Ormai è qualche mese che abbiamo cominciato ad andare all’Istituto “Le Grazie” a visitare gli anziani. L’incontro con loro è stata una scoperta importante, non perché non avessimo mai conosciuto anziani, ma perché abbiamo scelto di incontrare alcuni anziani senza legami di parentela, quelli che abbiamo trovato nel salone dell’Istituto, eppure proprio come fossero nostri parenti. In un tempo in cui gli anziani faticano sempre più a trovare posto nella nostra società questo fatto mi sembra importante. E’ opportuno allora oggi fermarci a riflettere su questo nostro impegno, provando a scendere in profondità per capire meglio il suo significato.
Certamente non possiamo fare a meno di partire dal fondamento, che è il Vangelo, ricordando il motivo primo per cui abbiamo cercato gli anziani, e fra loro i più deboli, i più soli, quelli in istituto.
Nel racconto che l’evangelista Matteo fa del giudizio finale il Signore si rivolge a quelli che sono accolti nel suo Regno con queste parole: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” Ecco che allora è subito chiaro il primo motivo per cui siamo andati dagli anziani: perché volevamo incontrare il Signore. Lo abbiamo cercato lì dove lui stesso ci ha indicato che era presente, fisicamente e concretamente, nella sua debolezza di “fratello più piccolo”. Infatti proprio negli anziani possiamo riconoscere fratelli e sorelle “piccoli” perché contano poco, spesso sono abbandonati e la loro vita è giudicata di poco valore, destinata a spegnersi poco alla volta nella dimenticanza: chi se ne accorgerà quando verranno meno?
Gli anziani come Gesù nella Passione
Entrando nell’Istituto “Le Grazie” subito si resta colpiti dagli anziani che sono come tanti crocefissi sulle loro carrozzelle o nei loro letti, oppure al dolore del non rendersi conto di cos’asta avvenendo alla loro vita. Sì, gli anziani che incontriamo ci ricordano anche fisicamente il Gesù della Passione. Ce lo ricordano perché la loro vita è vicina alla fine, perché tanti sono immobilizzati, poi perché sono scherniti, trattati come gente da poco perché non possono più pensare a se stessi e sono dipendenti in tutto, come quelli che irridevano Gesù in croce dicendo che non poteva più pensare a sé “Ha salvato tanti non può salvare se stesso. Se è veramente il cristo scenda giù dalla croce”, infine perché sono stati abbandonati da tutti. La vita si è come rarefatta attorno a loro, proprio come avviene a Gesù nella via crucis. Questa somiglianza però non è scontata, anche se sembra così evidente se solo ci si ferma un po’ a riflettere. Anche nel Vangelo però il Gesù che porta i segni della passione e crocifissione non è riconosciuto, nemmeno da quelli che lo conoscono bene, e questo ci insegna che ogni volta che incontriamo il Signore con i segni della passione non viene naturale riconoscerlo, c’è bisogno di uno sforzo ulteriore di attenzione e di amore. Scrive Luca: “Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano
incapaci di riconoscerlo.” Giovanni descrive i discepoli riuniti al lago di Tiberiade: “Quando già era l’alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.” Anche Maria di Magdala, discepola affezionata del Signore, incontra Gesù risorto, ma non lo riconosce: “Detto questo, (Maria di Magdala) si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo».” Insomma sembra proprio che non è facile riconoscere Gesù crocifisso, neanche per i suoi più intimi, quelli che lo hanno conosciuto e frequentato a lungo prima della crocifissione. La croce infatti è un mistero, forse il più grande della nostra fede. Anche se noi siamo abituati a vederla un po’ ovunque, sui muri, senza lasciarci più turbare, la sua realtà più profonda continua a scandalizzarci così tanto che sembra nasconderci il Signore, cioè rendere difficile riconoscere Dio in quel povero corpo martoriato. In realtà proprio la croce è uno dei vertici della manifestazione della maestà divina del Signore, e non a caso i cristiani hanno scelto fin dall’inizio quel lugubre simbolo, la croce, appunto, per indicare la propria fede.
Anche quando incontriamo gli anziani è un po’ la stessa cosa: la loro debolezza, la loro somiglianza al crocefisso a prima vista ci nasconde in loro la presenza del Signore che si accosta alla nostra vita, ma se andiamo in profondità scopriamo questa realtà.
