale egli si inserisce, e dei suoi rapporti con tali realtà. Nella seconda, si prendono più strettamente in considerazione i vari aspetti della vita e della società umana, le questioni e i problemi che sembravano allora più urgenti. In questa seconda parte, la materia esaminata non è costituita da elementi immutabili, ma affronta tematiche storiche contingenti. Perciò la costituzione dovrà essere letta tenendo conto, specie nella seconda parte, delle circostanze mutevoli cui sono per loro natura connesse le materie trattate.

Proemio (n. 1-3) - Tra la Chiesa e il genere umano vi è intima unione. Il Concilio si rivolge a tutti gli uomini: è a servizio dell'uomo.

Introduzione (n. 4-10) - La condizione dell'uomo nel mondo contemporaneo (speranze e angosce, profonde trasformazioni delle condizioni di vita, mutamenti nell’ordine sociale, mutamenti psicologici, morali e religiosi, squilibri per questi cambiamenti, aspirazioni a una vita piena, interrogativi profondi del genere umano).

Parte I (n. 11-45) La Chiesa e la vocazione dell'uomo.

Si compone di quattro capitoli che delineano l’antropologia cristiana, la dottrina sociale, il lavoro, la missione della Chiesa in questo mondo contemporaneo.

Cap. 1 (n. 12-22) - La dignità della persona umana (l’uomo ad immagine di Dio, il peccato, la costituzione dell’uomo, dignità e coscienza morale, il mistero della morte, le sfide dell’ateismo, in Cristo l’uomo nuovo).

Cap. 2 (n. 23-32) - La comunità degli uomini (le caratteristiche del genere umano: l’indole comunitaria, l’interdipendenza, promuovere il bene comune, rispetto della persona, rispetto e amore per gli avversari, uguaglianza di tutti gli uomini e giustizia sociale, superare l’etica individualistica, responsabilità e partecipazione, verbo incarnato e solidarietà umana).

Cap. 3 (n. 33-39) - L’attività umana (lavoro) nell’universo (valore e norme dell’attività umana, autonomia delle realtà terrene, peccato e perfezione nel mistero pasquale, terra nuova e cielo nuovo).

Cap. 4 (n. 40-45) - La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo (mutua relazione tra Chiesa e mondo, Chiesa a servizio degli uomini, della società e dell’attività umana, l’aiuto che la Chiesa riceve dal mondo, Cristo l’alfa e l’omega).

Parte II (n. 46-90) Alcuni problemi umani più urgenti.

Cap. 1 (n. 47-52) - Dignità del matrimonio e della famiglia e sua valorizzazione (matrimonio e famiglia nel mondo d’oggi, la sua santità, amore coniugale e fecondità, rispetto della vita, impegno per il bene del matrimonio e della famiglia).

Cap. 2 (n. 53-62) - Promozione della cultura (natura e cultura, situazione della cultura nel mondo contemporaneo, stili di vita, difficoltà e compiti, principi per la promozione della cultura, fede e cultura, molteplici rapporti tra fede e cultura, diritto ed educazione alla propria cultura, cultura umana ed insegnamento cristiano)

Cap. 3 (n. 63-72) - Vita economico-sociale  (aspetti contemporanei della vita economica, lo sviluppo economico sotto il controllo dell’uomo, le disparità economiche da far scomparire, lavoro e tempo libero, impresa e conflitti di lavoro, i beni sono per tutti gli uomini, attività economica e regno di Cristo).

Cap. 4 (n. 73-76) - La vita della comunità politica (natura e fine della comunità politica, collaborazione di tutti alla vita pubblica, la politica e la Chiesa).

Cap. 5 (n. 77-90) - La promozione della pace e la comunità delle nazioni (natura della pace, la corsa agli armamenti, la condanna della guerra, pace e giustizia, cooperazione internazionale, il compito dei cristiani e della Chiesa).

Conclusione (n. 91-93) - Compiti dei singoli fedeli e delle Chiese particolari. Un mondo da costruire e da condurre al suo fine.

Il contesto storico da cui nasce GS

Come abbiamo visto tutti i documenti del Concilio traggono ispirazione dalle sollecitazioni provenienti dal contesto storico su alcune tematiche. Il contesto di riferimento della GS va identificato nell’evoluzione socio-politica dei due decenni cinquanta e sessanta del Novecento. Le vicende che caratterizzano questo arco di tempo sono principalmente determinati da un forte processo di sviluppo materiale in Europa, negli Stati Uniti, nella Russia sovietica, nella Cina comunista, nell’America latina, la decolonizzazione in Asia e Africa, la guerra fredda.

