“Piacque a Dio rivelarsi in persona”
La centralità della
Parola di Dio nella vita del cristiano.
La costituzione Dei Verbum
Il 18 novembre 1965 veniva promulgata la Costituzione
Dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum
(DV), la più breve delle quattro Costituzioni conciliari del Vaticano II.
Questo testo è stato giudicato in modo entusiasta. È stato
ritenuto “uno dei testi meglio redatti
del Concilio”, forse addirittura il suo “capolavoro”, il “portale di ingresso
e fondamento dell'edificio teologico del Vaticano” (Henri de Lubac)[1].
Un altro importante teologo, Oscar Cullmann, ritiene che la DV sia il documento
più importante di tutto quanto il Concilio, mentre per Karl Rahner ed Herbert
Vorgrimler essa fu il documento decisivo con il quale il Vaticano II trovò una
coscienza chiara di sé. Il teologo italiano Giuseppe Dossetti ha scritto che il
capitolo primo della DV è “da tutti
riconosciuto come l'insegnamento più innovatore e più riuscito del Vaticano II”[2]. Con una qualche enfasi è stato
detto pure che la DV è il “documento
fonte”[3], e che tutto il messaggio del
Vaticano II si riassume in esso[4].
Bisogna anche dire che la DV ha avuto la storia più
travagliata di tutti i documenti conciliari. Infatti occorsero ben cinque
stesure per arrivare al testo finale e le prime due redazioni, in particolare,
vennero rifiutate e riscritte da capo. Questo lavoro ha occupato l'intero arco
dei lavori del Vaticano II con fasi molto difficili[5].
Così si possono schematicamente dividere le fasi di
elaborazione:
0. Dalla consultazione previa dell’episcopato cattolico, i
dicasteri della Curia romana e le facoltà teologiche e canoniche emerse il
desiderio che il futuro Concilio si occupasse dei temi riguardanti la Scrittura,
la tradizione, la fede e i costumi. Proprio con questo nome, venne costituita
da Giovanni XXIII una commissione teologica (5 giugno 1960, Superno Dei Nutu) incaricata di
elaborare lo schema sulle questioni riguardanti “la Sacra Scrittura, la Sacra Tradizione, la fede e i costumi”.
1. Lo schema preparato da questa commissione fu presentato nella
prima sessione del Concilio (1962), con il significativo titolo Le fonti della Rivelazione (De fontibus revelationis). Il plurale fonti alludeva ad una dualità di fonti: la
Scrittura e la Tradizione, concepite come separate e indipendenti l’una
dall’altra, seguendo la dottrina del Concilio di Trento. Il 19 novembre 1962 a
larga maggioranza (1386 voti contro, 822 a favore e 19 nulli) lo schema venne
rifiutato. Secondo il Regolamento, per respingere uno schema in maniera
definitiva (e costringere a riscriverlo occorreva raggiungere il quorum dei 2/3, ma esso non era stato
raggiunto. Allora Giovanni XXIII, rendendosi conto della forte contrarietà dei
padri conciliari, ritirò lo schema De
fontibus Revelationis e dispose che fosse demandata ad una nuova
Commissione preparatoria la sua riscrittura. [6]
2. La nuova commissione fallì il suo primo tentativo nel
1963: il testo inviato ai padri dal titolo La
salvaguardia del deposito della fede, ebbe ben 2481 proposte di
emendamenti.
3. Venne ricomposta la commissione speciale, con
l’introduzione di nuovi “periti” (tra cui il giovane prof. Ratzinger); la
redazione di questo secondo testo si avvicinò a quello che porterà alla redazione
finale della Dei Verbum. Discussa nel
1964, nel corso della terza sessione del Concilio, suscitò numerosi rilievi, ma
non più una forte opposizione, come in precedenza.
4. Dopo un’accurata revisione, il testo venne sottoposto a
votazione nel 1965, nel corso della quarta e ultima sessione conciliare. I 1498
“placet iuxta modum” resero
necessaria un’ulteriore revisione.
5. In quest’ultimo passaggio, il testo prese il suo titolo
definitivo Dei Verbum. Il voto fu
espresso il 18 novembre 1965, a meno di tre settimane dalla fine del Concilio.
Si registrarono solo 6 voti contrari sui 2350 votanti.
Questa travagliata storia della stesura del testo ci fa
comprendere la portata di questo documento conciliare che chiama in causa
questioni nodali della fede cattolica che suscitarono un acceso dibattito. Come
già abbiamo rilevato in altri casi, non si può comprendere il lungo travaglio
della Dei Verbum riducendo la
questione a tensioni tra conservatori e progressisti. In realtà erano in gioco
questioni di fondamentale importanza e il fatto di aver proceduto a ben cinque
redazioni ha permesso di approfondire il tema, consentendo al documento
conclusivo di usufruire del meglio dei dibattiti svolti nell’ambito del
Concilio e nello studio e riflessione che lo avevano accompagnato e preceduto.
Bisogna altresì notare come in questo documento i Padri
conciliari siano rimasti fedeli a quel cosiddetto “indirizzo pastorale” che ha
animato l’intero Vaticano II. Infatti i temi dottrinali non sono stati scelti e
trattati contro gli oppositori, con intenti apologetici, ma piuttosto con il
desiderio di suscitare nei cristiani una riflessione ed una presa di coscienza.
