“Nulla vi è di genuinamente umano
che non trovi eco nel cuore dei
discepoli di Cristo”
La Chiesa e il mondo
contemporaneo, simpatia e partecipazione.
La costituzione Gaudium et spes
Il carattere “pastorale” della Gaudium
et spes
Il 7 dicembre 1965 il Concilio Vaticano II approvò la costituzione
GS concludendo così i lavori necessari alla sua elaborazione durati più
di tre anni.
Centouno anni e un giorno prima Pio IX aveva promulgato l’enciclica
Quanta Cura, in cui la Chiesa si poneva di fronte al mondo attraverso il
Sillabo, cioè l’elenco che conteneva i principali errori del tempo e la
relativa condanna. La prospettiva di quell’enciclica di Pio IX rivelava le
ansie e i timori della Chiesa di fronte a quel tempo poco decifrabile e giudicato
in rottura con la Chiesa. L’atteggiamento di fondo era quello di evidenziare e
condannare quello che andava male.
Nella GS, invece, non mancano certo gli accenni ad una
preoccupazione per il distacco tra i contenuti evangelici e la cultura contemporanea,
ma la Chiesa non vuole più giudicare dall’alto della dottrina l’umanità che ha
di fronte, ma piuttosto vuole comprenderla dal suo interno, ponendosi dentro la
storia dell’umanità, non ignorando le luci e le ombre, il positivo e il
negativo, ma standole a fianco dentro il cammino della storia, proprio come ha
fatto Dio mandando Gesù a condividere la condizione umana.
Tra tutti i documenti prodotti dal Concilio Vaticano II, la Costituzione
pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo si distingue.
La sua straordinarietà è data anzitutto dal genere:
tra gli innumerevoli documenti prodotti in duemila anni di cristianesimo mai un
Concilio aveva promulgato una costituzione pastorale. Sembra quasi una contraddizione di
termini, di certo era una totale novità, tanto che i padri conciliari
dovettero introdurre un’approfondita spiegazione che chiarisse il genere dello
scritto e il suo carattere vincolante. La costituzione, infatti, non espone
soltanto principi fondamentali di fede, ma si esprime in merito a questioni
concrete del mondo contemporaneo, esamina i cosiddetti “segni dei tempi”, parla della scienza e della cultura, del
matrimonio e della famiglia, dell’ordine sociale, del lavoro, dell’economia,
della pace e della guerra, evocando persino quella nucleare: in poche parole
parla dell’uomo e del suo mondo, all’uomo.
Con l’aggettivo “pastorale” si intende quindi la traduzione e
l’attuazione della fede nella vita vissuta concreta, termine che non va inteso
in contrapposizione con “dottrinale”. Piuttosto, l’atteggiamento pastorale
presuppone un fondamento dottrinale. La pastorale non può né vuole sostituirsi
alla dottrina o aggirarla; essa vuole impiegarla nelle situazioni concrete ed
in esse valorizzarla.
Ecco perché, ulteriore novità, con questo documento, il Concilio
non si rivolge soltanto ai propri fedeli, ma a tutta la famiglia umana. Infatti
nel titolo non si legge “messaggio della Chiesa al mondo
contemporaneo”, ma “la Chiesa nel mondo contemporaneo”. La Chiesa
non si pone davanti al mondo come Mater et Magistra, titolo di una
precedente enciclica di Giovanni XXIII,[1]
ma pensa a se stessa come una realtà facente parte del mondo, solidale con esso.
Un atteggiamento che, come vedremo, è totalmente nuovo, che si fonda sulla realtà
dell’Incarnazione di Cristo e si coniuga secondo un modello dialogico, cioè
basato sul dialogo paritario di realtà diverse ma non opposte né estranee. Un
modo totalmente nuovo di essere Chiesa, non previsto all’inizio dei lavori.
La redazione della GS
La costituzione pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo
è, molto probabilmente, il documento di più articolata elaborazione in tutta la
storia del Concilio Vaticano II: c’è chi conta fino a dodici stesure. È un
testo che porta i segni di un lavoro faticoso e lungo, segnato da numerose
difficoltà: la fatica per l’individuazione dell’oggetto di studio, la scelta
del metodo di indagine, l’individuazione dei destinatari a cui rivolgersi,
fecero sì che il documento fosse l’ultimo ad essere approvato dall’assemblea
conciliare.
Quando il 20 ottobre 1964 lo schema preparatorio fu
presentato alla prima discussione in aula, la sua storia era già lunga e
travagliata.
Fin dall’apertura del Concilio era forte l’esigenza di
riflettere sui rapporti della Chiesa con il mondo. I Cardinali Suenens e
Montini avevano espresso il desiderio di una trattazione del tema della Chiesa ad
extra, cioè nel suo rapporto con il mondo. L’Assemblea stessa era stata pensata e voluta
da Papa Giovanni XXIII come tentativo di ripensare nuovi modi per trasmettere
la fede in un mondo cambiato e ormai secolarizzato, che poneva sempre più la
religione tra le esperienze secondarie della vita, come espresse nel suo
discorso di apertura: non si trattava di fissare dogmi, disse papa Roncalli, ma
di dire all’uomo, trasformato dagli eventi dell’era moderna, che il Cristo, con
la sua Buona Novella, restava sempre l’unica fonte di verità e di salvezza.
Nonostante questo forte interesse, il rifiuto degli schemi
della fase preparatoria, e il lavoro richiesto per la preparazione delle prime
due Costituzioni non permise di giungere ad un testo definitivo durante la prima sessione
conciliare.
Nel gennaio 1963, dopo la conclusione della prima sessione,
monsignor Hengsbach presentò formalmente la richiesta alla Commissione per
l’apostolato dei laici affinché il Concilio si interessasse dei problemi
sociali. La Commissione, presieduta dal cardinale F. Cento, trasmise tale
richiesta alla Commissione centrale che l’accolse. Ma se la necessità di un
dialogo della Chiesa con il mondo era fortemente sentita, non era altrettanto
chiaro come attuarlo, quali dovevano essere i principi essenziali, quale
linguaggio, quale struttura dare al documento. Ecco perché si decise di
assegnare il compito per la redazione di uno schema a una Commissione mista:
alla Commissione Teologica originariamente incaricata e presieduta dal
cardinale Ottaviani, furono affiancati alcuni membri della Commissione per
l’apostolato dei laici.
Il primo schema pre-conciliare, a tutti noto come Schema
XVII, si titolava: De praesentia Ecclesiae et activa in mundo hodierno.