Le conseguenze della crescita economica portarono al formarsi della cosiddetta società dell’abbondanza e del consumismo, con un conseguente accentuarsi delle disuguaglianze sociali e, sul piano delle relazioni internazionali, lo svilupparsi di minacce di guerra (ad es. Cuba), di guerre realmente combattute (ad es. Vietnam) e di processi alterni di distensione tra le grandi potenze del mondo (Cina-USA-URSS). Era la fine del “lungo dopoguerra” cui sarebbe subentrata la svolta degli anni settanta, con le sue crisi economiche e sociali (ad es. il movimento studentesco del ’68, la nascita dei terrorismi, la crisi petrolifera e l’austerity), e le riprese che faranno svanire l’illusione di un progresso continuo e inarrestabile, ma anzi porteranno alla ribalta i punti di debolezza di alcuni sistemi politici.

Tuttavia nei due decenni in considerazione era diffuso un certo ottimismo sull’evoluzione del mondo, nel segno della distensione tra i blocchi ideologici, dello sviluppo economico, del rafforzamento della democrazia dopo la II guerra mondiale, del progresso tecnologico (l’uomo in orbita).

Ecco perché nella GS possono essere ribaditi, con la forza che le viene da una visione storica fondamentalmente ottimistica, alcuni principi come quello della dimensione sociale dell’uomo, del valore della coscienza e della libertà individuali, della stretta connessione tra crescita della persona e sviluppo della società. Sempre per questo poterono essere presi in considerazione con occhio positivo i problemi di fondo che si erano aperti in quella fase storica: quelli relativi al matrimonio e alla famiglia, al progresso della cultura, alla vita della comunità politica, alla promozione della pace e della condanna della guerra. Senza però sottovalutare l’esistenza di situazioni di arretratezza: l’alienazione nel lavoro che genera insoddisfazione e ribellione, la crescita economica lasciata all’arbitrio di pochi, il ricorso alla guerra per dirimere contrasti di varia natura, problemi di cui i padri conciliari sono consapevoli e portavoce, provenendo dalle realtà più varie della terra.

In conclusione, sulla base del presupposto - esplicitamente richiamato nella GS - che il mondo stesse vivendo una fase di sviluppo e che quindi si stesse aprendo a prospettive positive, la missione della Chiesa poteva essere individuata nel cogliere le opportunità che tutto ciò offriva per evitare una chiusura a riccio nella condanna ed assumere il ruolo di colei che sa dare risposta ai quesiti fondamentali sul significato della vita e della storia dell’uomo.

I temi emergenti

1.      La condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo

La costituzione pastorale GS ha dunque affrontato lo spinosissimo tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo. Tema non del tutto nuovo, come abbiamo già detto in apertura, ma affrontato con una visione nuova. Dietro l’incoraggiamento ricevuto dalle scelte di Giovanni XXIII, per la prima volta, la Chiesa riunita in Concilio compie un tentativo di rileggere le trasformazioni e il volto del mondo moderno accettando, essa stessa, la prospettiva di farsi moderna. Si accorge così, con grande fatica e grande lavorio, che gli strumenti finora utilizzati non erano adeguati, ma che aveva bisogno di nuove analisi e di nuovi criteri di comprensione e valutazione.

Così, proprio il primo capoverso rivoluzionò la lettura teologica e religiosa tradizionale del mondo, dando conto di una grande attesa e dei molti rivolgimenti nella storia degli ultimi anni: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore… Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS 1).

Per prima cosa la GS prende in considerazione la condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo. Il centro della ricerca è “l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione” (GS 3) nella prospettiva di offrire “all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare la fraternità universale”.

2.      I segni dei tempi

Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche” (4). É necessario “conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico” e quindi “delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo” (4). L’elemento fondamentale che viene colto è il “periodo nuovo della storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini”. E perciò esiste una “vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa” (4).

Secondo Karl Rahner, l’espressione “segni dei tempi” (signa temporum) è “una delle tre o quattro formule più significative del Concilio, al centro dei suoi lavori come anche all’origine della sua ispirazione”. Essa ha avuto come impatto quello di aprire la coscienza della Chiesa alla sua dimensione storica in dialogo con il mondo.

