lunedì 26 aprile 2010

Il servizio agli anziani in istituto

Una riflessione sul nostro servizio agli anziani in istituto
Ormai è qualche mese che abbiamo cominciato ad andare all’Istituto “Le Grazie” a visitare gli anziani. L’incontro con loro è stata una scoperta importante, non perché non avessimo mai conosciuto anziani, ma perché abbiamo scelto di incontrare alcuni anziani senza legami di parentela, quelli che abbiamo trovato nel salone dell’Istituto, eppure proprio come fossero nostri parenti. In un tempo in cui gli anziani faticano sempre più a trovare posto nella nostra società questo fatto mi sembra importante. E’ opportuno allora oggi fermarci a riflettere su questo nostro impegno, provando a scendere in profondità per capire meglio il suo significato.


Certamente non possiamo fare a meno di partire dal fondamento, che è il Vangelo, ricordando il motivo primo per cui abbiamo cercato gli anziani, e fra loro i più deboli, i più soli, quelli in istituto.

Nel racconto che l’evangelista Matteo fa del giudizio finale il Signore si rivolge a quelli che sono accolti nel suo Regno con queste parole: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” Ecco che allora è subito chiaro il primo motivo per cui siamo andati dagli anziani: perché volevamo incontrare il Signore. Lo abbiamo cercato lì dove lui stesso ci ha indicato che era presente, fisicamente e concretamente, nella sua debolezza di “fratello più piccolo”. Infatti proprio negli anziani possiamo riconoscere fratelli e sorelle “piccoli” perché contano poco, spesso sono abbandonati e la loro vita è giudicata di poco valore, destinata a spegnersi poco alla volta nella dimenticanza: chi se ne accorgerà quando verranno meno?

Gli anziani come Gesù nella Passione

Entrando nell’Istituto “Le Grazie” subito si resta colpiti dagli anziani che sono come tanti crocefissi sulle loro carrozzelle o nei loro letti, oppure al dolore del non rendersi conto di cos’asta avvenendo alla loro vita. Sì, gli anziani che incontriamo ci ricordano anche fisicamente il Gesù della Passione. Ce lo ricordano perché la loro vita è vicina alla fine, perché tanti sono immobilizzati, poi perché sono scherniti, trattati come gente da poco perché non possono più pensare a se stessi e sono dipendenti in tutto, come quelli che irridevano Gesù in croce dicendo che non poteva più pensare a sé “Ha salvato tanti non può salvare se stesso. Se è veramente il cristo scenda giù dalla croce”, infine perché sono stati abbandonati da tutti. La vita si è come rarefatta attorno a loro, proprio come avviene a Gesù nella via crucis. Questa somiglianza però non è scontata, anche se sembra così evidente se solo ci si ferma un po’ a riflettere. Anche nel Vangelo però il Gesù che porta i segni della passione e crocifissione non è riconosciuto, nemmeno da quelli che lo conoscono bene, e questo ci insegna che ogni volta che incontriamo il Signore con i segni della passione non viene naturale riconoscerlo, c’è bisogno di uno sforzo ulteriore di attenzione e di amore. Scrive Luca: “Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano
incapaci di riconoscerlo.” Giovanni descrive i discepoli riuniti al lago di Tiberiade: “Quando già era l’alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.” Anche Maria di Magdala, discepola affezionata del Signore, incontra Gesù risorto, ma non lo riconosce: “Detto questo, (Maria di Magdala) si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo».” Insomma sembra proprio che non è facile riconoscere Gesù crocifisso, neanche per i suoi più intimi, quelli che lo hanno conosciuto e frequentato a lungo prima della crocifissione. La croce infatti è un mistero, forse il più grande della nostra fede. Anche se noi siamo abituati a vederla un po’ ovunque, sui muri, senza lasciarci più turbare, la sua realtà più profonda continua a scandalizzarci così tanto che sembra nasconderci il Signore, cioè rendere difficile riconoscere Dio in quel povero corpo martoriato. In realtà proprio la croce è uno dei vertici della manifestazione della maestà divina del Signore, e non a caso i cristiani hanno scelto fin dall’inizio quel lugubre simbolo, la croce, appunto, per indicare la propria fede.
Anche quando incontriamo gli anziani è un po’ la stessa cosa: la loro debolezza, la loro somiglianza al crocefisso a prima vista ci nasconde in loro la presenza del Signore che si accosta alla nostra vita, ma se andiamo in profondità scopriamo questa realtà.