Era composto da un’introduzione e sei capitoli: De admirabili vocatione
hominis; De persona humana in societate; De matrimonio et familia; De culturae
progressu rite promuovendo; De ordine economico at de iustitia sociali; De
comunitate gentium et pace. Il lavoro di redazione terminò nel maggio 1963
ma, quando fu presentato alla Commissione Centrale, nel successivo luglio, non
fu accettato perché ritenuto insufficiente, soprattutto nel capitolo
riguardante la vocazione dell’uomo.
Intanto il 3 giugno del 1963, papa Giovanni morì. Il cardinal
Montini, eletto papa col nome di Paolo VI il 21 dello stesso mese, fin dal
giorno successivo alla sua elezione manifestò l’intenzione di far proseguire il
Concilio. Nel discorso di apertura della seconda sessione conciliare tra i
quattro punti programmatici pose proprio il tema del dialogo Chiesa-mondo.
Ci fu un tentativo di apportare alcune modifiche allo schema
XVII e il 4 luglio 1963 venne presentato un lavoro dal titolo: De praesentia
efficaci Ecclesiae in mundo hodierno. Il testo, ancora una volta, fu
respinto. Fu dato incarico al presidente della commissione centrale, Suenens,
di preparare un nuovo testo. Il cardinale diede vita al gruppo di Malines
formato dai teologi di Lovanio a cui si aggregarono altri studiosi.
Il nuovo schema, redatto nel settembre 1963, De activa
praesentia Ecclesiae in mundo aedificando, fu organizzato in due sezioni:
la prima dal titolo La missione propria della Chiesa, era indirizzata ai
cristiani, la seconda, formata da due parti: Il mondo da edificare e I
compiti della Chiesa nei confronti del mondo, era rivolta a tutti gli
uomini. Ma anche questa bozza non piacque: rivelava, a differenza del primo, un
carattere marcatamente dogmatico. In realtà il problema, percepito sin
dall’inizio, ma rimasto silenzioso fino ad ora, veniva fuori impetuosamente: come
si doveva procedere per elaborare una riflessione della Chiesa sul mondo?
Si aprì quindi il dibattito tra le due tendenze opposte:
da una parte coloro che sostenevano che i problemi sociali dovevano essere
affrontati con metodo teologico e a partire dai dati della Rivelazione,
dall’altra la posizione di chi affermava che ogni riflessione della Chiesa sul
mondo, dovesse partire da esso, dalla realtà e parlare agli uomini in un
linguaggio moderno e comprensibile. Metodo deduttivo il primo, induttivo il secondo.
Per risolvere il problema e superare tale contrasto, fu costituita una
Sottocommissione Centrale mista incaricata di redigere un ulteriore schema,
ormai indicato come Schema XIII.
La sottocommissione, presieduta dal cardinale Guano, optò per
uno schema formato da un esteso capitolo dottrinale a cui si aggiunsero una
serie di appendici riguardanti le problematiche mondane.
Riassumendo, il lavoro dei vari gruppi prima della
presentazione conciliare aveva prodotto tre differenti schemi: il primo redatto
dalla Commissione mista che sembrava prediligere una prospettiva più
sociologica, il secondo redatto dal gruppo di Malines, che preferiva una
prospettiva più dogmatica, infine un terzo schema che ritornava, almeno
inizialmente, ad un carattere più sociologico. Le due tendenze furono vive e
manifeste durante tutto il percorso redazionale del documento. In verità ancora
oggi, nel testo definitivo a nostra disposizione, è possibile individuarle ad
una lettura approfondita.
Siamo finalmente ad una svolta: il dibattito, seppure a volte
polemico, aveva portato a precisare la prospettiva con la quale riflettere sul
rapporto Chiesa-mondo. Non una semplice relazione, ma una partecipazione della Chiesa,
secondo la logica dell’incarnazione, ai problemi del mondo contemporaneo.
Purtroppo ci fu una grande disattenzione: questa fondamentale indicazione di
monsignor Guano, benché accompagnasse il testo, era stata scritta dopo il testo
stesso. Risultato fu una netta discrasia tra la Relatio ed il Textus.
Il 21 ottobre 1964, il “Testo di Zurigo” fu presentato per la
prima volta in aula conciliare con il titolo: De ecclesia in mundo huius
temporis. Nell’intenzione della Commissione di coordinamento il testo
doveva servire come base per la discussione dei padri, durante i lavori
conciliari. Lo schema risultava formato da quattro capitoli di contenuto
dogmatico che trattavano della vocazione dell’uomo, della posizione della Chiesa
in relazione al mondo, del compito del cristiano. A questa prima parte si
aggiungevano gli allegati che trattavano della persona nella società, del
matrimonio, della cultura, della vita economica, della comunità internazionale,
della pace.
In aula conciliare si notò subito la discordanza tra le linee
guida proferite da monsignor Guano e il testo. Naturalmente anche la struttura
e il metodo riflettevano le incertezze dei contenuti. Quando la discussione
iniziò, i padri dovevano esprimere le loro opinioni su un testo la cui
struttura si presentava fortemente disarticolata data dalla scelta di confinare
le problematiche mondane solo a degli allegati. Infine tutte quelle incertezze
rendevano difficile l’individuazione dei destinatari. Ci furono 170 interventi
orali e 200 scritti: il testo non fu approvato per la mancanza di unità e per
le numerose ripetizioni.
Alla luce di questi fatti, approfittando dell’interruzione
dei lavori conciliari, si pensò di elaborare un nuovo progetto. Nel novembre
1964, la Sottocommissione plenaria mista si riunì per riordinare il lavoro. Il
“Testo di Zurigo”, seppur non accettato dai padri conciliari, fu riconosciuto
come base da cui partire. Occorreva però rielaborare nuovamente il testo
secondo le direttive scaturite dall’assemblea. Si decise di dare il compito ad
un redattore unico, P. Haubtmann, coordinato da B. Häring e dai presidenti
delle due Commissioni.
A gennaio 1965, nel primo incontro tenutosi ad Ariccia, i
partecipanti trovarono un nuovo testo: era formato da una prima parte composta
da tre capitoli e da una seconda parte formata dal vecchio quarto capitolo più
gli allegati. Avevano finalmente maturato l’idea che, per una corretta impostazione
dell’argomento, le appendici non potevano essere secondarie ma parti integranti
del testo stesso. Da tale acquisizione si lasciava definitivamente il metodo
tradizionale abituale, cioè enunciare principi che in seconda istanza si applicavano
alle realtà umane, per assumere un metodo che privilegiava il primato
dell’analisi delle realtà mondane che successivamente si rileggevano alla luce della
Rivelazione.
Dopo molto lavoro si giunse così allo schema definitivo: una
introduzione, una prima parte a carattere dottrinale formata da quattro
capitoli, una seconda parte a carattere sociale formata da cinque capitoli.