L’espressione “segni dei tempi”, tratta da Matteo 16,3 circolava già alla fine degli anni ‘40 nell’ambiente teologico francese, in particolare con i teologi Marie Dominique Chenu e Yves Congar. Essi cercavano di praticare una ricerca teologica più impregnata di coscienza storica, in dialogo con i contemporanei proprio nel mentre si riscopriva la dimensione storica della Rivelazione. La loro metodologia poggiava su una pratica teologica preoccupata di tenere insieme il dato scritturistico, la Parola nella storia, e i grandi eventi che vedevano coinvolti cristiani e non cristiani nel mondo. Essi si proponevano di partire dal vissuto, più che da tesi dogmatiche, per lasciarsi da esso interrogare e promuoverlo ai valori evangelici.

In termini allusivi, l’espressione compare nella Bolla di convocazione del Concilio, Humanae salutis, del 25 dicembre 1961. Giovanni XXIII l’assunse, pur senza nominarla, come struttura base dell’enciclica Pacem in terris  dell’11 aprile 1963. Infatti alla fine di ciascuna delle quattro grandi sezioni, Giovanni XXIII enumera una serie di “segni”:

1. Nell’ambito dei rapporti umani, segnala la promozione economica e sociale delle classi lavoratrici, l’entrata della donna nella vita pubblica, la fine del colonialismo;

2. Nell’ambito dei rapporti tra le comunità politiche: una accresciuta coscienza dell’unità tra i popoli;

3. Circa i rapporti con la comunità mondiale: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Ma è nei testi conciliari che l’espressione e la sua nozione ha fatto la sua entrata decisiva. La GS ne fa appunto un uso esplicito al n. 4, dove si può leggere: “Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche”.

Paolo VI riprende l’espressione nella sua enciclica sul dialogo Ecclesiam suam, per indicare che il suo pontificato s’inscrive nella linea dell’aggiornamento di Giovanni XXIII e del Concilio: “E noi lo ricorderemo per stimolare nella Chiesa la vitalità sempre rinascente, l’attenzione costantemente sveglia ai “segni dei tempi”, l’apertura sempre giovane che sappia “verificare ogni cosa e ritenere ciò che è buono” (1Tes 5, 21).

Giovanni XXIII aveva impiegato l’espressione “segni dei tempi” per sottolineare che molti cambiamenti si erano introdotti nella vita degli uomini, cambiamenti di cui la Chiesa doveva tener conto per annunciare il vangelo. Per il papa, l’attenzione ai “segni dei tempi” non era tanto una specie di miglioramento facoltativo dell’attività della Chiesa ma una necessità intrinseca della sua missione, un dovere che gli veniva dalla sua “eterna giovinezza”.

Si è talvolta ironizzato su questi famosi “segni dei tempi”. Qualcuno ha denunciato come in bocca a Gesù essi abbiano un sapore fortemente escatologico: essi annunciano i tempi ultimi, il giorno del giudizio, mentre per il papa e per il Concilio essi mirerebbero soprattutto ad adattare la Chiesa per renderla meglio accettabile in un mondo che si allontana sempre più da lei o che addirittura la respinge.

Ma in realtà scrutare i “segni dei tempi” vuol dire principalmente cogliere quelle tracce che indicano l’azione di Dio nella storia, dove egli lavora per condurre gli uomini al di là della storia e dove, per mezzo di Cristo risorto, agisce nel più profondo di ogni uomo. La Chiesa pertanto si pone nell’attitudine, non solo di dare, ma di “ricevere dalla storia e dalla evoluzione del genere umano” (GS 44). I segni dei tempi infatti, nella bocca di Gesù, sono per tutti i membri del Popolo di Dio. Il segno di Giona è dato a tutto Israele: “Diceva alle folle…, sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?

In un secolo segnato dalla forma più organizzata della violenza, ben due guerre mondiali e tante regionali, come individuare dei “segni” capaci di orientare alla costruzione di una società del bene e della pace? E in questa società, gli uomini sono in grado di intravedere un compito che vada al di là dei loro desideri individuali? Una umanità che ha la pretesa di costruirsi da sola, è in grado di aprirsi al perdono e al dono di Dio o si opporrà a lui con tutte le sue forze?

Ebbene, i testi conciliari segnalano una molteplicità di segni dei tempi (GS 4), riconducibili fondamentalmente a tre: l’unità, la libertà, l’efficacia dell’attività umana.

