lunedì 3 maggio 2010

Scuola del Vangelo 2008/09 - IV

IV incontro

La difficoltà è vivere il Vangelo, o ignorarlo?
(29 novembre 2008)

Qualcuno la volta scorsa diceva che il Vangelo ci propone una vita molto bella, ed anche giusta, ma è molto difficile da vivere. E’ un pensiero che tutti abbiamo di tanto in tanto. E’ l’idea di un vangelo troppo bello, troppo alto, e per questo in fondo invivibile.
E’ quel senso di distanza incolmabile che suggerisce il profeta quando dice:
“Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.” (Is 55,9)
In realtà il profeta con queste parole vuole esprimere esattamente il contrario, e cioè che pur essendo le vie del Signore e i suoi pensieri più alti rispetto a quelli umani, addirittura eccelsi, noi possiamo comunque farli nostri, perché egli ci solleva a questa altezza e ci consente di viverli:
“O voi tutti assetati venite all`acqua,
chi non ha denaro venga ugualmente;
comprate e mangiate senza denaro
e, senza spesa, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane,
il vostro patrimonio per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone
e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me,
ascoltate e voi vivrete.
Io stabilirò per voi un’alleanza eterna,
i favori assicurati a Davide. Ecco l’ho costituito testimonio fra i popoli,
principe e sovrano sulle nazioni. Ecco tu chiamerai gente che non conoscevi;
accorreranno a te popoli che non ti conoscevano
a causa del Signore, tuo Dio,
del Santo di Israele, perché egli ti ha onorato.
Cercate il Signore, mentre si fa trovare,
invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via
e l’uomo iniquo i suoi pensieri;
ritorni al Signore che avrà misericordia di lui
e al nostro Dio che largamente perdona.
Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.
Come infatti la pioggia e la neve
scendono dal cielo e non vi ritornano
senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme al seminatore
e pane da mangiare, 11 così sarà della parola
uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata.” (Is 55,1-11)
E’ lo stesso concetto che viene espresso nel Deuteronomio: la via del Signore non è troppo alta per l’uomo, perché passa dentro il suo cuore, se egli lo lascia aperto ad essa.
“Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.
Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso.
Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dei e a servirli, io vi dichiaro oggi che certo perirete, che non avrete vita lunga nel paese di cui state per entrare in possesso passando il Giordano.” (Dt 30,11-18)
C’è una contraddizione tra la Scrittura e quello che viviamo. La Parola di Dio ci dice che la via del Signore è vicina, è a portata di mano, anzi è quasi il modo più naturale di vivere, mentre la nostra esperienza concreta ci dice esattamente il contrario.
Come risolvere questa contraddizione? Proviamo a trovare nella Bibbia stessa la risposta.
La Scrittura è lo specchio nel quale possiamo vedere riflesso il nostro vero volto, senza le rughe e le smorfie che lo sfigurano. Le sue parole ci descrivono, perché vengono dal cuore di colui che ci ama e ci conosce meglio di tutti, Dio stesso. A volte noi facciamo fatica a riconoscerlo, per due motivi: il primo è perché sfuggiamo la verità che ci è scomoda il secondo è che la Scrittura ci propone un volto nostro trasfigurato che noi facciamo fatica a riconoscere che ci appartiene, perché “troppo” umano, diverso da quello a cui siamo abituati, gettiamo uno sguardo distratto che cerca solo conferma a quello che pensiamo già: quello non sono io e non potrò mai esserlo.
Vorrei provare a guardare con voi dentro lo specchio della Scrittura per vedere il volto umano che essa riflette.
Il primo tratto che emerge dalla scrittura è la debolezza dell’uomo.
Sal 103:
“Perché egli sa di che siamo plasmati,
ricorda che noi siamo polvere.
Come l'erba sono i giorni dell'uomo,
come il fiore del campo, così egli fiorisce.
Lo investe il vento e più non esiste
e il suo posto non lo riconosce.”
Sal 129:
“Siano come l'erba dei tetti:
prima che sia strappata, dissecca.”
Sal 144:
“Signore, che cos'è un uomo perché te ne curi?
Un figlio d'uomo perché te ne dia pensiero?
L'uomo è come un soffio,
i suoi giorni come ombra che passa.”
Partendo da questo dato scritturistico possiamo dire, mettendolo a confronto con la realtà che viviamo quotidianamente, che le reazioni dell’uomo, quando viene posto di fronte ad esso, possono essere di tre tipi:
1. quella di coloro che riescono a mascherare la loro debolezza e fanno finta che non sia vera (potremmo genericamente definire questa categoria come “i ricchi”, anche indipendentemente dalle loro sostanze);
