lunedì 3 maggio 2010

Scuola del Vangelo 2008/09 - X

X incontro

Commento della Prima lettera
dell’Apostolo Giovanni
Il Mercoledì delle Ceneri
(21 gennaio 2009)

1Gv, 2,1-2
“Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.”

Questo nostro incontro cade nel giorno del mercoledì delle ceneri che apre il tempo di Quaresima. La cenere è segno dell’umiltà di chi si riconosce peccatore e bisognoso davanti a Dio e ai fratelli:
La scrittura usa spesso l’immagine della cenere, riferendosi all’uomo:
Cospargersi il capo di cenere è un gesto che vuole significare umiliazione, pentimento e richiesta di perdono:
“Ogni uomo o donna israelita e i fanciulli che abitavano in Gerusalemme si prostrarono davanti al tempio e cosparsero il capo di cenere e, vestiti di sacco, alzarono le mani davanti al Signore” (Gdt 4, 11)
“Quando Mardocheo seppe quanto era stato fatto, si stracciò le vesti, si coprì di sacco e di cenere e uscì in mezzo alla città, mandando alte e amare grida” (Est 4,1)
“In quel giorno digiunarono e si vestirono di sacco, si sparsero la cenere sul capo e si stracciarono le vesti.” (1Mac 3,47)
”Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino. Io vi dico che in quel giorno Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città. Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere.” (Lc 10,13 – Mt 11,21)
Altri brani della Scrittura spiegano il perché di questo gesto. E’ il riconoscimento della debolezza dell’uomo che davanti a Dio si mostra per quello che veramente è: polvere e cenere.
“Abramo riprese e disse: "Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere...” (Gn 18, 27)
“Perché mai si insuperbisce chi è terra e cenere?” (Sir 10,9)
“Che c'è di più luminoso del sole? Anch'esso scompare. … Esso sorveglia le schiere dell'alto cielo, ma gli uomini sono tutti terra e cenere.” (Sir 17,27)
E’ lo stato dell’uomo debole e malfermo, in balia della malattia e degli eventi della vita:
“Ora mi consumo
e mi colgono giorni d'afflizione.
Di notte mi sento trafiggere le ossa
e i dolori che mi rodono non mi danno riposo.
A gran forza egli mi afferra per la veste,
mi stringe per la scollatura della mia tunica.
Mi ha gettato nel fango:
son diventato polvere e cenere.” (Gb 30,19)
L’umiltà a cui questo gesto invita non è pertanto un volersi mostrare meno di quello che si è, un gesto di falsa modestia, ma è soprattutto l’accettazione realistica del proprio vero essere: impotente, passeggero, incapace di bastare a sé.
La cenere dice la verità della nostra vita principalmente perché essa è l’origine della nostra vita fisica e il suo futuro. Il nostro corpo fu creato da un impasto di terra e cenere e tornerà ad essere, con la morte, terra e cenere.
Perché insistere sul ricordo di cosa siamo veramente?
Non è un eccesivo svilimento dell’uomo?
Non è un rifiuto sdegnoso della bellezza del creato, della natura, dell’umanità stessa?
Non è deprimente e contro la fiducia in sé dell’uomo? Ecc…
E’ una critica rivolta spesso alla fede, come se volesse cancellare il valore di tutto ciò che è fisico e naturale nell’uomo e attorno a lui. Ma è anche a volte ciò che rischiamo di pensare anche noi cristiani quando viviamo una fede spiritualista e disincarnata.
Il mistero dell’incarnazione di Cristo ci salva da questo pericolo estremista.
Ma il valore della memoria della cenere è per dire che la vita è anche qualcos’altro che resta e che conta. Possiamo chiamarla “anima” o “spirito” o “cuore” o “intelletto”, ma io la chiamerei più generalmente “vita”, come fa il vangelo che parla di “vita eterna”. E’ il nostro continuare ad essere che non è limitato solo al corpo, anche se in terra la vita racchiude anche il corpo, come anche il tempio racchiude la presenza divina, ma non si identifica con essa.
Avere ben presente questo concetto ci permette di capire che la vita è una fase, un passaggio e ridona all’esistenza di ciascuno la prospettiva più larga in cui inquadrarla. Noi non siamo solo l’oggi, più o meno breve, della mia prospettiva limitata, ma siamo uno ieri vasto quanto la storia dell’amore di Dio per l’uomo che ha sentito il bisogno di crearci, e un futuro lungo come l’eternità. La vita è il “frattempo”.
Questa coscienza non è per svilire il “frattempo” della vita, anzi.
L’idea, così diffusa, che l’uomo viene dal niente e torna al niente apparentemente vuole esaltare il valore della vita, come l’unica cosa che l’uomo ha, il suo valore “assoluto”. Non si tratta solo di quello che pensano gli atei, ma anche coloro che credono, pur dicendosi cristiani, in un materialismo ateo pratico, fatto di atteggiamenti e giudizi di valore sulla vita e le cose. A questa concezione sono collegate molte altre idee che ne conseguono:
1. l’idea del possesso della mia vita, la piena disponibilità che ciascuno ne ha (si veda tutto il dibattito attuale sul caso Englaro e in generale sull’eutanasia e il rifiuto delle cure e dell’alimentazione).
2. Ma poi un'altra conseguenza diretta è un senso disperato della vita, per le occasioni mancate, per l’irrimediabilità del tempo passato. Quello che faccio o non faccio è definitivo, determina la breve parentesi della vita senza possibilità di appello.
Per il cristiano questo non è vero.
Infatti inserire la propria vita in una prospettiva più ampia di un prima e un dopo, anche se diversi dall’oggi, ridona la prospettiva giusta.
1. In risposta al primo ordine di problemi per il cristiano la vita terrena non è il valore assoluto, è una parte, il vero valore è la “vita” in senso biblico, globale, unico vero valore eterno e supremo. Tanto che, ad esempio, il martire rinuncia volentieri alla vita terrena per non scalfire la pienezza di quella eterna.
Ecco perché tante polemiche da parte cattolica sul valore della vita risultano “spuntate”, perché la prospettiva del cristiano non si schiaccia sulla realtà contingente del presente dell’uomo terreno, ma parte dal valore assoluto non della vita terrena, ma di quella vera, eterna.
2. In risposta al secondo ordine di problemi collocare la vita terrena in una prospettiva ampia libera dall’angustia dell’irrimediabilità di come si è vissuto.
Spesso infatti l’uomo moderno ha paura di riconoscere il proprio errore, il peccato, il male vissuto, ecc… Si preferisce non ammetterlo, in vari modi: fare finta di niente, sfuggendo le occasioni di rendersene conto, o “spiegando” il perché, con la psicologia o altri espedienti.
Il rifiuto di affrontare la presenza del peccato nella nostra vita nasce dalla paura della sua irrimediabilità, ma ha come gravissima conseguenza di legarci ad esso negandoci la possibilità di vincerlo, di essere migliori.
Scrive Giovanni:
“Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto.”
C’è un rimedio al peccato che ci permette di non temerlo: la presenza difensiva di Cristo. Il cristiano anche all’ultimo attimo della sua vita può pentirsi, chiedere perdono, 1. perché la sua vita non finisce, 2. perché chi è in grado di giustificarlo e difenderlo è Gesù che continua a stare con lui sempre.
Giovanni non vuole relativizzare la gravità del peccato, ma inserirlo nella prospettiva larga della vita che non finisce, la prospettiva di Dio. E’ l’unico punto della scrittura in cui Gesù è chiamato “paraclito” cioè avvocato, o meglio, letteralmente, colui che è invocato accanto a sé per sostenerci nel momento del bisogno, per difenderci, per parlare al posto nostro, per trovare le vie di salvezza, ecc… Ma allo stesso tempo Gesù è definito “giusto”, non nel senso giuridico (dare a ciascuno quello che merita, perché sappiamo che Gesù non ha ripagato noi uomini con la stessa moneta con cui noi lo abbiamo trattato) perché ci mostra lui il modo “giusto” di essere, che è diverso dalla giustizia naturale, retributiva.
Giovanni sottolinea l’ampiezza di questa prospettiva:
“Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.”
La giurisdizione di Gesù è universale, riguarda tutti i tempi e tutti i luoghi. Non conosce limiti.
Tornando quindi al gesto dell’imposizione delle ceneri riconoscere da dove viene la nostra vita terrena e verso dove va ci apre all’ampiezza sconfinata di una prospettiva larga, ci libera dall’angustia di una visione tutta materialistica e limitata della vita, dei suoi bisogni e delle sue possibilità, ci apre alla capacità di sperare oltre il limite di ciascuno, ci permette di sperare e cercare il perdono di Dio per assomigliare alla sua giustizia.
Questo gesto quindi ci permette di renderci di conseguenza conto della grandezza di Dio e del paradosso del fatto che lui si occupi di noi, addirittura si preoccupi di perdonarci:
“Tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità. Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,25)
Dio non può fare a meno di essere “giusto” perché lui è amore. “Per amore di me stesso” vuol dire questo, per mia natura, per essere fedele a ciò che sono, dice Dio, non posso fare a meno di perdonare, dimenticare, passare oltre il male fatto, purché noi lo vogliamo.
Chinare il capo per ricevere la cenere esprime proprio questa volontà di non rifiutare l’amore di Dio e accettare di essere immessi nella prospettiva ampia della sua giustizia.

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