1) Il Concilio insiste di preferenza sull’unità. Un cenno lo si trova già nel primo numero della costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa. Il Concilio constata che gli uomini sono “ormai più strettamente congiunti tra loro da vari vincoli sociali, tecnici e culturali”. Il tema della “mondializzazione“ o della “globalizzazione” era già presente alla coscienza dei padri conciliari: malgrado la divisione del mondo in due blocchi ideologici contrapposti, lo sviluppo tecnico spingeva ineluttabilmente verso una interdipendenza tra gli uomini mai conosciuta né immaginata fino allora. Vedendo in ciò un segno dei tempi, il Concilio non si accontenta di registrare materialmente il fatto: vi riconosce una aspirazione dell’umanità. Non ignora certo i fattori di divisione, d’incomprensione, di odio che giocano pure nella storia degli uomini e che non mancavano negli anni ’60, ma l’aspirazione all’unità diventa qualcosa di concreto, un compito quotidiano. Ne deriva una duplice sfida alla Chiesa: ad extra, aiutare gli uomini a non accontentarsi di una unità materiale, economica, finanziaria, tecnica ma mirare all’unità delle libertà che solo Cristo può procurare; ad intra, che la Chiesa sia essa stessa il segno più limpido dell’unità nella quale il suo Signore vuole riunire gli uomini.

2) Il secondo segno dei tempi è la libertà. All’indomani delle due guerre mondiali, la libertà diventa la grande rivendicazione degli uomini, di tutti gli uomini e in tutti gli ambiti dell’esistenza: libertà morale, libertà economica, libertà sociale e politica. Gli uomini non sopportano più di essere guidati come dei bambini, in nessun ambito. Si sa come tale rivendicazione è esposta alla gelosia e alla violenza, al rifiuto di ogni obbedienza. Vedervi un segno dei tempi, non vuol dire trascurare ciò che c’è di pericoloso in tale aspirazione, tuttavia essa rinvia a quella libertà spirituale che Dio vuole per tutti gli uomini e che il Cristo è venuto a rendere possibile malgrado il peccato. Un duplice compito dunque per la Chiesa: incoraggiare gli uomini a ricercare fino in fondo che cosa vuol dire essere liberi, liberandosi da ogni forma di obbedienza che non sia obbedienza a Dio; essere a sua volta una comunità di libertà in una risposta sempre più piena a Dio che si rivela.

3) All’origine di queste due caratteristiche dei tempi nuovi c’è un terzo fattore decisivo: l’incredibile efficacia dell’attività umana. L’uomo contemporaneo non si accontenta più di subire la sua sorte, cercando di migliorarla come può, spesso a danno degli altri; egli prende in mano la sua situazione e costruisce la sua vita dispiegando una ingegnosità inimmaginabile che gli permette di costruire il suo destino in ogni ambito: la politica diventa una costruzione della ragione e della volontà e non più il risultato della storia; la salute diventa la conquista di ogni istante e non un dono del cielo mal distribuito; le ricchezze si moltiplicano e si pensa possano essere partecipate a tutti. Sì, si tratta di un segno dei tempi e la Chiesa si sente rilanciata nella sua missione se è vero che gli uomini non ricorrono più a Dio per far fronte alla loro precarietà. Convinzione formidabile della Chiesa: Dio non prospera nella miseria umana.

Individuare questi “segni dei tempi”, “scrutarli” (GS 4) è per la Chiesa credere che il tempo non è un fattore di degrado, che la storia non va letta come una lenta decadenza dopo un vertice romanticamente situato sempre nel passato. E’ invece riconoscere “la fecondità della durata” (Henri de Lubac).

La Chiesa, afferma la GS, deve avere il coraggio dell’analisi del proprio tempo e misurarcisi, pronta a ripensarsi e a rileggersi in termini nuovi poiché il messaggio che porta è per l’uomo e la donna concreti e storici. Esistono perciò profonde mutazioni (5) nell'ordine sociale (6), mutamenti psicologici, morali e religiosi (7). Esistono squilibri nel mondo contemporaneo (8). Eppure si allargano le aspirazioni sempre più universali dell'umanità (9). Sono condivisibili o meno queste letture ma lo sforzo di guardare e di misurarsi con le persone e i problemi concreti resta intatto e di grande spessore.