Il “servo sofferente” di Isaia come l’anziano e come Gesù
La tradizione della Chiesa, fin dai Padri, nei primi secoli del Cristianesimo, ha riconosciuto nel cosiddetto “Quarto canto del servo sofferente” di Isaia, al cap. 53, un ritratto profetico del Signore Gesù della passione e morte. Quel passo recita così:
“Non ha apparenza né bellezza 1
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per provare in lui diletto. 2
Disprezzato e reietto dagli uomini,3
uomo dei dolori che ben conosce il patire, 4
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 5
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca; 6
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; 7
chi si affligge per la sua sorte? 8
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.” 9
Questa descrizione sembra un ritratto della condizione degli anziani che incontriamo in istituto:
1. non sono belli, anzi, sembra proprio che tutti li sfuggano, che la loro vista sia sgradevole, tanto da escluderli dalla vista.
2. Non danno diletto, cioè la loro compagnia è poco piacevole, sono noiosi, ripetitivi, confusi, a volte non parlano nemmeno.
3. Sono disprezzati, prima di tutto da quelli che gli vivono quotidianamente accanto, gli operatori e i dirigenti dell’istituto, e poi in generale dalle loro famiglie e dalla gente che non li tiene in grande considerazione, li tratta come bambini, quando va bene, ma non sono bambini, anzi.
4. Sono “uomini e donne del dolore”, gente spesso dalla storia dura, abituati a soffrire, se non in giovinezza o per la guerra, sicuramente ora in vecchiaia.
5. Nessuno ne ha stima, nessuno tiene in conto della loro personalità, dei loro gusti, del loro nome, sono tutti uguali.
6. Sono persone inermi, spesso impotenti davanti all’umiliazione di essere stati abbandonati, o di vivere in promiscuità, di non avere più le loro cose, la casa, gli affetti, a volte nemmeno poter più praticare la loro fede.
7. Sono state tolte di mezzo, come persone ingombranti e che danno fastidio, chiuse in un luogo estraneo e impersonale, fuori dai circuiti della vita, dal mondo in cui si svolge l’esistenza quotidiana della gente comune.
8. Chi si preoccupa della loro morte? Spesso i parenti, quando ci sono non se ne prendono cura.
9. A volte, è storia comune, purtroppo, proprio questo isolamento e mancanza di affetto porta chi è anziano a lasciarsi andare, ad una tristezza ed abbandono che è anticamera della morte: “per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte” dice Isaia.
occhi nei loro, il nostro cuore accanto al loro, non basta una visita frettolosa.
Il “lavoro” faticoso di riconoscere Gesù
E’ una cosa che non viene naturale, anche per chi pensa di essere capace, come non fu naturale per i discepoli di Emmaus e per Maria Maddalena, per Pietro e per Andrea riconoscere Gesù dopo la croce. C’è voluto tempo, sforzo, pazienza; direi che ci sono riusciti con fatica. Sì, ci vuole la fatica di provare a non essere “come ci viene”, a non fidarci di come ci sembra a prima vista, come ci comporteremmo spontaneamente, per provare a vivere quello che accadde a Emmaus: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero.” Cioè riconoscere Gesù viene dal farsi suoi intimi a partire dal gesto che più di tutti ci rende suoi familiari: la liturgia eucaristica. Quando i primi cristiani dovettero dare un nome alla riunione della comunità per fare memoria dell’ultima cena scelsero quello di “liturgia”, che a noi forse suona un po’ strano, ma loro avevano in mente un concetto ben chiaro. Le “liturgie”, erano il lavoro che il popolo era tenuto a prestare gratuitamente per
Cosa vuol dire allora tutto ciò per noi? Che bisogna fare la messa in Istituto? Anche, ma non basta, è di più. Significa che dobbiamo andare in Istituto come uomini e donne dell’eucaristia, come uomini e donne “litùrghi”, cioè operai gratuiti, che dissodano il proprio cuore e la vita del mondo attorno a sé nutrendola della Parola di Dio, della preghiera, collaborando col proprio lavoro a rendere presente sulla terra il Corpo e il Sangue di Cristo. E’ allora a partire da una sincera vita di preghiera e di amore per la Parola di Dio che dobbiamo partire per il cammino che ci fa diventare suoi compagni di cammino fino a dire con i due di Emmaus: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino.”
La liturgia dell’amore per gli anziani
Vorrei provare allora con voi a delineare alcuni tratti del nostro stare con gli anziani e del lavoro “liturgico” che è necessario perché impariamo ad incontrare con essi il Signore Gesù. Sì, perché il nostro visitare gli anziani deve essere una liturgia d’amore, nutrita di preghiera e di Parola di Dio, altrimenti rischia di divenire una pesante corvé, un sacrificio.