Lo scopo è attrarli verso un nuovo modo di approcciare e amare la Scrittura per
farne il fondamento della loro vita, non quello di combattere qualche idea
errata.
Il rapporto dei cristiani cattolici
con la Scrittura prima del Concilio
Per mettere a fuoco il rapporto dei cattolici con la
Scrittura prima del Concilio bisogna risalire a prima della Riforma
protestante. Il punto di partenza è l'invenzione della stampa a caratteri
mobili che produsse come primo libro, alla metà del XV secolo, proprio una
Bibbia. Essa, in questo modo, iniziò così a godere di una più ampia diffusione.
Da allora essa poteva finire nella mani di molti e la sua lettura e studio poteva
avvenire anche fuori degli ambiti “controllati” dalla Chiesa: liturgia,
predicazione, insegnamento ecclesiastico, ecc… Ciò suscitò una grande
opposizione nella Chiesa cattolica. Con l'Umanesimo e il suo interesse per la
filologia ci furono edizioni della Bibbia in lingua originale e le prime
edizioni critiche, come quella famosa del Nuovo Testamento ad opera di Erasmo
da Rotterdam nel 1516.
A questo elemento si aggiunse, e in parte ne fu una
conseguenza, il movimento della Riforma protestante che farà del ritorno alla
Bibbia un proprio caposaldo. Nella polemica cattolica contro la Riforma, che va
sotto il nome di “Controriforma” e che ha
nel Concilio di Trento (1545-1563) un suo punto forte, le posizioni si vennero
a polarizzare, raggiungendo gli opposti estremi. Mentre la Riforma infatti con
il principio della “Sola Scriptura” affermava che la salvezza dell’uomo
è rivelata solo ed esclusivamente dalla Bibbia e tutto il resto erano aggiunte
di tipo umano inutili per la salvezza (cioè i dogmi, i sacramenti, la
gerarchia, i riti, le dottrine, ecc…, cioè tutto ciò che in una parola si
definiva la “Tradizione”), la Controriforma si contrappose per reazione affermando
come la Scrittura da sola non contenesse tutto ciò che è necessario alla
salvezza dell’uomo, ma che la Tradizione elaborata successivamente e venutasi a
stratificare nel corso dei secoli fosse di per sé più utile, tanto da mettere
quasi in ombra la Scrittura, per giungere alla situazione che verrà descritta
in cui essa giunse ad essere quasi guardata con sospetto e trascurata.
Umanesimo e Riforma, abbiamo detto, favorirono pertanto la
diffusione della Bibbia presso il popolo cristiano mediante traduzioni che la
resero accessibile a molti ed edizioni critiche che risposero alle esigenze
intellettuali dei più colti.
Il Concilio di Trento reagì duramente a questa nuova
situazione, affermando l'autorità assoluta della versione latina della Bibbia
detta Vulgata, ed esprimendo un forte
freno alle traduzioni in lingua volgare. Ad esempio, sempre a Trento, il
cardinale spagnolo Pacheco affermò che l'origine di ogni eresia era nelle
traduzioni bibliche.
Con la promulgazione dell'Indice
dei libri proibiti di Pio IV, del 1564, fu sancito che: “In linea generale è proibita ai laici la lettura
della Sacra Scrittura in traduzioni moderne. Risulta chiaramente
dall'esperienza, infatti, che, se si consente a chiunque di leggere la
Scrittura nelle lingue volgari, ne conseguono più danni che vantaggi, a causa
della temerarietà degli esseri umani. Soltanto in casi eccezionali,
precisamente regolamentati, i vescovi e gli inquisitori possono accordare delle
dispense da questa norma. È prevista una sanzione anche per i tipografi”. Questa
regola sarà resa ancora più restrittiva da Sisto V nel 1590 e da Clemente VIII
nel 1596, il quale ritirò “a vescovi,
inquisitori e superiori regolari il potere di permettere di acquistare, leggere
o possedere delle Bibbie in lingua volgare”, riservandolo alla Santa Sede.
Le cose sono rimaste all’incirca così almeno fino alla metà
del XVIII secolo, quando è stata concessa la possibilità di riferirsi a
versioni bibliche autorizzate e annotate. Eppure ancora nel XIX e XX secolo
l'atteggiamento diffuso è quello "prudente", ispirato all'idea che la
lettura della Bibbia non sia necessaria alla salvezza e che spesso sia
addirittura nociva e pericolosa.
Quindi nel periodo che va dal XVI secolo fino al Vaticano II
la Bibbia è essenzialmente un libro riservato al clero, mentre i semplici
fedeli vi hanno un accesso indiretto e mediato principalmente da tre elementi:
la liturgia, la predicazione e il catechismo. Si potrebbe aggiungere anche
l'agiografia, poiché attraverso le vite dei santi, letteratura molto diffusa,
passava anche qualche cenno alla Scrittura.
Vediamo come questi canali mediavano l’accesso dei fedeli
comuni alla Bibbia.
La liturgia
Nella liturgia, la Bibbia veniva letta in latino. Solo il
testo della Vulgata, stabilisce il Concilio di Trento, "deve essere considerata come autentica nelle
pubbliche letture, nelle dispute, nella predicazione"[7].