Avevano sperato in un prolungarsi dei lavori conciliari per risolvere le varie
incongruenze, ma le disposizioni generali furono altre: la sessione conciliare
del ‘65 sarebbe stata l’ultima.
Il lavoro venne così presentato in aula conciliare il 21
settembre 1965: il testo corretto risultava più unitario ed elaborato. La principale
caratteristica che, più che una novità, costituì una precisazione, fu la
qualifica di costituzione Pastorale data allo schema, che manteneva il
titolo La Chiesa nel mondo contemporaneo con cui era ormai noto già da
due anni.
Una novità è invece l’estensione dell’orizzonte dei
destinatari: “[Il Concilio Vaticano II] senza esitazione rivolge ora la
parola non soltanto ai figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome
di Cristo, ma anche a tutti quanti gli uomini.” (GS 2)
Ancora una volta sorsero difficoltà: vi furono ben 574
interventi di disapprovazione. Le critiche riguardavano il titolo, la forma
letteraria, la poca chiarezza dei contenuti. La discussione si fissò su alcuni
punti particolari: l’ateismo, il matrimonio, la pace e la guerra. Dopo la
discussione conciliare tutti gli interventi furono analizzati da dieci
sottocommissioni che redissero un testo presentato in aula il 13 novembre 1965.
I nuovi esposti furono addirittura ventimila. Il testo fu riscritto totalmente
e poi di nuovo modificato in centinaia dei suoi punti e, tutto ciò in due mesi.
La proclamazione ufficiale avvenne il 4 dicembre 1965. Tre
giorni dopo si chiudeva il Concilio Vaticano II.
Struttura e contenuti della GS
La costituzione pastorale consta di due parti, ma è un tutto
unitario. Viene detta pastorale appunto perché, sulla base di principi
dottrinali, intende esporre l'atteggiamento della Chiesa in rapporto al mondo e
agli uomini d'oggi. Pertanto, né alla prima parte, più dottrinaria, manca
l'intenzione pastorale, né alla seconda, prevalentemente pastorale,
l'intenzione dottrinale.
Nella prima parte, si espone la visione dell'uomo, del mondo
nel quale egli si inserisce, e dei suoi rapporti con tali realtà. Nella
seconda, si prendono più strettamente in considerazione i vari aspetti della
vita e della società umana, le questioni e i problemi che sembravano allora più
urgenti. In questa seconda parte, la materia esaminata non è costituita da
elementi immutabili, ma affronta tematiche storiche contingenti. Perciò la costituzione
dovrà essere letta tenendo conto, specie nella seconda parte, delle circostanze
mutevoli cui sono per loro natura connesse le materie trattate.
Proemio (n. 1-3) - Tra la Chiesa e il genere umano vi è
intima unione. Il Concilio si rivolge a tutti gli uomini: è a servizio
dell'uomo.
Introduzione (n. 4-10) - La condizione dell'uomo nel mondo
contemporaneo (speranze e angosce, profonde trasformazioni delle condizioni di
vita, mutamenti nell’ordine sociale, mutamenti psicologici, morali e religiosi,
squilibri per questi cambiamenti, aspirazioni a una vita piena, interrogativi
profondi del genere umano).
Parte I (n. 11-45) La Chiesa e la vocazione dell'uomo.
Si compone di quattro capitoli che delineano l’antropologia
cristiana, la dottrina sociale, il lavoro, la missione della Chiesa in questo
mondo contemporaneo.
Cap. 1 (n. 12-22) - La dignità della persona umana (l’uomo ad
immagine di Dio, il peccato, la costituzione dell’uomo, dignità e coscienza
morale, il mistero della morte, le sfide dell’ateismo, in Cristo l’uomo nuovo).
Cap. 2 (n. 23-32) - La comunità degli uomini (le
caratteristiche del genere umano: l’indole comunitaria, l’interdipendenza,
promuovere il bene comune, rispetto della persona, rispetto e amore per gli
avversari, uguaglianza di tutti gli uomini e giustizia sociale, superare
l’etica individualistica, responsabilità e partecipazione, verbo incarnato e
solidarietà umana).
Cap. 3 (n. 33-39) - L’attività umana (lavoro) nell’universo (valore
e norme dell’attività umana, autonomia delle realtà terrene, peccato e
perfezione nel mistero pasquale, terra nuova e cielo nuovo).
Cap. 4 (n. 40-45) - La missione della Chiesa nel mondo
contemporaneo (mutua relazione tra Chiesa e mondo, Chiesa a servizio degli
uomini, della società e dell’attività umana, l’aiuto che la Chiesa riceve dal
mondo, Cristo l’alfa e l’omega).
Parte II (n. 46-90) Alcuni problemi umani più urgenti.
Cap. 1 (n. 47-52) - Dignità del matrimonio e della famiglia e
sua valorizzazione (matrimonio e famiglia nel mondo d’oggi, la sua santità,
amore coniugale e fecondità, rispetto della vita, impegno per il bene del
matrimonio e della famiglia).
Cap. 2 (n. 53-62) - Promozione della cultura (natura e
cultura, situazione della cultura nel mondo contemporaneo, stili di vita, difficoltà
e compiti, principi per la promozione della cultura, fede e cultura, molteplici
rapporti tra fede e cultura, diritto ed educazione alla propria cultura, cultura
umana ed insegnamento cristiano)
Cap. 3 (n. 63-72) - Vita economico-sociale (aspetti contemporanei della vita economica,
lo sviluppo economico sotto il controllo dell’uomo, le disparità economiche da
far scomparire, lavoro e tempo libero, impresa e conflitti di lavoro, i beni
sono per tutti gli uomini, attività economica e regno di Cristo).
Cap. 4 (n. 73-76) - La vita della comunità politica (natura e
fine della comunità politica, collaborazione di tutti alla vita pubblica, la
politica e la Chiesa).
Cap. 5 (n. 77-90) - La promozione della pace e la comunità
delle nazioni (natura della pace, la corsa agli armamenti, la condanna della
guerra, pace e giustizia, cooperazione internazionale, il compito dei cristiani
e della Chiesa).
Conclusione (n. 91-93) - Compiti dei singoli fedeli e delle
Chiese particolari. Un mondo da costruire e da condurre al suo fine.
Il contesto storico da cui nasce GS
Come abbiamo visto tutti i documenti del Concilio traggono
ispirazione dalle sollecitazioni provenienti dal contesto storico su alcune
tematiche. Il contesto di riferimento della GS va identificato nell’evoluzione
socio-politica dei due decenni cinquanta e sessanta del Novecento. Le vicende
che caratterizzano questo arco di tempo sono principalmente determinati da un forte
processo di sviluppo materiale in Europa, negli Stati Uniti, nella Russia
sovietica, nella Cina comunista, nell’America latina, la decolonizzazione in
Asia e Africa, la guerra fredda.