Il “servo sofferente” di Isaia come l’anziano e come Gesù

La tradizione della Chiesa, fin dai Padri, nei primi secoli del Cristianesimo, ha riconosciuto nel cosiddetto “Quarto canto del servo sofferente” di Isaia, al cap. 53, un ritratto profetico del Signore Gesù della passione e morte. Quel passo recita così:

“Non ha apparenza né bellezza 1
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per provare in lui diletto. 2
Disprezzato e reietto dagli uomini,3
uomo dei dolori che ben conosce il patire, 4
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 5
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca; 6
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; 7
chi si affligge per la sua sorte? 8
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.” 9

Questa descrizione sembra un ritratto della condizione degli anziani che incontriamo in istituto:
1. non sono belli, anzi, sembra proprio che tutti li sfuggano, che la loro vista sia sgradevole, tanto da escluderli dalla vista.
2. Non danno diletto, cioè la loro compagnia è poco piacevole, sono noiosi, ripetitivi, confusi, a volte non parlano nemmeno.
3. Sono disprezzati, prima di tutto da quelli che gli vivono quotidianamente accanto, gli operatori e i dirigenti dell’istituto, e poi in generale dalle loro famiglie e dalla gente che non li tiene in grande considerazione, li tratta come bambini, quando va bene, ma non sono bambini, anzi.
4. Sono “uomini e donne del dolore”, gente spesso dalla storia dura, abituati a soffrire, se non in giovinezza o per la guerra, sicuramente ora in vecchiaia.
5. Nessuno ne ha stima, nessuno tiene in conto della loro personalità, dei loro gusti, del loro nome, sono tutti uguali.
6. Sono persone inermi, spesso impotenti davanti all’umiliazione di essere stati abbandonati, o di vivere in promiscuità, di non avere più le loro cose, la casa, gli affetti, a volte nemmeno poter più praticare la loro fede.
7. Sono state tolte di mezzo, come persone ingombranti e che danno fastidio, chiuse in un luogo estraneo e impersonale, fuori dai circuiti della vita, dal mondo in cui si svolge l’esistenza quotidiana della gente comune.
8. Chi si preoccupa della loro morte? Spesso i parenti, quando ci sono non se ne prendono cura.
9. A volte, è storia comune, purtroppo, proprio questo isolamento e mancanza di affetto porta chi è anziano a lasciarsi andare, ad una tristezza ed abbandono che è anticamera della morte: “per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte” dice Isaia.

Leggendo Isaia 53 vediamo come un ritratto della condizione di tanti anziani in istituto: Essi, fra tutti quelli che incontriamo, sono quelli che condividono in modo forse più pieno col Signore della passione la condizione di debolezza suprema, perché, come Gesù, sono fragili, fisicamente e psicologicamente, sono soli, abbandonati, sono vicini alla morte. E col Signore condividono anche il fatto di non essere riconosciuti, neanche da quelli che dovrebbero essere i loro più intimi, cioè i discepoli, noi cristiani. Noi abbiamo voluto provare a riconoscere in loro il Signore, ma per farlo è necessario fermarci, sederci ad ascoltare, mettere i nostri
occhi nei loro, il nostro cuore accanto al loro, non basta una visita frettolosa.

Il “lavoro” faticoso di riconoscere Gesù

E’ una cosa che non viene naturale, anche per chi pensa di essere capace, come non fu naturale per i discepoli di Emmaus e per Maria Maddalena, per Pietro e per Andrea riconoscere Gesù dopo la croce. C’è voluto tempo, sforzo, pazienza; direi che ci sono riusciti con fatica. Sì, ci vuole la fatica di provare a non essere “come ci viene”, a non fidarci di come ci sembra a prima vista, come ci comporteremmo spontaneamente, per provare a vivere quello che accadde a Emmaus: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero.” Cioè riconoscere Gesù viene dal farsi suoi intimi a partire dal gesto che più di tutti ci rende suoi familiari: la liturgia eucaristica. Quando i primi cristiani dovettero dare un nome alla riunione della comunità per fare memoria dell’ultima cena scelsero quello di “liturgia”, che a noi forse suona un po’ strano, ma loro avevano in mente un concetto ben chiaro. Le “liturgie”, erano il lavoro che il popolo era tenuto a prestare gratuitamente per il bene comune, una specie di “lavori socialmente utili” che gratuitamente tutti facevano per realizzare opere di pubblica utilità, come strade, argini, canalizzazioni dell’acqua per irrigare i campi, ecc... Cioè nel concetto di liturgia era compreso il senso che era un lavoro, a volte anche duro, reso gratuitamente per il bene di tutti, non solo di quelli che lo facevano. Allora la liturgia eucarestica, significa prima di tutto un lavoro, una fatica, per il bene di tutti, anche di chi non c’è fisicamente a farlo.