Inoltre fin dal Missale Romanum
promulgato da Pio V nel 1570 le letture bibliche della liturgia romana erano
scarse e ripetitive. Prima del Vaticano II e della riforma liturgica esse si
ripetevano ogni anno e comprendevano un numero irrisorio di testi dell'AT e una
proporzione di passi del NT che è stata calcolata nella misura del 13% del
totale del NT. Nulla a che vedere, sotto questo aspetto, con la situazione
attuale, in cui la scansione triennale dei cicli propone una grande ricchezza e
varietà di brani scritturistici.
La predicazione
Il secondo elemento che mediava la Scrittura era la
predicazione. Il Concilio di Trento ha prescritto che la predicazione del
Vangelo è il “dovere principale dei vescovi”[8]
e dei parroci, suoi “delegati”, ed è strumento della salvezza dei fedeli. In
questo modo si intendeva reagire alla tendenza, in uso tra la fine del 1400 e
l'inizio del 1500, di fare dell’omelia qualcosa che doveva solo colpire la
fantasia dei fedeli. Tuttavia si impose uno stile oratorio pieno di artifici
che faceva sì che il primato non spettasse più alla Parola di Dio nella sua
chiarezza, ma all’abilità retorica del predicatore. I temi principali non erano
la spiegazione della Scrittura, ma le verità dottrinali, i comandamenti della
Chiesa e i sacramenti, inferno e paradiso, i vizi e le virtù, ecc... La
Scrittura era al massimo considerata un serbatoio da cui trarre all'occorrenza
citazioni a sostegno di una tesi o di un discorso.
A partire dalla metà del XIX secolo la predicazione è sempre
più segnata da una pietà sentimentale, dominata dalla contemplazione dei
"misteri", oppure dalla devozione nei confronti del Sacro Cuore, di
Gesù sacramento, di San Giuseppe, della Vergine, dell'eucaristia... Sono tutte
cose sante, ma considerate in modo scisso dalla storia di salvezza che si conosce
attraverso la Scrittura e si concentra in Cristo e nel vangelo. Aumentò anche
lo spazio dell’apologetica, cioè la difesa della Chiesa dagli attacchi e dalle
ideologie contrarie e la condanna degli errori.
Nel 1893, Leone XIII, nell’enciclica Provvidentissimus Deus, richiama con vigore quelli che “improvvidamente” predicano “servendosi quasi esclusivamente di parole
di scienza e di prudenza umana”, quindi non facendo ricorso alla Scrittura,
ma costruendo prediche che “per quanto
appoggiate sullo splendore dello stile, riescono fiacche e fredde, perché
mancanti del fuoco della Parola di Dio”. È una condanna che, in modo
implicito, attesta l’uso corrente di ignorare la Scrittura nella predicazione. Si
è dovuti arrivare al Vaticano II perché ci fosse un rinnovamento radicale della
predicazione restituendole il fondamento scritturistico: “È necessario che tutta la predicazione ecclesiastica sia nutrita e
regolata dalla Sacra Scrittura” (DV 21).
Il catechismo
Ultimo elemento di mediazione della Scrittura è il
catechismo. Secondo il Concilio di Trento, il catechismo è per i fedeli lo
strumento privilegiato di accesso alla Scrittura. Nel 1566 viene pubblicato il
cosiddetto "Catechismo romano",
strutturato in quattro parti, che costituivano i temi basilari della dottrina
cristiana: il Credo, i Sacramenti, il Decalogo, il Padre nostro. La Scrittura,
di nuovo, è la grande assente fra quanto è ritenuto necessario per la vita di
fede, sostituiti dalla dottrina. È questo infatti il nome che presero i
catechismi: "dottrine", attestando chiaramente che si tratta di
compendi di nozioni teoriche. Ancora nel 1823 il vescovo di Lodi Alessandro
Maria Pagni ha scritto: "Il
catechismo è un libro che serve al popolo, ormai, invece della Bibbia".
A partire da questa sommaria descrizione della situazione si
comprende meglio quali fossero i problemi che venivano avertiti come più
urgenti, alle soglie del Concilio, da coloro che erano più avvertiti sull’urgenza
di dare maggior rilievo alla Scrittura nella vita dei cristiani. Essi erano
principalmente tre:
1. Il rapporto Tradizione-Scrittura. Questo tema era
soprattutto vivo in Europa del Nord, in un contesto segnato dal rapporto tra
protestanti e cattolici. Si trattava di rispondere alla domanda se la Chiesa dovesse
accompagnare i fedeli verso la salvezza mediante la sola Sacra Scrittura (come
affermava il protestantesimo) o anche la Tradizione che contiene anche cose non
presenti nella Scrittura, frutto delle elaborazioni successive, come teologie,
magistero, morale, ecc…
2. L'applicazione del metodo storico critico alla Sacra
Scrittura e il problema connesso dell'inerranza
dei libri sacri[9]. Si era
avuto qualche progresso rispetto al rifiuto totale dell’applicazione
dell’indagine storico-letteraria alla Scrittura grazie all'Enciclica Divino afflante Spiritu del 1943, ma la
questione restava ancora aperta. Di fatto si prediligeva una interpretazione di
tipo quasi fondamentalistico dei libri sacri, ma non pochi, soprattutto i più
colti, avvertivano con disagio crescente le contraddizioni con la cultura
scientifica e storica ormai evolutesi.