3.      Il dialogo come modo di essere della Chiesa.

Questa costituzione è una sorpresa nella storia della Chiesa soprattutto perché essa esprime  a volontà di capire l’umanità e il suo cammino e quindi di giocarsi su ciò che è soggetto al tempo, alle trasformazioni e quindi mutevole. Per questo è un documento pastorale poiché vuole accompagnare uomini e donne nelle loro “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” (1) e quindi assoggettarsi a ciò che cambia: “Si tratta di realtà soggette a continua evoluzione.” Non teme quindi di sentire il proprio insegnamento imperfetto e povero: “L'insegnamento presentato qui dovrà essere continuato ed ampliato” (91). Si rinuncia ad utilizzare prioritariamente le categorie dell’immutabilità e della definitività, ma quella del dialogo, necessario per trovare la verità di sé e del mondo in un contesto di mutabilità storica.

Il dialogo è uno dei concetti fondamentali del Concilio Vaticano II e delle discussioni post-conciliari (cf. n. 3, 19, 21, 25, 40, 43, 56, 85, 90, 92). Come indicato da Papa Paolo VI nella sua prima Enciclica Ecclesiam suam (1964), il dialogo entra nella vita interna della Chiesa, nel rapporto con le altre Chiese e Comunità ecclesiali, con le religioni non cristiane e con il mondo d’oggi.

È da notare come parlando degli aspetti negativi del mondo la costituzione dia prova di autocritica, elemento necessario perché vi sia dialogo. Essa non vede la colpa soltanto negli altri, ma riconosce la corresponsabilità dei cristiani, per esempio nel fenomeno dell’ateismo moderno: “nella genesi dell'ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione.” (GS 19).

Il metodo di ricerca dialogico sembrò ingenuo sia durante che dopo il Concilio e, per tutto il tempo, si accusò il Concilio di irenismo, di esuberante ottimismo, di ingenuità. Certamente fu difficile approcciare la realtà con questo metodo inusuale, era la prima volta che esso veniva applicato. Si proponeva di operare con creatività e simpatia la lettura del mondo moderno che era stato invece sempre allontanato con atteggiamento di rifiuto. Una idea tipicamente giovannea, ripresa nelle conclusioni di GS, lo esprimeva bene: “Sono più forti, infatti, le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono; ci sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità” (GS 92).

Ha prevalso “il desiderio di stabilire un dialogo che non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora l'autore, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere” (92).

Con il metodo del dialogo si poneva di conseguenza anche il problema del linguaggio. Utilizzare le categorie delle scienze, come è avvenuto nella parte introduttiva, per la Chiesa è stata una scelta coraggiosa poiché si entrava in una ricerca scientifica, anche se sommaria. Ma poi si è usato il linguaggio corrente, capace di farsi intendere. E’ povero, certamente, e non si sono viste molte citazioni bibliche a cui siamo abituati così come, nel primo fondamentale capitolo della “Chiesa nel mondo”, non si è usata la parola “Chiesa”, ma frasi scelte come “i discepoli di Cristo” o “la comunità degli uomini che sono uniti in Cristo”. E’ un linguaggio per tutti gli uomini e di tutti i giorni, carico di attenzione e di saggezza, attento a ciò che l’altro intende e dice perché ci siano comprensioni corrette.

4.      La dimensione cristologica

La dimensione cristologica è sempre presente in GS.

Di per sé non si voleva fare un discorso dottrinario, poiché si trattava di un ambito eminentemente dialogico, più che affermativo dogmatico, ma si è tentato comunque di operare un incontro con l’uomo moderno sulla base di elementi sapienziali condivisibili anche dagli altri. Alla fine però ci si è preoccupati di richiamare, come conclusione di un itinerario di ricerca comune, l’immagine di Cristo che non si imponeva a priori, come premessa del discorso, ma veniva presentato come il testimone più vero di un’umanità autentica.

In questo senso il modo in cui il Concilio affronta tali tematiche basilari è sorprendentemente nuovo. Di fatto, esso non ricorre al fondamento della legge naturale, che, stando alla dottrina teologica tradizionale, è in principio riconosciuta da tutti gli uomini e costituisce di conseguenza un ponte d’intesa tra i credenti e i non credenti, come anche tra i fedeli di religioni diverse. Il Concilio sceglie un’altra strada. Non mette in primo piano i cosiddetti preambula fidei, i presupposti naturali della fede, ma il centrum fidei, il cuore della fede che è la persona di Gesù Cristo. Questa prospettiva trova il suo fondamento principalmente in Col 1,15-20: “…per mezzo di lui sono state create tutte le cose… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (cf. Gv 1,3; Ef 1,3-10; Eb 1,2). Alla fine dell’introduzione, la GS afferma in modo programmatico: “la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione… Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana… Così nella luce di Cristo… il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell'uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo” (GS 10).