Cosa vuol dire allora tutto ciò per noi? Che bisogna fare la messa in Istituto? Anche, ma non basta, è di più. Significa che dobbiamo andare in Istituto come uomini e donne dell’eucaristia, come uomini e donne “litùrghi”, cioè operai gratuiti, che dissodano il proprio cuore e la vita del mondo attorno a sé nutrendola della Parola di Dio, della preghiera, collaborando col proprio lavoro a rendere presente sulla terra il Corpo e il Sangue di Cristo. E’ allora a partire da una sincera vita di preghiera e di amore per la Parola di Dio che dobbiamo partire per il cammino che ci fa diventare suoi compagni di cammino fino a dire con i due di Emmaus: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino.”

La liturgia dell’amore per gli anziani

Vorrei provare allora con voi a delineare alcuni tratti del nostro stare con gli anziani e del lavoro “liturgico” che è necessario perché impariamo ad incontrare con essi il Signore Gesù. Sì, perché il nostro visitare gli anziani deve essere una liturgia d’amore, nutrita di preghiera e di Parola di Dio, altrimenti rischia di divenire una pesante corvé, un sacrificio.
Spesso abbiamo notato come gli anziani siano confusi. Ci scambiano per loro parenti, immaginano di stare in altre città o in altre situazioni, pensano di essere più giovani o altre simili cose. A volte abbiamo la tentazione di considerarle come delle divertenti stranezze, ci fanno anche un po’ sorridere, ed è naturale, fa parte, appunto, del “come ci viene”. Proviamo però a capire da dove nascono queste “stranezze”. Sicuramente c’è una base fisiologica, e questo a noi interessa relativamente, non siamo medici. Innanzitutto partiamo dal fatto che nella nostra società la lucidità mentale è un valore supremo. Ne è prova l’affermazione, talmente comune che non ci si fa nemmeno più caso e la si fa propria senza pensarci, “se perdo la ragione, meglio morire”, o cose simili.

In una società tecnologica e razionalista l’uso delle facoltà mentali è un bene primario, chi ne è privo perde il valore della sua vita stessa, per questo istintivamente ci fa sorridere. Ma se ci confrontiamo col Vangelo vediamo che per Gesù non è così. Nel Vangelo di Matteo, dopo aver sperimentato la durezza di cuore con cui la sua generazione rifiutava il Vangelo, Gesù prorompe in una esclamazione significativa: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.” Gesù cioè capovolge la scala di valori che dicevamo prima: i sapienti e gli intelligenti, cioè diremmo i lucidi e quelli che hanno integre e sviluppate le capacità razionali e intellettive, non sono in grado di ricevere il Vangelo del Padre, mentre al contrario i piccoli, diremmo, per contrapposizione con le categorie di “sapienti e intelligenti”, i confusi e quelli che non fanno affidamento sull’intelligenza come valore primo, sono i destinatari privilegiati della rivelazione del Padre. Ma cosa vuol dire Gesù con questa affermazione? Forse che è meglio essere stupidi, o che chi è intelligente è condannato a non conoscere il Vangelo? No, il Signore vuol dire che c’è una lucidità superiore a quella intellettiva e chi mette quest’ultima al primo posto perde la prima. Nel Vangelo di Luca Gesù incontra un fariseo che prima lo invita a pranzo e poi lo giudica male perché lascia che una prostituta lo tocchi, infrangendo le norme giudaiche sulla purezza: “Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco. Poi disse a lei: Ti sono perdonati i tuoi peccati. Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?. Ma egli disse alla donna: La tua fede ti ha salvata; và in pace!”. Il fariseo si direbbe che sa come comportarsi nei confronti di un rabbino, quale era Gesù: si aspetta che quello applichi le norme religiose e si scandalizza perché Gesù accetta di essere reso impuro dal contatto fisico con quella prostituta. Quella donna invece non ha un comportamento molto adeguato con quell’ospite illustre: piange e gli bagna i piedi con le lacrime, glieli bacia, li asciuga coi capelli. Sembra un comportamento ben poco razionale e conseguente, come il modo di fare di alcuni anziani confusi che “esagerano” con le loro effusioni di baci e abbracci e un po’ ci imbarazzano anche. Se fossimo nel contesto di un istituto per anziani diremmo che quella donna è mentalmente confusa. Gesù però apprezza questa confusione mentale, perché esprime amore, e la confronta con la lucidità del fariseo che metteva in mostra la sua intelligenza e conoscenza della Scrittura. A conclusione dell’episodio Gesù dice: “le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” cioè alla lucidità intellettuale del fariseo contrappone la lucidità affettiva di quella peccatrice, la chiarezza e determinazione nel voler bene e nel mostrarlo senza ritegno. E’ un vero e proprio rovesciamento di valori di cui parlavamo prima: quello che vale non è il pieno possesso delle facoltà intellettive, ma di quelle affettive, perchè queste permettono all’uomo di accogliere l’annuncio evangelico e fanno vivere una vita perdonata, cioè abitata dalla misericordia e dall’amore del Signore. Cosa significa questo, che bisogna mostrarsi folli o confusi per essere discepoli del Signore? No, ma a tutti, anche ai “sapienti e agli intelligenti” è chiesto di essere “piccoli”, cioè di ridimensionare il valore che diamo alla “normalità” per coltivare e sviluppare le “facoltà affettive”. Così anche l’intelligenza e la sapienza, doni di Dio, potranno dare buon frutto, se messe a servizio dell’amore, per voler più bene e servire con più amicizia. Infatti il nostro approccio è freddo e disumano se parte innanzitutto da un giudizio razionale. Anche in questo caso c’è una profonda analogia con la liturgia eucaristica: chi vi si accosta con l’idea di capire tutto, rimane lontano e non comprende, chi si lascia coinvolgere affettivamente, incontra veramente Gesù nella sua Parola e nel suo Corpo e Sangue.