3. Ultimo tema, caro al cosiddetto "movimento
biblico" che da oltre cinquant'anni stava lavorando, era il desiderio di favorire
una maggior familiarità dei cristiani con i testi sacri e un approccio più
spirituale alla Scrittura, intesa come fonte di preghiera e di nutrimento per
la vita pratica. Fino ad allora il movimento, analogamente a quanto abbiamo già
visto per la liturgia, si era limitato a iniziative un po' elitarie, viste con
sospetto dalla Chiesa ufficiale.
I temi centrali della Dei Verbum:
I temi centrali che corrispondono grosso modo ai capitoli della
costituzione conciliare sono:
1.
La Rivelazione
2.
La trasmissione della divina Rivelazione
3.
L’ispirazione e l’interpretazione della Sacra
Scrittura
4.
L’unità dei due Testamenti
5.
La Parola di Dio nella vita della Chiesa
La Rivelazione
Per Rivelazione si intende la risposta alla domanda: Come può
l’uomo conoscere e incontrare Dio?
La risposta che la Dei Verbum dà a questa domanda non è una
dottrina atemporale ma una prospettiva storica. Essa fa emergere un’immagine di
Dio da sempre rivolto all’uomo per farsi conoscere da lui e comunicare con lui;
un processo che ha come protagonista il Verbo, che prima di tutto si è espresso
attraverso la creazione, ha parlato per mezzo dei profeti, si è fatto presente
personalmente in Gesù Cristo dando così alla Rivelazione la pienezza.
Ne deriva un superamento della concezione intellettualistica
della Rivelazione, e quindi della fede, come “dottrina”, cioè contenuto
intellettuale. Essa viene ricondotta all’ambito del rapporto interpersonale.
Dio si rivela essenzialmente nel suo cercare un rapporto con l’uomo: “Piacque a
Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero
della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di
Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono
resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4).” (DV 2).
Con la Rivelazione, atto di auto-comunicazione piena di amore
di Dio agli uomini, la storia diventa il luogo della realizzazione pratica del suo
progetto di salvezza degli uomini. Proprio poiché il rapporto di Dio con l’uomo
si realizza nella storia esso avviene mediante “eventi e parole”, che reciprocamente si illuminano. Non è solo
nelle “parole” della Scrittura, nelle sue formule prese in senso letterale, ma in
senso più ampio nella Parola di Dio che racconta la Storia della salvezza e insieme
illumina il significato della storia dell’umanità: “Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole
intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della
salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle
parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse
contenuto.” (DV2)
L’offerta di Dio di amicizia con l’uomo richiede una libera
risposta di accettazione: è la fede. Pertanto, poiché è la risposta all’incontro
personale con Dio, essa non si riduce alla conoscenza di una verità, ma implica
l’accoglienza di Dio in un rapporto personale. Riconoscere in lui la verità
della vita (dottrina) e affidarsi al rapporto con lui con fiducia (vita
vissuta) non sono nella fede cristiana due elementi estranei, perché la Verità
a cui aderire non è un’astrazione ma si manifesta nella persona del Figlio di
Dio.
Da questa articolata visione dell’atteggiamento comunicativo
di Dio e della necessità di una risposta da parte dell’uomo possiamo trarre
alcune implicazioni importanti:
· Solo attraverso
la Bibbia possiamo incontrare Dio che si è fatto conoscere dagli uomini nella
storia che ancora oggi ci parla nel libro che la contiene e ne illumina il
senso. È interessante notare come il documento si apra e si chiuda con un
concetto analogo, come a dire che questo è il messaggio condensato di tutto il
testo: si legge in DV 2: “Con questa Rivelazione
Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si
intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé”; si
legge nel capitolo ultimo (DV 21) a proposito di Bibbia: “Nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza
incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro”.
· La Bibbia non
parla di Dio e dell’uomo come due esseri distinti con due destini separati, ma entrambi
sono colti nella loro verità che è il legame di amore, di alleanza, che Dio
offre all’uomo, che l’uomo può accogliere e ricambiare. Afferma pertanto che i due sono inseparabili,
le due storie sono fuse in una unica vicenda. Ascoltare la Bibbia, Parola di
Dio, vuol dire allora scoprire questa dimensione divino-umana della nostra
esistenza: storica e terrena, ma imbevuta di un destino che supera la
dimensione umana. È quello che gli orientali chiamano divinizzazione: “Dio in Cristo si è fatto uomo, perché
l’uomo potesse divenire Dio come lui”. Mettersi al suo ascolto è un dialogo
tra amici, per essere attratti da Dio verso di lui.
· Dio si rivela e
dunque comunica la sua Parola nella storia, intreccio di opere e parole, che la Bibbia racconta nelle vicende del
popolo di Dio che è Israele e che continua oggi nella Chiesa (cfr. LG). Questo
significa imparare a leggere la Bibbia secondo le dimensioni di storia,
letteratura, messaggio incarnato nella vita; ma anche riconoscendo che la storia
è il luogo in cui avviene la Rivelazione, cioè ha una dimensione che oltrepassa
il dato concreto per aprire un orizzonte ulteriore che è quello del Regno. Bisogna
quindi imparare anche oggi a riconoscere i segni di Dio nella storia dell’uomo,
dai grandi avvenimenti che segnano la storia dei popoli fino alle vicende
personali, per imparare a diventare costruttori della storia di salvezza oggi,
lasciandosi guidare dalla Parola.