Sulla base di tale convinzione fondamentale il Concilio intraprende una doppia riflessione. Da una parte vuole leggere i “segni dei tempi” alla luce del Vangelo (cf. GS 3-s, 10-s, 22, 40, 42-s, ecc.), dall’altra vuole accettare la sfida che essi rappresentano alla responsabilità terrena dell’uomo e interrogarsi su di essi, per giungere ad una comprensione più approfondita proprio dello stesso messaggio evangelico (cf. GS 40, 44, 62). Si tratta dunque di un’interpretazione del mondo, dell’uomo, ma anche del Vangelo che si realizza man mano nella storia grazie ad un atteggiamento dialogante.

5.      La dimensione “laica” della vita

Viene riconosciuta una grande responsabilità ed autonomia ai laicinegli impegni ed attività temporali”, agendo individualmente e in modo associato da cittadini del mondo, vengono garantiti il pieno rispetto dell’attività di ciascuno e la sua grande dignità. E tuttavia ci sono pericoli di dissociazione tra fede e vita quotidiana, “uno tra i più gravi errori del nostro tempo… Sono in errore coloro che pensano di potersi immergere talmente nelle attività terrene, come se queste fossero del tutto estranee alla vita religiosa, la quale consisterebbe, secondo loro, esclusivamente in atti di culto e in alcuni doveri morali”.

Con la GS il Concilio si oppone a tutti i tentativi laicistici di limitare il campo d’azione e d’interesse della Chiesa a faccende meramente interne, relegandola per così dire alla “sacrestia”. La Chiesa però, afferma GS, non si lascia ghettizzare e ridurre ad una dimensione puramente intima e personale; essa rivendica una voce pubblica. E la rivendica non per la difesa del proprio interesse, ma nell’interesse degli uomini. Dice infatti: “È l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione” (GS 3). Il Concilio si interroga sulle questioni fondamentali dell’esistenza: “Cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l'uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?” (GS 10).

6.      Autonomia del mondo

La costituzione vuole cancellare la dicotomia tra fede e vita quotidiana, dicotomia che, a suo parere, rappresenta uno delle realtà più erronee e dannose dei tempi moderni (cf. n. 42). Più tardi Papa Paolo VI nella sua Lettera apostolica Evangelium nuntiandi (1975) ha costatato che “La rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca” (n. 20). Ma per eliminare questa frattura non si cerca di riappropriarsi della sfera secolare, come di uno spazio da rioccupare, per farla ricadere sotto il “controllo” di quella religiosa, ma si riconosce l’autonomia dell’universo secolare con cui la fede deve entrare in un dialogo proficuo per trasformarlo dall’interno.

La GS riconosce quindi l’autonomia legittima delle realtà terrene (cf. n. 36, 41, 56, 76), affermando che “le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare”. Per il Concilio, tale riconoscimento non solo rappresenta una sfida per l’uomo del nostro tempo che gli impone l’assunzione di responsabilità, ma rispecchia anche la vera realtà di tutte le cose create, che hanno “la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine” (n. 36). Da ciò deriva il riconoscimento dell’autonomia legittima della scienza, della cultura e della politica; quest’autonomia legittima non significa che la fede non può dire nulla ad esse, ma deve rapportarvisi con il dialogo e non con la negazione e la riaffermazione acritica e autoritativa di sé.

Con tali affermazioni, la costituzione riconosce la legittimità di fondo della rivendicazione dell’Illuminismo della legittimità dell’uso della ragione contro ogni forma di dogmatismo oscurantista, ed uno dei desideri legittimi della secolarizzazione moderna. Il Concilio mette fine così ad un triste capitolo della più recente storia della Chiesa. Esso respinge l’integralismo che, volendo trarre una risposta uniforme ed automatica dai principi della fede per le questioni del mondo, ha spesso causato conflitti totalmente inutili e nella maggior parte dei casi insensati con le scienze, le coscienze, la cultura e la politica moderne.