Le conseguenze della crescita economica portarono al formarsi
della cosiddetta società dell’abbondanza e del consumismo, con un conseguente accentuarsi
delle disuguaglianze sociali e, sul piano delle relazioni internazionali, lo
svilupparsi di minacce di guerra (ad es. Cuba), di guerre realmente combattute
(ad es. Vietnam) e di processi alterni di distensione tra le grandi potenze del
mondo (Cina-USA-URSS). Era la fine del “lungo dopoguerra” cui sarebbe
subentrata la svolta degli anni settanta, con le sue crisi economiche e sociali
(ad es. il movimento studentesco del ’68, la nascita dei terrorismi, la crisi
petrolifera e l’austerity), e le riprese che faranno svanire l’illusione di un
progresso continuo e inarrestabile, ma anzi porteranno alla ribalta i punti di
debolezza di alcuni sistemi politici.
Tuttavia nei due decenni in considerazione era diffuso un
certo ottimismo sull’evoluzione del mondo, nel segno della distensione tra i blocchi
ideologici, dello sviluppo economico, del rafforzamento della democrazia dopo
la II guerra mondiale, del progresso tecnologico (l’uomo in orbita).
Ecco perché nella GS possono essere ribaditi, con la forza
che le viene da una visione storica fondamentalmente ottimistica, alcuni
principi come quello della dimensione sociale dell’uomo, del valore della
coscienza e della libertà individuali, della stretta connessione tra crescita
della persona e sviluppo della società. Sempre per questo poterono essere presi
in considerazione con occhio positivo i problemi di fondo che si erano aperti
in quella fase storica: quelli relativi al matrimonio e alla famiglia, al
progresso della cultura, alla vita della comunità politica, alla promozione della
pace e della condanna della guerra. Senza però sottovalutare l’esistenza di
situazioni di arretratezza: l’alienazione nel lavoro che genera insoddisfazione
e ribellione, la crescita economica lasciata all’arbitrio di pochi, il ricorso
alla guerra per dirimere contrasti di varia natura, problemi di cui i padri conciliari
sono consapevoli e portavoce, provenendo dalle realtà più varie della terra.
In conclusione, sulla base del presupposto - esplicitamente richiamato
nella GS - che il mondo stesse vivendo una fase di sviluppo e che quindi si stesse
aprendo a prospettive positive, la missione della Chiesa poteva essere individuata
nel cogliere le opportunità che tutto ciò offriva per evitare una chiusura a
riccio nella condanna ed assumere il ruolo di colei che sa dare risposta ai
quesiti fondamentali sul significato della vita e della storia dell’uomo.
I temi emergenti
1.
La condizione dell’uomo nel mondo
contemporaneo
La costituzione pastorale GS ha dunque affrontato lo
spinosissimo tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo. Tema non
del tutto nuovo, come abbiamo già detto in apertura, ma affrontato con una visione
nuova. Dietro l’incoraggiamento ricevuto dalle scelte di Giovanni XXIII, per la
prima volta, la Chiesa riunita in Concilio compie un tentativo di rileggere le
trasformazioni e il volto del mondo moderno accettando, essa stessa, la prospettiva di farsi moderna. Si accorge
così, con grande fatica e grande lavorio, che gli strumenti finora utilizzati
non erano adeguati, ma che aveva bisogno di nuove analisi e di nuovi criteri di
comprensione e valutazione.
Così, proprio il primo capoverso rivoluzionò la lettura
teologica e religiosa tradizionale del mondo, dando conto di una grande attesa
e dei molti rivolgimenti nella storia degli ultimi anni: “Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto
e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze
e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che
non trovi eco nel loro cuore… Perciò la comunità dei cristiani si sente
realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS
1).
Per prima cosa la GS prende in considerazione la condizione
dell’uomo nel mondo contemporaneo. Il centro della ricerca è “l'uomo
considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e
coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra
esposizione” (GS 3) nella prospettiva di offrire “all'umanità la
cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare la fraternità
universale”.
2.
I segni dei tempi
“Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa
di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro
relazioni reciproche” (4). É necessario “conoscere e comprendere il
mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere
spesso drammatico” e quindi “delineare le caratteristiche più rilevanti del
mondo contemporaneo” (4). L’elemento fondamentale che viene colto è il “periodo
nuovo della storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che
progressivamente si estendono all'insieme del globo. Provocati
dall'intelligenza e dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo
stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di
pensare e d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini”. E perciò
esiste una “vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si
ripercuotono anche sulla vita religiosa” (4).
Secondo Karl Rahner, l’espressione “segni dei tempi” (signa temporum) è “una delle
tre o quattro formule più significative del Concilio, al centro dei suoi lavori
come anche all’origine della sua ispirazione”. Essa ha avuto come impatto
quello di aprire la coscienza della Chiesa alla sua dimensione storica in
dialogo con il mondo.
L’espressione “segni
dei tempi”, tratta da Matteo 16,3 circolava già alla fine degli anni ‘40
nell’ambiente teologico francese, in particolare con i teologi Marie Dominique
Chenu e Yves Congar. Essi cercavano di praticare una ricerca teologica più
impregnata di coscienza storica, in dialogo con i contemporanei proprio nel
mentre si riscopriva la dimensione storica della Rivelazione. La loro
metodologia poggiava su una pratica teologica preoccupata di tenere insieme il
dato scritturistico, la Parola nella storia, e i grandi eventi che vedevano
coinvolti cristiani e non cristiani nel mondo. Essi si proponevano di partire
dal vissuto, più che da tesi dogmatiche, per lasciarsi da esso interrogare e
promuoverlo ai valori evangelici.
In termini allusivi, l’espressione compare nella Bolla
di convocazione del Concilio, Humanae
salutis, del 25 dicembre 1961. Giovanni XXIII l’assunse, pur senza
nominarla, come struttura base dell’enciclica Pacem in terris dell’11
aprile 1963. Infatti alla fine di ciascuna delle quattro grandi sezioni,
Giovanni XXIII enumera una serie di “segni”:
1. Nell’ambito dei rapporti umani, segnala la promozione
economica e sociale delle classi lavoratrici, l’entrata della donna nella vita
pubblica, la fine del colonialismo;
2. Nell’ambito dei rapporti tra le comunità politiche:
una accresciuta coscienza dell’unità tra i popoli;
3. Circa i rapporti con la comunità mondiale: la Dichiarazione
dei diritti dell’uomo.
Ma è nei testi conciliari che l’espressione e la sua
nozione ha fatto la sua entrata decisiva. La GS ne fa appunto un uso esplicito
al n. 4, dove si può leggere: “Per
svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i
segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un
modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi
degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco
rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo
nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche”.
