lunedì 3 maggio 2010

Scuola del Vangelo 2008/09 - VII

VII incontro

Il Natale è una liturgia dell’accoglienza
(14 gennaio 2009)

Il consumismo ci porta a vedere il Natale come qualcosa che “passa”, una parentesi che si apre e poi chiudendosi lascia tutto come prima. In realtà il Natale è innanzitutto una nascita, cioè è l’inizio di qualcosa di nuovo che poi continua.
“Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace” (Is 9,5).
Come è noto viviamo questa festa circondati e trascinati dal clima consumista che l’accompagna, dall’invito a vivere un ripiegamento su di sé, a festeggiare se stessi nel chiuso dell’ambito familiare che in qualche modo sembra il più adatto a garantirci dall’intrusione di elementi di disturbo della concentrazione egocentrica. Per molti questo, e nulla più, è il Natale.
In questo clima noi però abbiamo ascoltato l’annuncio della nascita del Salvatore:
“l'angelo disse loro: "Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.” (Lc 2, 10-11)
Il mondo però, istupidito, non presta attenzione a questo annuncio, perché non comprende che ha bisogno di essere salvato: da che cosa mai? Si chiede sazio e soddisfatto di sé. Piuttosto rende questa festa una caricatura dissacrante della gioia annunciata dagli angeli, con il rito del cenone e di altre simili tradizioni.
Se qualcuno ci chiedesse di cosa abbiamo bisogno forse saremmo in grado di fare un lungo elenco di cose che ci mancano o di situazioni da risolvere, ma difficilmente saremmo in grado di dire da cosa dobbiamo essere salvati?
Il bisogno di essere salvati è del naufrago, non il nostro !
Il nostro rischio più grave è proprio questo, non credere che abbiamo bisogno di essere salvati e, di conseguenza, proprio per questo non dare valore a questa nascita, e trasformarla in un’occasione, come tante altre, di pensare a sé, comprare, stare in casa, ecc…
Io credo che in realtà tutti noi abbiamo un grande bisogno di essere salvati.
Guardando la realtà attuale mi sembra che, fra gli altri, due siano principalmente gli elementi che minacciano la salvezza dell’uomo:
una grande crisi della pietà, basti pensare alla normalità con cui si guarda alla guerra, per es. in Terra Santa: anche i pacifisti dicono che Israele fa bene a difendersi aggredendo, e il conto dell’ennesimo conflitto scoppiato in questi giorni è giunto ormai a oltre mille morti, per la maggior parte inermi civili;
e una dittatura del materialismo, che non consiste più, come era un tempo, nella negazione dell’esistenza di Dio, ma nel dire che, anche se c’è, Dio non ha una rilevanza concreta sulla vita, piuttosto, al massimo, si identifica con alcuni valori o è uno sfondo decorativo della storia e dell’esistenza dell’uomo. Conseguenza di ciò è l’affievolimento di ciò che è spirituale, nel senso di non economico e quotabile. L’uomo è ciò che compra, appiattito su una dimensione meramente economicista vale per quanto guadagna, per la sua capacità produttiva, ma ancora di più per il valore monetario che sa ricavare con ogni mezzo, senza andare troppo per il sottile. Di conseguenza tutto si compra, tutto ha un mercato, e tutto deve essere rimborsato o dare luogo a un guadagno. Essere in perdita è un disvalore, rimetterci una sconfitta, ricavare poco un segno di incapacità.
Questo modo di ragionare invade sempre più tutti gli aspetti della vita dell’uomo, il suo modo di parlare e agire, i sentimenti e i rapporti familiari e amicali, la struttura della società e i giudizi sui suoi componenti. Persino la cultura è giudicata inutile, a meno che non generi un profitto. La felicità è commisurata ai beni posseduti. I desideri e i progetti sono delineati sullo schema imprenditoriale di ricavo e perdita, e così via. Anche Dio e la religione, nella misura in cui c’è una convenienza economica o di immagine, possono benissimo essere inclusi in questo quadro, purché non ne mettano in discussione i fondamenti. Infatti i criteri non sono ideologici, ma utilitaristici. Questo modo di pensare non coinvolge solo chi ha grande disponibilità di mezzi, come una interpretazione antiquata suggerirebbe, ma, in un’epoca di cultura globalizzata l’unica differenza fra le classi sociali è il grado di frustrazione che vivono nel tendere tutti allo stesso ideale di felicità materiale riuscendo solo in parte a conseguirla. Prova ne sono i modelli di comportamento e le mode che unificano le popolazioni giovanili di tutto il mondo, sviluppato o meno, occidentale e orientale, annullando le differenze culturali e tradizionali, e generando un malcontento crescente in quanti aspirano a livelli di benessere che gli sono preclusi.