2. quella di coloro che non riescono a mascherare la loro debolezza e non possono fare a meno di farci i conti (“i poveri”);
3. quella di coloro che accettano la debolezza e, riflettendo il loro volto nella Scrittura, scoprono che questa è la loro forza (i cristiani).
1. dice la Genesi:
“Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio.” (Gn 5,1)
Questo significa che la debolezza dell’uomo non è qualcosa di accessorio, come il colore dei capelli o la statura, vista la rilevanza che ha per la nostra vita e il rilievo che gli viene dato come fondamento antropologico fin dalla creazione.
In questo senso la fuga dalla debolezza è la fuga da Dio, è il rifiuto di assomigliargli, di accettare non un tratto qualunque del nostro essere creaturale, ma uno qualificante.
La debolezza non è solo un frutto della caduta e del peccato originale, ma, in modo paradossale, è, in un certo senso, anche una caratteristica divina qualificante, che trova la sua massima espressione nell’incarnazione:
“ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.” (1Cor 1,25)
A partire da questa affermazione possiamo dare una definizione di chi è il ricco per la Scrittura: essenzialmente colui che rifiuta la somiglianza a Dio nascondendo la propria debolezza. In questo senso si supera il semplice dato sociologico (la mancanza di beni) anche se l’esperienza umana e la sapienza biblica mostrano quanto sia evidente che il benessere materiale, ma anche la forza fisica, sono elementi che favoriscono e forse anche causano un tale rifiuto.
Sal 49,13:
“Ma l'uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono.”
Ci chiediamo allora, quali e quanti sono i nostri modi per camuffare la nostra debolezza?
2. di conseguenza capiamo meglio anche perché la Scrittura è così insistente nel parlare dei poveri, perché sono quelli che non avendo benessere, salute, forza, ecc.. riescono con più difficoltà a negare la propria debolezza, anche se magari in molti casi lo vorrebbero fare.
3. infine capiamo anche cosa vuol dire S. Paolo quando afferma:
“Egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.” (2Cor 12,9-10)
E anche:
“Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio.” (1Cor 1,26-29)
Possiamo dire che per Paolo il tratto della debolezza non solo è oggettivamente vero per l’uomo, ma in esso si trova anche la sua salvezza, proprio perché ci rende simili a Dio (la deificazione degli orientali):
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.” (Fil. 2, 5-11)
Ma anche Gesù stesso afferma:
“… imparate da me, che sono mite e umile di cuore.” (Mt 11,29.)
Per tornare al ragionamento da cui siamo partiti, e cioè la contraddizione fra la bellezza della via evangelica e la difficoltà a viverla, in conclusione vorrei usare un’immagine.
E’ come se ci fosse un uomo affamato che non mangia da lungo tempo. Ha solo una ciotola di acqua che ogni tanto sorseggia per riempirsi lo stomaco, senza però ovviamente riuscire a placare la fame che lo porta pian piano allo sfinimento totale. Mentre languisce in questa condizione, finalmente incontra qualcuno che gli offre non solo una cesta di pane, ma anche un intero pollo arrostito e fumante.
Davanti a questa offerta generosa quell’uomo comincia a lamentarsi, perché il pane va affettato, poi deve essere masticato e ingoiato con grande fatica. Per non parlare poi del pollo, che va persino spolpato delle ossa! Per questo lascia perdere e continua a sorseggiare la sua ciotola di acqua.
Noi siamo un po’ come quell’uomo: all’offerta di un nutrimento succulento che sazia la nostra fame di vita vera (cioè la Parola di Dio) noi invece di addentare voracemente il cibo buono, diciamo che è troppo difficile, richiede troppo sforzo, che non siamo capaci di affrontare questa fatica, che non è cibo adatto al nostro stomaco, e preferiamo abbeverarci alla ciotola misera della normalità banale del mondo, che abbiamo a disposizione e non ci costa nessuna fatica.
La domanda che sorge spontanea è se veramente quell’uomo abbia fame, oppure, piuttosto, come faccia a negare così protervamente di avere bisogno di cibo solido, fino a morire di inedia.
E’ questo il nostro problema: siamo così bravi a nasconderci la nostra debolezza, la fame di salvezza, che alla fine riusciamo a convincerci che è più difficile mangiare e saziarci piuttosto che lasciarci morire di fame.
L’affermazione iniziale non può dunque che essere rovesciata: la vita del vangelo è così bella, che non vi si può che aderire con gioia e immediatezza, quando ci viene proposta.

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