mercoledì 26 maggio 2010

Meditazione tempo di Pasqua 2010 III


Meditazione tempo di Pasqua 2010 III


Abbiamo festeggiato domenica scorsa la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli a Pentecoste. E’ una festa cui la Chiesa dà una particolare importanza, perché con essa si chiude il Tempo liturgico di Pasqua. Questo non significa che la Pasqua viene archiviata come qualcosa di ormai superata, come si fa con i vestiti pesanti ora che il tempo si fa più caldo.
La Pasqua, ci siamo ripetuti spesso in questo tempo, è qualcosa di decisivo per noi cristiani, e lo Spirito a Pentecoste viene a rendere definitiva questa realtà nella nostra vita. Lo Spirito che discende su di noi ci rende uomini e donne pasquali, cioè persone per le quali la dimensione della Pasqua non è qualcosa di passeggero, ma permanente, costante per tutta la vita. Ma questo non è vero solo per quanto riguarda la durata (per sempre, fino alla fine della nostra vita) ma anche il “sempre” di ogni momento, di ogni situazione, di tutte le dimensioni della mia vita, direi un “sempre” che si estende in profondità nel nostro intimo.
Dicevamo che la dimensione pasquale è vivere una vita non più circoscritta al mio “io” ma aperta ad una dimensione larga della famiglia dei discepoli del Signore che abbraccia una moltitudine di persone.
L’uomo della pasqua è quello per il quale gli altri sono importanti, per i quali la liturgia e l’amore privilegiato per i poveri, a imitazione di Dio, sono come i due momenti più importanti in cui vivere la dimensione “allargata” di una vita che esplode e si espande, mescolandosi con quella di tanti altri come in un tessuto.
Lo Spirito rende questa dimensione larga permanente e definitiva. Ma come avviene tutto ciò?
Noi facciamo fatica a comprendere cosa è lo Spirito e ad incontrarlo. Il rischio è di farne una specie di farmaco euforizzante, ma se è così, il suo effetto è limitato nel tempo e “artificiale”. Oppure lo si considera qualcosa di inutile, perché inconsistente, volatile, ecc..
La lettura dei primi due capitoli degli Atti degli apostoli ci aiutano a comprenderne meglio la natura. Il libro si apre con la promessa del dono dello Spirito:
Mentre [Gesù] si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l'adempimento della promessa del Padre, ‘quella - disse - che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo’". (At 1, 4-5)
Questo fatto ci fa capire che si tratta di una comunità che ancora non ha ricevuto lo Spirito: è la prospettiva, ma ancora non è la loro realtà. Eppure gli Atti presentano una realtà così bella, quasi invidiabile. Subito dopo l’ascensione di Gesù al cielo infatti iniziano tutta una serie di vicende interne alla comunità degli apostoli con i discepoli della cerchia più stretta, quelli che erano rimasti dopo la passione e morte del Signore. :
“Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in giorno di sabato. 13Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi: vi erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo figlio di Alfeo, Simone lo Zelota e Giuda figlio di Giacomo. Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui.” (At 1, 12-13)
Essi rimangono uniti, pregano, si preoccupano diremmo dell’organizzazione della loro comunità, del suo buon funzionamento. Per esempio associano Mattia agli apostoli in sostituzione di Giuda che si era ucciso. Sembra un quadro più che soddisfaciente: non ci sono divisioni, tutto sembra andare per il meglio. Ma quella comunità vive ancora nel chiuso della stanza al piano superiore e tutto il primo capitolo degli Atti si svolge tutta all’interno della cerchia dei discepoli.
La discesa dello Spirito santo segna invece un punto di svolta e inaugura una grande novità: le porte si spalancano e gli apostoli vanno per strada e annunciano il Vangelo a tutti. Il libro degli Atti ci viene a dire cioè che stare bene fra noi è importante, perché è già un grande progresso, rispetto alla realtà di divisione e conflittualità normale nel mondo. E infatti questo ha una sua rilevanza: che i fratelli e le sorelle restino uniti, preghino insieme, siano amici è la premessa indispensabile che permette che lo Spirito li possa raggiungere. Lo dicevamo domenica scorsa a messa, se si fossero dispersi o, peggio, avessero cominciato a litigare, magari su chi doveva essere il capo di quel nuovo gruppo, lo Spirito non sarebbe potuto scendere, o non se ne sarebbero accorti nemmeno, agitati da ben altre faccende. Ma tutto ciò non basta. Lo Spirito non viene per ratificare quella realtà di fatto. Non scende per rinsaldare i legami di solidarietà fra i discepoli, ma quasi a metterla in discussione, affermando che quella famiglia è vera se arriva a comprendere chi non c’entra niente, chi sta per strada e non nella stanza al piano di sopra, chi nemmeno conosco o mi sta antipatico. È quello che Pietro, riempito dallo Spirito, sente subito, e lo traduce in azioni concrete: esce per la strada, parla a tutti, facendosi capire da tutti. Con quel suo lungo discorso di Atti 2 annuncia in breve l’essenziale della fede in Gesù (il kerigma):
“E Pietro disse loro: "Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro". Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: "Salvatevi da questa generazione perversa!" (At 2, 39-41)
Possiamo notare come Pietro sia appassionato in questo suo lungo discorso: si sente responsabile per quella gente che lo sta ad ascoltare, come suoi familiari, perché sa che la generazione di cui fanno parte (ed è vero per ogni generazione cristiana) è perversa, cioè perde la vita. Pervertire infatti non vuol dire solo essere immorali, ma significa letteralmente “girare la vita dalla parte sbagliata”. A questa realtà si contrappone convertire, cioè “girare la vita dalla parte giusta”. Non è che quella gente che ascolta Pietro fosse diversa da tutti gli altri. Non erano perversi perché scelti fra i bassifondi di Gerusalemme. Lo Spirito però fa cambiare direzione alla vita di chi lo incontra: da tutti concentrati su di sé e sul proprio piccolo mondo, ad una estroversione decisamente verso gli altri. E’ questa la “direzione giusta” che permette di non essere pervertiti dalla vita. Cambia così il nostro modo di vedere gli altri: da gente che ci spaventa, rivali, nemici, antipatici, se gli vogliamo bene, ci fanno compassione, perché sentiamo che senza il Signore la loro vita si perde, pur facendo cose del tutto normali.
Pietro si accalora lungo la strada, tanto che lo prendono per un ubriaco, eppure quelli non sono discepoli d Gesù, lo stanno conoscendo per la prima volta attraverso di lui, molti non sono nemmeno giudei, sono stranieri che vengono da tutte le parti. È lo Spirito che fa superare a Pietro e agli altri ogni barriera e limite che loro erano tentati di porre attorno alla comunità dei discepoli, cioè al gruppo di quelli che ormai avevano imparato a stare bene fra di loro.
La Pentecoste ci viene a dire che “la famiglia” del Signore non sono quelli “già ci stanno”, perché sono di più quelli che mancano, per i quali è la promessa: “per tutti quelli che sono lontani”.
Ricevere lo Spirito dunque significa innanzitutto sentire la mancanza di quelli che non ci sono, i lontani, e cercare di fare di tutto per radunarli; come a Pietro infatti lo Spirito ci suscita un senso di responsabilità appassionata nei loro confronti e la preoccupazione per il pericolo che corrono di perdere la loro vita. Luca alla fine di quella giornata straordinaria annota:

“Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone. … Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.” (At 2, 41; 47)

E’ la dimensione missionaria che la Pentecoste suscita nei discepoli del Signore.
Chiaramente si apre ai dodici la domanda di cosa vuol dire missione.
In tutte le epoche storiche i cristiani sono posti dal racconto dalla Pentecoste contenuta negli Atti davanti a questa domanda concreta, perché o si vive come uomini pasquali pieni di Spirito, e quindi preoccupati che quelli che abbiamo di fronte non perdano la loro vita e responsabili di aiutarli a convertirsi, oppure si è cristiani morti, inanimati.
Per molto tempo si è risolto il problema dicendo che era compito di alcuni specialisti: i missionari, e riservato ad alcune regioni della terra: le missioni.
Gli Atti però specificano bene che la missione è “convertire” ogni generazione “pervertita”.
La domanda è allora: ci accorgiamo che la vita spesso gira dalla parte sbagliata? Ci sentiamo responsabili di dirlo, e soprattutto, crediamo che dobbiamo trovare il modo migliore di dirlo?
Sono le domande della Pentecoste, quelle che ci fanno sentire la necessità di non essere da soli a porcele e, tanto meno, a potervi rispondere, sentendo il bisogno di uno Spirito buono che ci aiuti. E’ la premessa indispensabile perché possiamo accogliere il dono dello Spirito che ci rende uomini e donne pasquali in modo pieno e definitivo.

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