Paolo VI riprende l’espressione nella sua enciclica
sul dialogo Ecclesiam suam, per
indicare che il suo pontificato s’inscrive nella linea dell’aggiornamento di
Giovanni XXIII e del Concilio: “E noi lo
ricorderemo per stimolare nella Chiesa la vitalità sempre rinascente,
l’attenzione costantemente sveglia ai “segni dei tempi”, l’apertura sempre
giovane che sappia “verificare ogni cosa e ritenere ciò che è buono” (1Tes
5, 21).
Giovanni XXIII aveva impiegato l’espressione “segni
dei tempi” per sottolineare che molti cambiamenti si erano introdotti nella
vita degli uomini, cambiamenti di cui la Chiesa doveva tener conto per
annunciare il vangelo. Per il papa, l’attenzione ai “segni dei tempi” non era
tanto una specie di miglioramento facoltativo dell’attività della Chiesa ma una
necessità intrinseca della sua missione, un dovere che gli veniva dalla sua
“eterna giovinezza”.
Si è talvolta ironizzato su questi famosi “segni dei
tempi”. Qualcuno ha denunciato come in bocca a Gesù essi abbiano un sapore
fortemente escatologico: essi annunciano i tempi ultimi, il giorno del
giudizio, mentre per il papa e per il Concilio essi mirerebbero soprattutto ad
adattare la Chiesa per renderla meglio accettabile in un mondo che si allontana
sempre più da lei o che addirittura la respinge.
Ma in realtà scrutare i “segni dei tempi” vuol dire
principalmente cogliere quelle tracce che indicano l’azione di Dio nella
storia, dove egli lavora per condurre gli uomini al di là della storia e dove,
per mezzo di Cristo risorto, agisce nel più profondo di ogni uomo. La Chiesa
pertanto si pone nell’attitudine, non solo di dare, ma di “ricevere dalla
storia e dalla evoluzione del genere umano” (GS 44). I segni dei tempi
infatti, nella bocca di Gesù, sono per tutti i membri del Popolo di Dio. Il
segno di Giona è dato a tutto Israele: “Diceva alle folle…, sapete giudicare
l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”
In un secolo segnato dalla forma più organizzata della
violenza, ben due guerre mondiali e tante regionali, come individuare dei
“segni” capaci di orientare alla costruzione di una società del bene e della
pace? E in questa società, gli uomini sono in grado di intravedere un compito
che vada al di là dei loro desideri individuali? Una umanità che ha la pretesa
di costruirsi da sola, è in grado di aprirsi al perdono e al dono di Dio o si
opporrà a lui con tutte le sue forze?
Ebbene, i testi conciliari segnalano una molteplicità
di segni dei tempi (GS 4), riconducibili fondamentalmente a tre: l’unità, la
libertà, l’efficacia dell’attività umana.
1) Il
Concilio insiste di preferenza sull’unità. Un cenno lo si trova già nel
primo numero della costituzione Lumen
Gentium sulla Chiesa. Il Concilio constata che gli uomini sono “ormai più strettamente congiunti tra loro da
vari vincoli sociali, tecnici e culturali”. Il tema della
“mondializzazione“ o della “globalizzazione” era già presente alla coscienza
dei padri conciliari: malgrado la divisione del mondo in due blocchi ideologici
contrapposti, lo sviluppo tecnico spingeva ineluttabilmente verso una
interdipendenza tra gli uomini mai conosciuta né immaginata fino allora.
Vedendo in ciò un segno dei tempi, il Concilio non si accontenta di registrare
materialmente il fatto: vi riconosce una aspirazione dell’umanità. Non ignora
certo i fattori di divisione, d’incomprensione, di odio che giocano pure nella
storia degli uomini e che non mancavano negli anni ’60, ma l’aspirazione
all’unità diventa qualcosa di concreto, un compito quotidiano. Ne deriva una
duplice sfida alla Chiesa: ad extra, aiutare gli uomini a non accontentarsi
di una unità materiale, economica, finanziaria, tecnica ma mirare all’unità
delle libertà che solo Cristo può procurare; ad intra, che la Chiesa sia
essa stessa il segno più limpido dell’unità nella quale il suo Signore vuole
riunire gli uomini.
2) Il
secondo segno dei tempi è la libertà. All’indomani delle due guerre
mondiali, la libertà diventa la grande rivendicazione degli uomini, di tutti
gli uomini e in tutti gli ambiti dell’esistenza: libertà morale, libertà
economica, libertà sociale e politica. Gli uomini non sopportano più di essere
guidati come dei bambini, in nessun ambito. Si sa come tale rivendicazione è
esposta alla gelosia e alla violenza, al rifiuto di ogni obbedienza. Vedervi un
segno dei tempi, non vuol dire trascurare ciò che c’è di pericoloso in tale
aspirazione, tuttavia essa rinvia a quella libertà spirituale che Dio vuole per
tutti gli uomini e che il Cristo è venuto a rendere possibile malgrado il
peccato. Un duplice compito dunque per la Chiesa: incoraggiare gli uomini a ricercare
fino in fondo che cosa vuol dire essere liberi, liberandosi da ogni forma di
obbedienza che non sia obbedienza a Dio; essere a sua volta una comunità di
libertà in una risposta sempre più piena a Dio che si rivela.
3)
All’origine di queste due caratteristiche dei tempi nuovi c’è un terzo fattore
decisivo: l’incredibile efficacia dell’attività umana. L’uomo
contemporaneo non si accontenta più di subire la sua sorte, cercando di
migliorarla come può, spesso a danno degli altri; egli prende in mano la sua
situazione e costruisce la sua vita dispiegando una ingegnosità inimmaginabile
che gli permette di costruire il suo destino in ogni ambito: la politica
diventa una costruzione della ragione e della volontà e non più il risultato
della storia; la salute diventa la conquista di ogni istante e non un dono del
cielo mal distribuito; le ricchezze si moltiplicano e si pensa possano essere
partecipate a tutti. Sì, si tratta di un segno dei tempi e la Chiesa si sente
rilanciata nella sua missione se è vero che gli uomini non ricorrono più a Dio
per far fronte alla loro precarietà. Convinzione formidabile della Chiesa: Dio
non prospera nella miseria umana.
Individuare questi “segni dei tempi”, “scrutarli” (GS
4) è per la Chiesa credere che il tempo non è un fattore di degrado, che la
storia non va letta come una lenta decadenza dopo un vertice romanticamente
situato sempre nel passato. E’ invece riconoscere “la fecondità della durata” (Henri de Lubac).