Mi sembra che questi due elementi, connessi fra loro e con una lunga serie di conseguenze e addentellati, offrano un quadro che non può non impensierire noi cristiani, come una minaccia seria alla salvezza di chi, consapevolmente o meno, ne fa la prospettiva della propria esistenza. Ma ciascuno di noi può leggere nella propria vita personale tante tracce di questa mentalità che pervade tutti gli aspetti del nostro vivere quotidiano.
In questa situazione risuona ancora una volta l’annuncio dell’angelo: “oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.”
Ma come può un piccolo bambino appena nato farsi spazio nelle maglie strette del vivere agitato e confuso di oggi per portarci la salvezza? Come aiutarlo a frasi spazio e a non far soffocare la sua voce nel frastuono? In un passo antico della Scrittura mi sembra che troviamo una indicazione preziosa.
“Esdra espone al popolo la legge
Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse ad Esdra, lo scriba, di portare il libro della legge di Mosè che il Signore aveva dato a Israele. Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all`assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere; tutto il popolo porgeva l`orecchio a sentire il libro della legge. … ; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: "Amen, amen", alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. …. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: "Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!". Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. Poi Neemia disse loro: "Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza". I leviti calmavano tutto il popolo dicendo: "Tacete, perché questo giorno è santo; non vi rattristate!". Tutto il popolo andò a mangiare, a bere, a mandare porzioni ai poveri e a far festa, perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate.” (Esdra 8)
Il quadro grandioso è la descrizione di una liturgia solenne dell’accoglienza. Accoglienza della Parola di Dio e accoglienza del povero. Le due cose nel brano sono congiunte, anzi l’una è dipendente dall’altra.
Vediamo infatti che tutto il popolo è radunato e ascolta la parola di Dio che viene proclamata. Non è un raduno casuale, ma un atto vissuto da tutti con particolare solennità.
La reazione del popolo è di gente che si sente toccare il cuore; sentono proclamare la Parola di Dio dopo tanto tempo, avvertono la propria distanza dal Signore e ne provano dolore.
Neemia sottolinea che non bisogna piangere, ma gioire, perché la Parola di Dio viene proclamata proprio per abbreviare la distanza di ciascuno da Dio.
L’ascolto si trasforma in azione concreta: Neemia chiede di fare festa perché il popolo ha fatto esperienza della venuta della loro salvezza, e proprio questa festa è la forza del popolo perché è il segno di una nuova vicinanza col Signore.
Per essere vera la festa non può escludere nessuno dei membri del popolo, anche chi è povero e non può permettersi di celebrare il banchetto.
Noi a Natale abbiamo vissuto lo stesso:
Abbiamo ascoltato la proclamazione della Parola di Dio contenente l’annuncio della nostra salvezza, cioè la nascita di Dio sulla terra.
Siamo rimassi commossi e colpiti da questo gesto di Dio, perché se da un lato rinnova la coscienza della nostra distanza da lui, dall’altro ci dimostra la sua disponibilità ad abbreviare questa distanza. La nascita di un salvatore ci ricorda infatti il nostro bisogno, il nostro non bastare a noi stessi, ma ci dà anche gioia perché il nostro bisogno è colmato da lui.
Non si può non gioire di questo annuncio, e questa gioia del Natale è la nostra forza. Infatti se non viviamo questa gioia, cioè non ci accorgiamo della straordinaria occasione di salvezza che ci è offerta restiamo in balia dei venti consumisti e materialisti spietati del mondo.
Questa gioia non è vera se non è condivisa con tutto il popolo. Non solo i familiari, non solo la cerchia ristretta dei vicini, ma anche gli ultimi, anzi soprattutto loro: abbiamo avuto l’occasione di vivere ciò alla cena di Natale con i poveri.
Questo è quello che abbiamo cercato di vivere a Natale, ma è anche quello che ci è proposto ogni volta che apriamo la Scrittura: celebrare la liturgia dell’accoglienza..
Forse nel vivere tutto ciò non abbiamo capito fino in fondo, ma non importa. L’importante è che quella gioia che abbiamo provato resti la nostra gioia, perché è il segno che la salvezza ci ha raggiunti.

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