· Se la Rivelazione
è innanzitutto un rapporto, un dialogo fra Dio e l’uomo, con la forza dello
Spirito, e la fede è la disponibilità ad intrecciare questo rapporto offertoci,
allora essere cristiani non è aderire a una dottrina, ispirarsi a dei valori,
seguire una morale, appartenere ad una istituzione, ecc.. ma innanzitutto
accogliere il modo di farsi conoscere di Dio come lui lo ha voluto, e
rispondergli come noi sappiamo e possiamo. La preghiera e la liturgia come
dialogo con Dio, sono essenziali in questo rapporto , e non un di più per gli
specialisti di ascesi mistica.
La trasmissione della divina Rivelazione:
Tradizione e Scrittura
La Rivelazione giunge a noi attraverso un cammino lungo e complesso
(circa 30 secoli di storia). Nel passato si è cercato di semplificare in modo
schematico parlando di due “fonti della Rivelazione”: Tradizione e Scrittura. In qualche modo è
stata proposto come se la trasmissione di essa fosse avvenuta in modo diviso e
contrapposto tra le due “fonti”, nel tentativo di dare la preminenza ora
all’una (cattolici) ora all’altra (protestantesimo). Questo era lo schema
sancito dal Concilio di Trento fino a prima del Concilio Vaticano II.
Rispetto a ciò la Dei
Verbum presenta un concetto di Tradizione più ampio della “dottrina”,
espresso così: "La Chiesa, nella sua
dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le
generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede" (DV 8). Inoltre
viene affermata l'unità di Tradizione e Scrittura, contro ogni tentativo di
separazione fra le due: "La sacra
tradizione e la sacra scrittura sono dunque strettamente tra loro congiunte e
comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse
formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la
sacra scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto
l'ispirazione dello Spirito divino" (DV 9).
Nel numero seguente (DV 10) si descrive il rapporto tra le
tre entità: Tradizione, Scrittura e Parola di Dio: "La sacra tradizione e la sacra scrittura costituiscono un solo
sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa". Dobbiamo
innanzitutto sottolineare come la DV afferma che Scrittura e Tradizione non
coincidono con la Parola di Dio: quest’ultima risuona quando la prima è letta e
ascoltata, fatta entrare nella vita e resa parte di essa, cioè incarnata, in
quella storia di fede che è la tradizione, comprendente i contenuti e i modi di
credere delle generazioni che si sono succedute. La tradizione non è pertanto
qualcosa di statico e immutabile, ma è come un continuo risuonare di una Parola
nuova, ogni qual volta la Scrittura è accolta e vissuta nella comunità, e
consegnata (in latino: tràdere) alle
generazioni future e a chi ci sta difronte, divenendo “tradizione”. La Parola di Dio è pertanto
una realtà che non può essere racchiusa nella lettera della Bibbia né nella
Tradizione intesa come dottrina. La Parola di Dio eccede la Scrittura e la
Tradizione e non è esaurita da esse. È realtà creatrice (Logos), instauratrice
della storia che genera la Tradizione. Il libro Bibbia e anche la dottrina
cristiana ne è come una “solidificazione storica”, la contiene, ma la consegna
perché si proceda a una loro lettura e comprensione animata dallo Spirito per
farla risuonare ancora viva e non pietrificata.
· La
conseguenza quindi è che occorre farsi carico della fatica della comprensione
della Scrittura perché diventi sapienza di vita, personale e comunitaria.
Davanti alla Scrittura dobbiamo sempre porci come persone disposte a farci
interrogare, a scavare, a coglierne i dettagli sempre nuovi, ecc… Interpretazione
non significa solo cercare il significato di una frase, ma vuol dire far calare
la Parola di Dio nella vita di un individuo e di una comunità, in un oggi
storico. E’ fare in modo che la Parola di Dio, nell'oggi storico di questa
comunità, produca nuovamente carità, giustizia, pace, culto, preghiera, amore,
e così via.
· La Rivelazione,
che si realizza in modo pieno attraverso l’incarnazione della Parola in una
persona concreta, Gesù, nello spazio e nel tempo, per arrivare ad ogni uomo
deve essere trasmessa di generazione in generazione, con l’annuncio, i segni,
la testimonianza, il modo di pregare e credere. La Tradizione è il frutto di questa
vocazione missionaria del popolo di Dio: “Dio
dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti,
rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni” (DV
7). Alla base e all’origine della Tradizione sta la “predicazione apostolica” (DV 8), che continua nel tempo in diversi
modi: orale, scritta, testimoniale, nella dottrina, nella celebrazione e nella
vita della comunità, da persona a persona, secondo le mediazioni di
trasmissione di ciascun tempo.