La Chiesa, afferma la GS, deve avere il coraggio dell’analisi
del proprio tempo e misurarcisi, pronta a ripensarsi e a rileggersi in termini
nuovi poiché il messaggio che porta è per l’uomo e la donna concreti e storici.
Esistono perciò profonde mutazioni (5) nell'ordine sociale (6), mutamenti
psicologici, morali e religiosi (7). Esistono squilibri nel mondo contemporaneo
(8). Eppure si allargano le aspirazioni sempre più universali dell'umanità (9).
Sono condivisibili o meno queste letture ma lo sforzo di guardare e di
misurarsi con le persone e i problemi concreti resta intatto e di grande
spessore.
3.
Il dialogo come modo di essere della Chiesa.
Questa costituzione è una sorpresa nella storia della Chiesa
soprattutto perché essa esprime a
volontà di capire l’umanità e il suo cammino e quindi di giocarsi su ciò che è
soggetto al tempo, alle trasformazioni e quindi mutevole. Per questo è un
documento pastorale poiché vuole accompagnare uomini e donne nelle loro “gioie
e le speranze, le tristezze e le angosce” (1) e quindi assoggettarsi a ciò
che cambia: “Si tratta di realtà soggette a continua evoluzione.” Non
teme quindi di sentire il proprio insegnamento imperfetto e povero: “L'insegnamento
presentato qui dovrà essere continuato ed ampliato” (91). Si rinuncia ad
utilizzare prioritariamente le categorie dell’immutabilità e della definitività,
ma quella del dialogo, necessario per trovare la verità di sé e del mondo in un
contesto di mutabilità storica.
Il dialogo è uno dei concetti fondamentali del Concilio
Vaticano II e delle discussioni post-conciliari (cf. n. 3, 19, 21, 25, 40, 43,
56, 85, 90, 92). Come indicato da Papa Paolo VI nella sua prima Enciclica Ecclesiam suam (1964), il dialogo entra
nella vita interna della Chiesa, nel rapporto con le altre Chiese e Comunità
ecclesiali, con le religioni non cristiane e con il mondo d’oggi.
È da notare come parlando degli aspetti negativi del mondo la
costituzione dia prova di autocritica, elemento necessario perché vi sia
dialogo. Essa non vede la colpa soltanto negli altri, ma riconosce la
corresponsabilità dei cristiani, per esempio nel fenomeno dell’ateismo moderno:
“nella genesi dell'ateismo possono
contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di
educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od
anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve
dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e
della religione.” (GS 19).
Il metodo di ricerca dialogico sembrò ingenuo sia durante che
dopo il Concilio e, per tutto il tempo, si accusò il Concilio di irenismo, di
esuberante ottimismo, di ingenuità. Certamente fu difficile approcciare la
realtà con questo metodo inusuale, era la prima volta che esso veniva applicato.
Si proponeva di operare con creatività e simpatia la lettura del mondo moderno
che era stato invece sempre allontanato con atteggiamento di rifiuto. Una idea
tipicamente giovannea, ripresa nelle conclusioni di GS, lo esprimeva bene: “Sono
più forti, infatti, le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono; ci
sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità”
(GS 92).
Ha prevalso “il desiderio di stabilire un dialogo che non
esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non
ne riconoscano ancora l'autore, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la
perseguitano in diverse maniere” (92).
Con il metodo del dialogo si poneva di conseguenza anche il
problema del linguaggio. Utilizzare le categorie delle scienze, come è
avvenuto nella parte introduttiva, per la Chiesa è stata una scelta coraggiosa
poiché si entrava in una ricerca scientifica, anche se sommaria. Ma poi si è usato
il linguaggio corrente, capace di farsi intendere. E’ povero, certamente, e non
si sono viste molte citazioni bibliche a cui siamo abituati così come, nel
primo fondamentale capitolo della “Chiesa nel mondo”, non si è usata la
parola “Chiesa”, ma frasi scelte come “i discepoli di Cristo” o “la
comunità degli uomini che sono uniti in Cristo”. E’ un linguaggio per tutti
gli uomini e di tutti i giorni, carico di attenzione e di saggezza, attento a
ciò che l’altro intende e dice perché ci siano comprensioni corrette.
4. La dimensione cristologica
La dimensione cristologica è sempre presente in GS.
Di per sé non si voleva fare un discorso dottrinario, poiché
si trattava di un ambito eminentemente dialogico, più che affermativo
dogmatico, ma si è tentato comunque di operare un incontro con l’uomo moderno
sulla base di elementi sapienziali condivisibili anche dagli altri. Alla fine però
ci si è preoccupati di richiamare, come conclusione di un itinerario di ricerca
comune, l’immagine di Cristo che non si imponeva a priori, come premessa del
discorso, ma veniva presentato come il testimone più vero di un’umanità
autentica.
In questo senso il modo in cui il Concilio affronta tali
tematiche basilari è sorprendentemente nuovo. Di fatto, esso non ricorre al
fondamento della legge naturale, che, stando alla dottrina teologica tradizionale,
è in principio riconosciuta da tutti gli uomini e costituisce di conseguenza un
ponte d’intesa tra i credenti e i non credenti, come anche tra i fedeli di
religioni diverse. Il Concilio sceglie un’altra strada. Non mette in primo
piano i cosiddetti preambula fidei, i
presupposti naturali della fede, ma il centrum
fidei, il cuore della fede che è la persona di Gesù Cristo. Questa
prospettiva trova il suo fondamento principalmente in Col 1,15-20: “…per mezzo di lui sono state create tutte le
cose… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”
(cf. Gv 1,3; Ef 1,3-10; Eb 1,2). Alla fine dell’introduzione, la GS afferma in
modo programmatico: “la Chiesa crede che
Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito,
luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione… Essa crede anche di
trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la
storia umana… Così nella luce di Cristo… il Concilio intende rivolgersi a tutti
per illustrare il mistero dell'uomo e per cooperare nella ricerca di una
soluzione ai principali problemi del nostro tempo” (GS 10).
Sulla base di tale convinzione fondamentale il Concilio
intraprende una doppia riflessione. Da una parte vuole leggere i “segni dei tempi” alla luce del Vangelo
(cf. GS 3-s, 10-s, 22, 40, 42-s, ecc.), dall’altra vuole accettare la sfida che
essi rappresentano alla responsabilità terrena dell’uomo e interrogarsi su di
essi, per giungere ad una comprensione più approfondita proprio dello stesso messaggio
evangelico (cf. GS 40, 44, 62). Si tratta dunque di un’interpretazione del
mondo, dell’uomo, ma anche del Vangelo che si realizza man mano nella storia
grazie ad un atteggiamento dialogante.