Il riconoscimento della legittima autonomia delle diverse realtà in cui vive l’uomo in questo mondo è centrale per fondare la libertà e responsabilità dei laici nella Chiesa; perché sono loro gli esperti in questi vari campi e che dispongono delle competenze necessarie per il cui impiego il Vangelo è fonte di “luci e forze”, anche se non direttamente fonte di conoscenza (n. 42). I pastori debbono dunque riconoscere con rispetto la giusta libertà dei laici nella Chiesa (Lumen gentium 37).

Sempre nella linea delle responsabilità dei laici, l’attenzione a non strumentalizzare la religione per proprie vedute ideologiche è una preziosa libertà che riconsegna a ciascuno il compito e la creatività di operare nel mondo. “Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall'altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della Chiesa” (43).

a.      Conseguenza I: il valore del bene comune e della giustizia

Sul bene comune GS insiste molto, poiché è la misura che motiva la giustizia ed apre alle responsabilità e quindi alla carità. Sotto questa angolatura va letta l’affermazione di grande dignità: “La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni”. In fondo il mondo dei poveri ha soprattutto bisogno di amici leali più che amici ricchi poiché il primo rapporto crea un cammino comune e il secondo lascia lontani gli uni dagli altri (76).

La GS ha aperto la strada a grandi speranze che maturarono, in particolare, soprattutto nell’ambiente di oppressione dell’America latina. Partire dal discernimento della realtà più che dai principi fu l’eredità della GS che ispirò la prima conferenza delle chiese latino-americana e di Medellin (1968) in cui si denunciarono lo sfruttamento e la dipendenza dei popoli latino-americani da parte delle economie ricche. La GS ricorda che l’aspirazione alla liberazione dell’uomo “passa soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale” (20). Nasce da questa lotta contro la povertà e gli abusi e dalla volontà di sradicare l’ateismo la “Teologia della liberazione” attraverso cui, tra diverse vicende non tutte ortodosse, è passato il risveglio di un cristianesimo vivo, di una rilettura della Parola di Dio, di una consapevolezza della realtà dei popoli indigenti.

Sulla stessa dimensione si colloca il tema della promozione dei diritti umani e la condanna di ogni forma di discriminazione (cf. n. 21, 26, 29, 41 s, 59, 73, 76). La decisione del Concilio di compiere tale passo trova il suo fondamento ancora una volta nella creazione, ovvero nel fatto che Dio abbia creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,27) (cf. n. 12). In conformità con la sua concezione cristocentrica, la costituzione aggiunge a questo argomento tradizionale, che solamente in Gesù Cristo il mistero dell’uomo trova la vera luce. “Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (n. 22).

b.      Conseguenza II: la libertà religiosa

Un’altra importante conseguenza tratta dal Concilio da questa attitudine trova la sua espressione più chiara nella dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis humanae, intorno alla quale si sono accese le più vive discussioni nell’aula conciliare. Di fatti, la libertà di coscienza e di religione erano state condannate espressamente dai pontefici del XIX secolo, secondo una concezione liberale che non riconosceva il nesso tra libertà e verità, nesso che invece il Concilio ritiene essenziale. Con Dignitatis humanae il Concilio mette fine a tali opinioni del passato, sottolineando la positività della crescente importanza attribuita alla libertà nei tempi moderni ed ammettendo che non esiste soltanto un diritto della verità ad esprimersi, ma anche un diritto della persona e che la verità può essere riconosciuta soltanto nella libertà. Con ciò, il Concilio congeda la dottrina del cosiddetto ‘stato cattolico’ e getta le basi per il riconoscimento della democrazia pluralistica moderna.

La posizione storica assunta dal Concilio in merito ai due aspetti sopracitati è un punto di riferimento fondamentale che permette alla Chiesa ed al singolo cristiano di dirsi e di sentirsi “a casa” nella realtà moderna. Finita è la nostalgia romantica del medioevo e della sua cultura unitaria; finita è la mentalità restauratrice impostasi dopo la rivoluzione francese; finito è anche il tristemente zelante antimodernismo della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo.

7.      Le tematiche sociali

È vero, il magistero si era già espresso su tematiche specifiche e su questioni sociali come il matrimonio e la famiglia, la guerra e la pace. Però con la GS è stato abbandonato l’atteggiamento difensivo e restauratore assunto dalla Chiesa a partire dalla rivoluzione francese. Il Concilio si è sforzato di superare, nei confronti della società, visioni ormai obsolete, che erano il risultato di specifiche condizioni storiche, e ha cercato di gettare i fondamenti di una nuova inculturazione del cristianesimo nel mondo moderno.