· Tradizione e
Scrittura sono “come uno specchio nel
quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio” (DV 7), sono “strettamente tra loro congiunte e
comunicanti”, come canali “che
scaturiscono dalla stessa divina sorgente” sono “un solo sacro deposito della
parola di Dio affidata alla Chiesa” (DV 10). Il Nuovo Testamento nasce
dentro la Tradizione viva degli apostoli, dalla Tradizione viene trasmessa e
dunque ha bisogno del contesto della Tradizione per essere capito nel suo significato
vitale, cioè come Parola di Dio. D’altra parte la Scrittura costituisce per
così dire il centro della Tradizione, la sua sorgente. La Tradizione è il modo
con cui la Parola si realizza nella storia; la Scrittura è la sorgente
dell’autenticità della Tradizione. Il Magistero ha il compito di “interpretare autenticamente la parola di
Dio scritta o trasmessa” (DV 10).
· È importate
sottolineare che il soggetto della trasmissione della Rivelazione rimane sempre
Cristo, per impulso dello Spirito Santo. Egli oggi è rappresentato ed espresso
dal suo Corpo dopo la Pasqua che è la Chiesa, la quale, “nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e
trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede”
(DV 8). È una Tradizione che “progredisce”
grazie all’ascolto, all’esperienza di fede, alla predicazione e “tende incessantemente alla pienezza della
verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio” (DV
8). Ciascuno di noi è allora coinvolto in questa responsabilità di continuare
la tradizione, cioè di “consegnare” ad altri, a quelli che vengono dopo di noi,
la Rivelazione di Dio come l’amico dell’uomo nella storia. Sta a noi
concretizzarla nell’oggi, e farla capire agli altri vivendola, attraverso la
preghiera, la liturgia, la carità, la missione, ecc…
· Questo implica
che saremo in grado di farlo solo se resteremo uniti al Corpo di Cristo che è
la Chiesa, cioè l’annuncio non è compito di qualche specialista isolato (preti,
religiosi, o laici che siano) ma della comunità di tutti quelli che ne avvertono
la responsabilità e si sentono e si comportano come membra dell’unico corpo.
Chi se ne distacca non trasmette niente al di fuori di sé. Anche il prete più
colto o preparato, il laico più attivo e capace suona come un coccio vuoto se
non parte e torna alla comunità. Anche
il più umile e semplice, non colto né carismatico, se fa parte del corpo che è
la comunità fa parlare con la sua vita stessa la Parola di Dio e la trasmette
continuando e vivificando la tradizione più autentica della Rivelazione di Dio
nella storia.
· D’altronde il
cristiano impara a conoscere e scoprire la Bibbia non studiando all’Università
o per conto proprio né in uno sforzo ascetico individuale, ma nel contesto della
vita della comunità dei figli di Dio che è la Chiesa, della sua riflessione,
della sua preghiera, della sua carità, della sua realtà storica. Non la si
capisce in solitudine fra se e se. L’incontro autentico con la Parola di Dio
avviene dentro il popolo di Dio, quello stesso al quale Gesù parlava,
illuminandolo, sfamandolo, guarendolo, salvandolo, ecc… Chi si chiude e si
isola dalla Chiesa e dal suo essere nella storia, rischia di tagliare il ramo
su cui sta seduto, di prosciugare la fonte a cui si abbevera ed è condannato
all’aridità sterile. Pensiamo ad esempio al diffuso fenomeno di quanti
affermano di credere senza aver bisogno della Chiesa. La debolezza di questa
affermazione non sta nella pretesa che la Chiesa cattolica sia l’unica
depositaria della verità indiscutibile, ma nel fatto che fuori della comunità
nella quale vivere la Parola di Dio, cioè privata della tradizione viva della
fede vissuta dalle generazioni precedenti e dall’orizzonte largo di quella contemporanea
a noi, essa non è comprensibile e resta muta. È il senso dell’affermazione
patristica “Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre”[10].
Per incontrare la Bibbia c’è bisogno di una comunità, la Chiesa, perché la
Parola ascoltata nella Bibbia per essere resa vitale chiede di essere
approfondita e vissuta, e ciò avviene nel popolo che è convocato da quella
Parola; chiede di essere celebrata nella preghiera e nella liturgia, di essere
concretizzata nei segni di presenza di Cristo, i sacramenti, con al vertice,
l’Eucaristia; la Parola letta e celebrata chiede di essere vissuta nella carità
verso i fratelli e nella missione, continuare cioè quella tradizione vivente da
cui è nata e a cui tende per mezzo di chi l’ascolta.
L’ispirazione e l’interpretazione
della Sacra Scrittura
Il cap. III della Dei
Verbum è dedicato all’ispirazione e all’interpretazione della Scrittura.
Innanzitutto viene affermato che le Scritture sono ispirate, cioè che i libri
sacri “hanno Dio per autore e come tali sono
stati consegnati alla Chiesa” (DV 11), hanno per origine Dio con la
mediazione di autori umani.
Viene poi indicato il senso da dare alla verità della Bibbia:
“I libri della Scrittura insegnano
fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza
volle fosse consegnata nelle sacre lettere” (DV 11). La Bibbia è verità
rivelata da Dio in funzione non della cultura di un tempo o di finalità
profane, ma della salvezza delle persone, e quindi da comprendere non come
risposta a domande scientifiche, ma religiose. Non viene limitata
l’ispirazione, ma ne viene indicato il senso. È possibile un dialogo con le
scienze, senza che vi sia ragione di conflitti.