Spesso abbiamo notato come gli anziani siano confusi. Ci scambiano per loro parenti, immaginano di stare in altre città o in altre situazioni, pensano di essere più giovani o altre simili cose. A volte abbiamo la tentazione di considerarle come delle divertenti stranezze, ci fanno anche un po’ sorridere, ed è naturale, fa parte, appunto, del “come ci viene”. Proviamo però a capire da dove nascono queste “stranezze”. Sicuramente c’è una base fisiologica, e questo a noi interessa relativamente, non siamo medici. Innanzitutto partiamo dal fatto che nella nostra società la lucidità mentale è un valore supremo. Ne è prova l’affermazione, talmente comune che non ci si fa nemmeno più caso e la si fa propria senza pensarci, “se perdo la ragione, meglio morire”, o cose simili.
Guardare la vita degli anziani con gli occhi del Vangelo
Se proviamo a guardare gli anziani con gli occhi del Vangelo capiremo molte cose a prima vista inspiegabili. Infatti, dietro alla confusione mentale di molti anziani si nasconde una storia difficile, oltre che, come dicevamo, motivi fisiologici. Innanzitutto il fatto di trovarsi in un ambiente diverso da quello in cui sono cresciuti ed invecchiati rende loro più difficile orizzontarsi. La rarefazione dei rapporti con i familiari, con vicini e conoscenti, la scomparsa degli oggetti familiari, l’abbandono forzato delle abitudini usuali, degli orari consueti, in chi è più debole aumenta la confusione oppure la fa nascere. Dopo 60 o 70 anni di vita dover ricominciare da zero e in un ambiente estraneo è duro. Questo spiega il tentativo a volte disperato, di molti anziani di voler vedere nei volti di chi si ferma accanto a loro persone familiari, magari parenti o conoscenti di lunga data: è il desiderio, che si confonde con la realtà, di avere accanto persone rassicuranti nello smarrimento della loro vita attuale. Ecco che allora non ci fa tanto sorridere la confusione, ci tocca il cuore perché è come una domanda muta: “Tu vuoi essere un mio parente, o un vicino, una persona cara?” La confusione mentale diventa occasione per acuire una lucidità affettiva in questi anziani che si attaccano con tenacia a noi, ci accolgono calorosamente, prolungano i saluti, ripetono l’abbraccio come cercando di legarci a loro indissolubilmente, per paura di restare soli. Per questo è molto importante prendere sul serio gli apparenti vaneggiamenti degli anziani. Essi sono pezzi della loro storia mischiati ad una grande domanda di affetto, e noi possiamo aiutarli a ricostruire il difficile puzzle della loro vita, non tanto riordinandola razionalmente, quanto mettendo fra di essi il cemento di una amicizia fedele che rimette assieme i pezzi, anche se non proprio nell’ordine esatto, ma poco importa.
Questo significa innanzitutto una presenza costante, certamente, ma anche avere una memoria affettuosa che ricorda il nome, le parole, i racconti fatti ed ascoltati, perché sia un rapporto che cresce, l’attenzione alle piccole e grandi cose, alla loro salute, a cogliere domande implicite. E’ poi una fedeltà che ci mette in gioco, nel senso che ci strappa all’essere fedeli solo a sé stessi, preoccupati solo di quello che accade a noi. Legarsi con fedeltà agli anziani fa nascere anche in noi una santa confusione mentale che ce li fa considerare nostri parenti, amici di lunga data, compagni di giochi d’infanzia, assieme anche ad una maggiore lucidità affettiva, tanto vogliamo loro bene.
Vivere questo fa nascere nuovi problemi. Ad esempio: come fare per stare con diversi anziani nel pomeriggio senza suscitare gelosie; come non trascurare quelli che sono meno espressivi, non parlano, non chiedono; come smussare la conflittualità che a volte c’è fra di loro; come conquistare la fiducia di chi ha visto passare tanti “volontari” che stanno qualche tempo e poi non si vedono più; come realizzare il desiderio di uscire, di tornare nei luoghi cari; come aiutare la loro fede, ad esempio con una celebrazione bella della liturgia; come incontrare tanti, possibilmente tutti; ecc…
“Ecco quanto è buono e quanto è soave
che i fratelli vivano insieme!
E` come olio profumato sul capo,
che scende sulla barba,
sulla barba di Aronne,
che scende sull`orlo della sua veste.
E` come rugiada dell`Ermon,
che scende sui monti di Sion.
Là il Signore dona la benedizione
e la vita per sempre.”
Sono solo alcuni accenni di un discorso che può essere lungo. Vuole essere una traccia per riflettere a partire dal Vangelo sul significato di quello che stiamo facendo perché, più consapevoli, sappiamo “rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.” (1Pt 3,15)
Essere spirituali per essere capaci di aiutare concretamente
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