5. La dimensione “laica” della vita
Viene riconosciuta una grande responsabilità ed autonomia ai laici
“negli impegni ed attività temporali”, agendo individualmente e in modo associato
da cittadini del mondo, vengono garantiti il pieno rispetto dell’attività di
ciascuno e la sua grande dignità. E tuttavia ci sono pericoli di dissociazione
tra fede e vita quotidiana, “uno tra i più gravi errori del nostro tempo…
Sono in errore coloro che pensano di potersi immergere talmente nelle attività
terrene, come se queste fossero del tutto estranee alla vita religiosa, la
quale consisterebbe, secondo loro, esclusivamente in atti di culto e in alcuni
doveri morali”.
Con la GS il Concilio si oppone a tutti i tentativi
laicistici di limitare il campo d’azione e d’interesse della Chiesa a faccende
meramente interne, relegandola per così dire alla “sacrestia”. La Chiesa però, afferma
GS, non si lascia ghettizzare e ridurre ad una dimensione puramente intima e
personale; essa rivendica una voce pubblica. E la rivendica non per la difesa
del proprio interesse, ma nell’interesse degli uomini. Dice infatti: “È
l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e
anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di
tutta la nostra esposizione” (GS 3). Il Concilio si interroga sulle
questioni fondamentali dell’esistenza: “Cos'è l'uomo? Qual è il significato
del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni
progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta
l'uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa
vita?” (GS 10).
6. Autonomia del mondo
La costituzione vuole cancellare la dicotomia tra fede e vita
quotidiana, dicotomia che, a suo parere, rappresenta uno delle realtà più
erronee e dannose dei tempi moderni (cf. n. 42). Più tardi Papa Paolo VI nella
sua Lettera apostolica Evangelium
nuntiandi (1975) ha costatato che “La rottura tra vangelo e cultura è
senza dubbio il dramma della nostra epoca” (n. 20). Ma per eliminare questa
frattura non si cerca di riappropriarsi della sfera secolare, come di uno
spazio da rioccupare, per farla ricadere sotto il “controllo” di quella
religiosa, ma si riconosce l’autonomia dell’universo secolare con cui la fede
deve entrare in un dialogo proficuo per trasformarlo dall’interno.
La GS riconosce quindi l’autonomia legittima delle realtà terrene
(cf. n. 36, 41, 56, 76), affermando che “le cose create e le stesse società
hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e
ordinare”. Per il Concilio, tale riconoscimento non solo rappresenta una
sfida per l’uomo del nostro tempo che gli impone l’assunzione di responsabilità,
ma rispecchia anche la vera realtà di tutte le cose create, che hanno “la
loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine”
(n. 36). Da ciò deriva il riconoscimento dell’autonomia legittima della
scienza, della cultura e della politica; quest’autonomia legittima non
significa che la fede non può dire nulla ad esse, ma deve rapportarvisi con il
dialogo e non con la negazione e la riaffermazione acritica e autoritativa di
sé.
Con tali affermazioni, la costituzione riconosce la
legittimità di fondo della rivendicazione dell’Illuminismo della legittimità
dell’uso della ragione contro ogni forma di dogmatismo oscurantista, ed uno dei
desideri legittimi della secolarizzazione moderna. Il Concilio mette fine così
ad un triste capitolo della più recente storia della Chiesa. Esso respinge
l’integralismo che, volendo trarre una risposta uniforme ed automatica dai
principi della fede per le questioni del mondo, ha spesso causato conflitti
totalmente inutili e nella maggior parte dei casi insensati con le scienze, le
coscienze, la cultura e la politica moderne.
Il riconoscimento della legittima autonomia delle diverse
realtà in cui vive l’uomo in questo mondo è centrale per fondare la libertà e
responsabilità dei laici nella Chiesa; perché sono loro gli esperti in
questi vari campi e che dispongono delle competenze necessarie per il cui impiego
il Vangelo è fonte di “luci e forze”,
anche se non direttamente fonte di conoscenza (n. 42). I pastori debbono dunque
riconoscere con rispetto la giusta libertà dei laici nella Chiesa (Lumen gentium 37).
Sempre nella linea delle responsabilità dei laici, l’attenzione
a non strumentalizzare la religione per proprie vedute ideologiche è una
preziosa libertà che riconsegna a ciascuno il compito e la creatività di
operare nel mondo. “Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall'altro,
anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate
con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il
diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione
l'autorità della Chiesa” (43).
a.
Conseguenza I: il valore del bene
comune e della giustizia
Sul bene comune GS insiste molto, poiché è la misura che
motiva la giustizia ed apre alle
responsabilità e quindi alla carità. Sotto questa angolatura va letta
l’affermazione di grande dignità: “La Chiesa non pone la sua speranza nei
privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà
all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il
loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove
circostanze esigessero altre disposizioni”. In fondo il mondo dei poveri ha
soprattutto bisogno di amici leali più che amici ricchi poiché il primo
rapporto crea un cammino comune e il secondo lascia lontani gli uni dagli altri
(76).
La GS ha aperto la strada a grandi speranze che maturarono,
in particolare, soprattutto nell’ambiente di oppressione dell’America latina. Partire
dal discernimento della realtà più che dai principi fu l’eredità della GS che ispirò
la prima conferenza delle chiese latino-americana e di Medellin (1968) in cui
si denunciarono lo sfruttamento e la dipendenza dei popoli latino-americani da
parte delle economie ricche. La GS ricorda che l’aspirazione alla liberazione
dell’uomo “passa soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale”
(20). Nasce da questa lotta contro la povertà e gli abusi e dalla volontà di
sradicare l’ateismo la “Teologia della
liberazione” attraverso cui, tra diverse vicende non tutte ortodosse, è
passato il risveglio di un cristianesimo vivo, di una rilettura della Parola di
Dio, di una consapevolezza della realtà dei popoli indigenti.
Sulla stessa dimensione si colloca il tema della promozione
dei diritti umani e la condanna di ogni forma di discriminazione (cf. n. 21,
26, 29, 41 s, 59, 73, 76). La decisione del Concilio di compiere tale passo
trova il suo fondamento ancora una volta nella creazione, ovvero nel fatto che
Dio abbia creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,27) (cf. n. 12).
In conformità con la sua concezione cristocentrica, la costituzione aggiunge a
questo argomento tradizionale, che solamente in Gesù Cristo il mistero
dell’uomo trova la vera luce. “Cristo,
che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela
anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”
(n. 22).
b.
Conseguenza II: la libertà religiosa
Un’altra importante conseguenza tratta dal Concilio da questa
attitudine trova la sua espressione più chiara nella dichiarazione sulla libertà
religiosa, Dignitatis humanae,
intorno alla quale si sono accese le più vive discussioni nell’aula conciliare.