La Dei Verbum
ricorda che la Bibbia appartiene al mistero dell’incarnazione. Le parole di Dio
nella Bibbia sono comprese nella persona del Figlio di Dio, parole quindi che
rispecchiano in se stesse l’umanità e la divinità del Verbo, la debolezza umana
e la forza di Dio (cfr. DV 13). Bisogna cercare il vero volto di Dio e
dell’uomo riconoscendo entrambi in quello di Gesù, uomo e Dio, è la via per
approcciare le Scritture.
· Allora si deve
porre attenzione a comprendere il testo biblico non strumentalizzandolo con
letture fondamentaliste o ideologiche, ma anche non riducendolo a una pura
comprensione letteraria o storica, come qualunque testo: le Scritture parlano
di un Dio vivente, perciò una lettura che non si fa “spirituale” rischia la
rigidità della lettera che uccide (cfr. 2Cor 3,6).
· Tutto ciò esige
un processo di interpretazione della Bibbia accolta per quello che è: Parola di
Dio in linguaggio umano, affidata ad una comunità, come è una comunità che l’ha
materialmente prodotta (quella dei profeti, degli evangelisti, degli apostoli,
ecc…). Essa per essere scoperta richiede un doppio livello di lettura: la
ricerca del senso immediato del testo, secondo le sue connotazioni storiche e
letterarie, e la sua trasfigurazione nel senso spirituale, ovvero secondo lo “stesso Spirito mediante il quale è stata
scritta” (DV 12), quello Spirito che rimanda a Cristo.
· Esiste uno
stretto rapporto tra Parola di Dio ed esperienza umana: questo significa che la
Bibbia non è come un ricettario di soluzioni pratiche, o un manuale di morale, restando
alla superficie del testo senza andare in profondità.
L’unità dei due Testamenti
L’Antico Testamento viene presentato dalla DV come una parte
organica della storia della salvezza. I suoi libri “conservano valore perenne” (DV 14), Parola di Dio anche per i
cristiani, nell’ottica di una “preparazione
evangelica”, di “una vera pedagogia divina” (DV 15), formando così un’unità
con il Nuovo Testamento, alla luce del quale “acquistano e manifestano il loro complesso significato” (DV 16).
· Spesso invece l’Antico
Testamento è trascurato, con gli stereotipi sul Dio “violento” e su una
religione “nazionalista”, facendo guardare con sospetto alla religione ebraica;
bisogna imparare a vedere la continuità fra Antico e Nuovo Testamento e operare
una lettura cristiana della prima alleanza.
Il cap. V della Dei
Verbum affronta alcune questioni relative al Nuovo Testamento: esso è il
vertice di tutta la Sacra Scrittura, perché in esso ci è data “testimonianza perenne e divina” del
mistero del Verbo fatto carne, che si manifesta nella “pienezza dei tempi” (DV 7); questa testimonianza ha al suo centro
i santi vangeli, di cui è affermata l’origine apostolica (DV 18) e si
sottolinea il valore storico. Bisogna riconoscerne la corretta genesi, partendo
dalla vita di Gesù, attraverso la predicazione degli apostoli, fino alla
redazione dei quattro evangelisti (DV 19); senza dimenticare l’importanza degli
altri scritti neotestamentari (DV 20).
· È importante
sottolineare la necessità quindi di non rinunciare a dare un giusto profilo unitario
della persona di Gesù Cristo, evitando di spezzettarlo in frammenti di parole e
di fatti, come i riflessi in uno specchio spezzato: il Gesù buono e
misericordioso, quello giudice severo, quello schiacciato dalla passione,
quello glorioso della resurrezione, ecc... Vi è la missione terrena da collocare
nelle sue coordinate storiche, geografiche, ambientali e contestuali; c’è da
cogliere nell’integralità il suo messaggio umano, e infine cogliere il
“mistero” che va oltre le vicende terrene, quello che la risurrezione svela, ma
che è già presente in tutta la sua vita riportata nei vangeli.
La Parola di Dio nella vita della
Chiesa
Questo capitolo non fa che applicare nella “vita della Chiesa”
quanto è stato esposto negli altri capitoli. È un capitolo pratico come la vita,
perché è alla vita che deve tendere l’esegesi, la predicazione, la preghiera,
che a loro volta dalla vita ricevono arricchimento e significato.
Il n. 21 indica i “luoghi” dell’incontro del cristiano con la
Bibbia.
La liturgia e i sacramenti: "La Chiesa
ha sempre venerato le divine Scritture 'come' ha fatto per il corpo stesso del
Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del
pane di vita dalla mensa, sia della Parola di Dio, che del Corpo di Cristo e di
porgerlo ai fedeli." Si parla di presenza della Bibbia nella liturgia. Con la Dei Verbum e
la Sacrosanctum Concilium, come abbiamo già visto, si è riscoperta
l’unità della mensa della Parola e del Pane eucaristico. La liturgia della
Parola non è una specie di preambolo all’Eucaristia, ma è parte essenziale
dell'azione liturgica. Nella Sacrosanctum Concilium n. 56 si dice:
"La liturgia della Parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra
loro così strettamente da formare un solo atto di culto". Viene
affermato che la Chiesa realizza la sua essenza nella liturgia in cui Scrittura
e pane diventano Parola e Corpo del Signore. Cioè vi è unità intrinseca tra la
Parola e il Pane eucaristico, tra la Parola e il Sacramento. La Scrittura insieme con il Corpo di
Cristo è il “pane di vita” di un’unica mensa; essa è “sostegno e vigore
della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima,
sorgente pura e perenne della vita spirituale”.