Questo nuovo approccio costruttivo e dialogico non era acritico e ingenuo; si potrebbe piuttosto parlare di una posizione profetica alla luce del vangelo di Gesù Cristo. In questo senso la costituzione ha aderito ad una realtà post-illuminista, libera e democratica, riconoscendo concretamente la legittima autonomia della cultura, dei diritti umani, della libertà di coscienza e di religione. Ma non lo ha fatto tanto per adeguarsi alla situazione. I passi che ha intrapreso, non li ha compiuti per accettare sviluppi che avevano già avuto luogo, ma li ha compiuti entrando in dialogo con una realtà che aveva fatto propri questi principi, senza rinunciare ad uno sguardo critico. La GS ha ribadito che noi cristiani non abbiamo nessun motivo di giudicare gli sviluppi moderni soltanto in modo negativo, secondo un’ottica parziale e generalizzante. È bene allora seguire l’invito dell’Apostolo Paolo: “Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1Tess 5,21).

Il nuovo contenuto della costituzione rispecchia un nuovo metodo ed una nuova forma dei documenti magisteriali. Lo “stile pontificale” delle precedenti encicliche è stato abbandonato e se ne è adottato un altro, non più astratto e deduttivo ma empirico e concreto nell’argomentazione, uno stile dialogico basato su un linguaggio più profetico. Papa Giovanni Paolo II nelle sue numerose encicliche ha fatto suo questo stile, conferendogli il proprio carattere. Anche da questo punto di vista, non è possibile invertire la marcia e ritornare indietro, al passato.

Quale validità della GS oggi?

Dopo i grandissimi cambiamenti nel corso degli ultimi cinquant’anni ci dobbiamo chiedere quale sia oggi il significato della GS: non parla ad un mondo e di un mondo diverso dal nostro e ormai scomparso? Non è, cioè, un pezzo di storia divenuto ormai  anacronistico?

Certamente la realtà è cambiata, ma la GS ha segnato un punto di non ritorno e sempre valido.

I metodi ed i principi fondamentali della costituzione sono ancora validi, ma devono essere riferiti alla situazione attuale e applicati ad essa nuovamente in modo profetico. Non si tratta più solamente di dare spazio alle legittime intenzioni dell’epoca moderna, ma piuttosto di difenderne e salvaguardarne il valore dalla loro deriva autodistruttiva.

In questo senso la Chiesa di oggi non è l’avversario ma l’alleato della libertà, sorella gemella della verità. In questo senso siamo oggi non solo – come il Concilio disse – testimoni della nascita d’un nuovo umanesimo (n. 55) ma anche combattenti per un nuovo umanesimo e una nuova cultura della vita, della solidarietà e dell’amore che di tempo in tempo si devono elaborare e realizzare. Siamo confrontati da questioni che vanno ben oltre la costituzione pastorale ed il cui chiarimento necessita un’ulteriore, approfondita riflessione, una riflessione che GS non ha potuto naturalmente fornire.

È necessario rileggere la costituzione pastorale GS riferendosi ai principi che essa ha indicato e che devono essere ulteriormente sviluppati con pazienza e con determinazione tramite un lavoro approfondito, affinché possano essere applicati coraggiosamente alla nuova situazione, in modo sia costruttivo che critico.

Paolo VI nel discorso di chiusura del Concilio (7 dicembre 1965) osservava circa l’itinerario della GS: “non possiamo trascurare un’osservazione capitale del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi inseguirla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente, fra la Chiesa e la civiltà profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo”.

E guardando in profondità, commentava: “La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo”.



[1] Mater et Magistra è il titolo dell'enciclica sociale promulgata il 15 maggio 1961 nella quale papa Giovanni XXIII ha ripreso ed ampliato il tradizionale insegnamento della Chiesa cattolica in ordine ai problemi sociali. Nel documento, che ha dato nuovo impulso all'attività dei cattolici, il Papa sviluppa le tesi già esposte nella Rerum Novarum di papa Leone XIII, nella Quadragesimo Anno di papa Pio XI, in relazione anche ai problemi più attuali. Di particolare valore è la riaffermazione del valore della persona e della libertà economica, ma insieme della perfetta liceità della tendenza alla socializzazione, purché attuata nel rispetto dei diritti della persona. Notevole è anche la parte che affronta i problemi agricoli e quelli della decolonizzazione e degli aiuti ai Paesi sottosviluppati all'insegna del solidarismo internazionale.

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