Di fatti, la libertà di coscienza e di religione erano state condannate
espressamente dai pontefici del XIX secolo, secondo una concezione liberale che
non riconosceva il nesso tra libertà e verità, nesso che invece il Concilio
ritiene essenziale. Con Dignitatis
humanae il Concilio mette fine a tali opinioni del passato, sottolineando
la positività della crescente importanza attribuita alla libertà nei tempi moderni
ed ammettendo che non esiste soltanto un diritto della verità ad esprimersi, ma
anche un diritto della persona e che la verità può essere riconosciuta soltanto
nella libertà. Con ciò, il Concilio congeda la dottrina del cosiddetto ‘stato
cattolico’ e getta le basi per il riconoscimento della democrazia pluralistica
moderna.
La posizione storica assunta dal Concilio in merito ai due
aspetti sopracitati è un punto di riferimento fondamentale che permette alla Chiesa
ed al singolo cristiano di dirsi e di sentirsi “a casa” nella realtà moderna.
Finita è la nostalgia romantica del medioevo e della sua cultura unitaria;
finita è la mentalità restauratrice impostasi dopo la rivoluzione francese;
finito è anche il tristemente zelante antimodernismo della fine del XIX e dell’inizio
del XX secolo.
7.
Le tematiche sociali
È vero, il magistero si era già espresso su tematiche
specifiche e su questioni sociali come il matrimonio e la famiglia, la guerra e
la pace. Però con la GS è stato abbandonato l’atteggiamento difensivo e
restauratore assunto dalla Chiesa a partire dalla rivoluzione francese. Il Concilio
si è sforzato di superare, nei confronti della società, visioni ormai obsolete,
che erano il risultato di specifiche condizioni storiche, e ha cercato di gettare
i fondamenti di una nuova inculturazione del cristianesimo nel mondo moderno.
Questo nuovo approccio costruttivo e dialogico non era
acritico e ingenuo; si potrebbe piuttosto parlare di una posizione profetica
alla luce del vangelo di Gesù Cristo. In questo senso la costituzione ha
aderito ad una realtà post-illuminista, libera e democratica, riconoscendo
concretamente la legittima autonomia della cultura, dei diritti umani, della
libertà di coscienza e di religione. Ma non lo ha fatto tanto per adeguarsi
alla situazione. I passi che ha intrapreso, non li ha compiuti per accettare
sviluppi che avevano già avuto luogo, ma li ha compiuti entrando in dialogo con
una realtà che aveva fatto propri questi principi, senza rinunciare ad uno
sguardo critico. La GS ha ribadito che noi cristiani non abbiamo nessun motivo
di giudicare gli sviluppi moderni soltanto in modo negativo, secondo un’ottica
parziale e generalizzante. È bene allora seguire l’invito dell’Apostolo Paolo:
“Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è
buono” (1Tess 5,21).
Il nuovo contenuto della costituzione rispecchia un nuovo
metodo ed una nuova forma dei documenti magisteriali. Lo “stile pontificale”
delle precedenti encicliche è stato abbandonato e se ne è adottato un altro,
non più astratto e deduttivo ma empirico e concreto nell’argomentazione, uno
stile dialogico basato su un linguaggio più profetico. Papa Giovanni Paolo II
nelle sue numerose encicliche ha fatto suo questo stile, conferendogli il
proprio carattere. Anche da questo punto di vista, non è possibile invertire la
marcia e ritornare indietro, al passato.
Quale validità della GS oggi?
Dopo i grandissimi cambiamenti nel corso degli ultimi cinquant’anni
ci dobbiamo chiedere quale sia oggi il significato della GS: non parla ad un
mondo e di un mondo diverso dal nostro e ormai scomparso? Non è, cioè, un pezzo
di storia divenuto ormai anacronistico?
Certamente la realtà è cambiata, ma la GS ha segnato un punto
di non ritorno e sempre valido.
I metodi ed i principi fondamentali della costituzione sono
ancora validi, ma devono essere riferiti alla situazione attuale e applicati ad
essa nuovamente in modo profetico. Non si tratta più solamente di dare spazio
alle legittime intenzioni dell’epoca moderna, ma piuttosto di difenderne e
salvaguardarne il valore dalla loro deriva autodistruttiva.
In questo senso la Chiesa di oggi non è l’avversario ma l’alleato
della libertà, sorella gemella della verità. In questo senso siamo oggi non
solo – come il Concilio disse – testimoni della nascita d’un nuovo umanesimo
(n. 55) ma anche combattenti per un nuovo umanesimo e una nuova cultura della
vita, della solidarietà e dell’amore che di tempo in tempo si devono elaborare
e realizzare. Siamo confrontati da questioni che vanno ben oltre la costituzione
pastorale ed il cui chiarimento necessita un’ulteriore, approfondita
riflessione, una riflessione che GS non ha potuto naturalmente fornire.
È necessario rileggere la costituzione pastorale GS
riferendosi ai principi che essa ha indicato e che devono essere ulteriormente
sviluppati con pazienza e con determinazione tramite un lavoro approfondito,
affinché possano essere applicati coraggiosamente alla nuova situazione, in modo
sia costruttivo che critico.
Paolo VI nel discorso di chiusura del Concilio (7 dicembre
1965) osservava circa l’itinerario della GS: “non possiamo trascurare un’osservazione capitale del significato
religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio
del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito
il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di
servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi
inseguirla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento,
determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli,
nel secolo scorso ed in questo specialmente, fra la Chiesa e la civiltà
profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa,
è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da
suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al
mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni
contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo
ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno
dell’orientamento religioso del Concilio medesimo”.
E guardando in profondità, commentava: “La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la
religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno
scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica
storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una
simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto
maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito
l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti
moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscete il
nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo”.
[1]
Mater et Magistra è il titolo dell'enciclica sociale promulgata il 15 maggio 1961 nella quale papa Giovanni XXIII ha ripreso ed ampliato il tradizionale
insegnamento della Chiesa cattolica in ordine ai problemi sociali. Nel documento, che ha dato nuovo impulso
all'attività dei cattolici, il Papa sviluppa le tesi già esposte nella Rerum Novarum di papa Leone XIII, nella Quadragesimo Anno di papa Pio XI, in relazione anche ai problemi più attuali. Di particolare valore è la
riaffermazione del valore della persona e della libertà economica, ma insieme della perfetta liceità
della tendenza alla socializzazione, purché attuata nel rispetto dei diritti
della persona. Notevole è anche la parte che affronta i problemi agricoli e quelli della decolonizzazione e degli aiuti ai Paesi
sottosviluppati all'insegna del solidarismo internazionale.
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