Il Concilio cioè ha sottolineato la dimensione
sacramentale della Scrittura. Ma già il fatto stesso che ogni sacramento è
accompagnato dalla proclamazione della Parola di Dio (pensiamo alle parole
della consacrazione eucaristica), ci fa ben comprendere il legame intimo fra i
due elementi. Tutto il primo millennio non aveva difficoltà ad accogliere
questa affermazione: la Scrittura è un Sacramento. Vi sono delle pagine di
Gerolamo, di Agostino che dicono che, come ci si accosta alla comunione, alla
manducazione del pane eucaristico, senza perdere una briciola, perché si ha
coscienza che è il corpo di Cristo, così si dovrebbe ascoltare la Scrittura senza
perdere una sillaba di quello che viene proclamato, perché è il Cristo che ci
parla. Nella Dei Verbum 21 si dice: "Nei libri sacri il Padre
che è nei cieli viene con sovrabbondanza di amore incontro ai suoi figli ed
entra in conversazione con loro. Nella Parola di Dio è poi insita tanta potenza
ed efficacia da essere sorgente perenne della vita spirituale."
· Ne scaturiscono
implicazioni fondamentali: La Scrittura è efficace, dona ciò che dice, a patto
che non rimanga congelata nello scritto, in un libro collocato in biblioteca,
ma diventi parola viva nel suo ambiente vitale che è la comunità che prega,
sotto la forza dello Spirito, illuminando la vita personale e sociale. L’ambito
dove la Scrittura raggiunge la sua maggior efficacia è dove la Parola, che ha
al centro Gesù, si coniuga con la presenza stessa di Gesù: l’Eucaristia, e più
ampiamente i sacramenti, da sempre “segni dell’incontro con Cristo”.
Il n. 22 afferma che “è necessario che i fedeli abbiano
largo acceso alla Sacra Scrittura”. DV mira a mettere la Bibbia in mano a
tutti, superando un passato di lontananza che si vorrebbe ricacciare
definitivamente indietro. Di conseguenza si rende necessario fare buone
traduzioni. Si deve scoprire la Bibbia come libro di uso quotidiano; averne una
copia in casa, abituarsi ad averla in mano, a sfogliarne le pagine, a leggerla
come Parola di Dio. Una frase di San Girolamo è eloquente: “L’ignoranza
delle Scritture è ignoranza di Cristo”.
La DV insiste su tre elementi:
· La
frequentazione assidua: il “contatto continuo”, la “sacra lettura
assidua”, lo “studio accurato”, la “frequente lettura”, ecc.
va superata l’episodicità, il distacco dai ritmi della vita.
· L’attenzione di
fede perché nella parole del testo si incontra Dio (“ascoltiamo lui, quando
leggiamo gli oracoli divini”), e dunque la necessità della
interiorizzazione personale, il riferimento alla liturgia, in una parola il
clima di preghiera “affinché possa svolgersi il dialogo fra Dio e l’uomo”.
· La Parola di Dio
vuol essere “pane di vita”. Significa che l’incontro con la Scrittura si
fa serio non quando si ferma in un gusto intimistico e devoto, ma quando porta
ad una lettura sapienziale del testo sacro, cioè fa leggere i segni dei tempi e
fa diventare testimoni della Parola ascoltata e letta. Queste conseguenze che
scaturiscono dalla lettura sapienziale non si esaurisce quindi nella sfera
personale, ma si allarga all’impegno del credente nell’ambiente in cui vive,
ampliandone la risonanza e la diffusione.
[1] Così H. De Lubac, La Rivelazione divina e il senso dell'uomo.
Commento alle Costituzioni conciliari «Dei Verbum» e «Gaudium et Spes»,
Jaca Book, Milano 1985, p. 173.
[2]
G. Dossetti, Il Concilio Ecumenico
Vaticano II, San Lorenzo, Reggio Emilia, s. d., p. 22.
[3]
R. Latourelle (ed.), Vaticano Il.
Bilancio e prospettive. Venticinque anni dopo, I, Cittadella, Assisi 1987,
p. 17.
[4] A. M. Javierre, «La divina Rivelazione», in AA.VV., La
Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, LDC,
Torino 1973, p. 75.
[5] Per una introduzione globale al testo, cfr. R. Burigana, La Bibbia
nel concilio. La redazione della costituzione "Dei verbum" del
Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1998.
[6] Questa commissione, denominata “commissione mista” era formata da membri
della Commissione teologica (estensori e sostenitori dello schema De
fontibus Revelationis) e da membri del Segretariato per l’unità dei
cristiani (punto di incontro dei “nuovi teologi” e delle nuove prospettive).
[7]
Sessione IV, 8 aprile 1546.
[8]
Sessione V, 17 giugno 1546; Sessione XXIV, 11 novembre 1563.
[10]
Cipriano di Cartagine, De Ecclesiae catholicae unitate, 6: CCL 3, 253
(PL 4, 519). Cfr. Catechismo della Chiesa
cattolica n. 181: “« Credere » è un atto ecclesiale. La fede
della Chiesa precede, genera, sostiene e nutre la nostra fede. La Chiesa è la
Madre di tutti i credenti. « Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha
la Chiesa per Madre ».”
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