Guardare la vita degli anziani con gli occhi del Vangelo

Se proviamo a guardare gli anziani con gli occhi del Vangelo capiremo molte cose a prima vista inspiegabili. Infatti, dietro alla confusione mentale di molti anziani si nasconde una storia difficile, oltre che, come dicevamo, motivi fisiologici. Innanzitutto il fatto di trovarsi in un ambiente diverso da quello in cui sono cresciuti ed invecchiati rende loro più difficile orizzontarsi. La rarefazione dei rapporti con i familiari, con vicini e conoscenti, la scomparsa degli oggetti familiari, l’abbandono forzato delle abitudini usuali, degli orari consueti, in chi è più debole aumenta la confusione oppure la fa nascere. Dopo 60 o 70 anni di vita dover ricominciare da zero e in un ambiente estraneo è duro. Questo spiega il tentativo a volte disperato, di molti anziani di voler vedere nei volti di chi si ferma accanto a loro persone familiari, magari parenti o conoscenti di lunga data: è il desiderio, che si confonde con la realtà, di avere accanto persone rassicuranti nello smarrimento della loro vita attuale. Ecco che allora non ci fa tanto sorridere la confusione, ci tocca il cuore perché è come una domanda muta: “Tu vuoi essere un mio parente, o un vicino, una persona cara?” La confusione mentale diventa occasione per acuire una lucidità affettiva in questi anziani che si attaccano con tenacia a noi, ci accolgono calorosamente, prolungano i saluti, ripetono l’abbraccio come cercando di legarci a loro indissolubilmente, per paura di restare soli. Per questo è molto importante prendere sul serio gli apparenti vaneggiamenti degli anziani. Essi sono pezzi della loro storia mischiati ad una grande domanda di affetto, e noi possiamo aiutarli a ricostruire il difficile puzzle della loro vita, non tanto riordinandola razionalmente, quanto mettendo fra di essi il cemento di una amicizia fedele che rimette assieme i pezzi, anche se non proprio nell’ordine esatto, ma poco importa.

E’ un onore per noi essere scambiati per i figli, o i fratelli, perché è un segno di fiducia in noi, a volte poco propensi a legarci a qualcuno in modo stabile e profondo. Ecco allora il primo tratto del nostro essere uomini della liturgia che ci aiuta a riconoscere il Signore crocifisso: la fedeltà nel rapporto di amicizia.

Questo significa innanzitutto una presenza costante, certamente, ma anche avere una memoria affettuosa che ricorda il nome, le parole, i racconti fatti ed ascoltati, perché sia un rapporto che cresce, l’attenzione alle piccole e grandi cose, alla loro salute, a cogliere domande implicite. E’ poi una fedeltà che ci mette in gioco, nel senso che ci strappa all’essere fedeli solo a sé stessi, preoccupati solo di quello che accade a noi. Legarsi con fedeltà agli anziani fa nascere anche in noi una santa confusione mentale che ce li fa considerare nostri parenti, amici di lunga data, compagni di giochi d’infanzia, assieme anche ad una maggiore lucidità affettiva, tanto vogliamo loro bene.

Vivere questo fa nascere nuovi problemi. Ad esempio: come fare per stare con diversi anziani nel pomeriggio senza suscitare gelosie; come non trascurare quelli che sono meno espressivi, non parlano, non chiedono; come smussare la conflittualità che a volte c’è fra di loro; come conquistare la fiducia di chi ha visto passare tanti “volontari” che stanno qualche tempo e poi non si vedono più; come realizzare il desiderio di uscire, di tornare nei luoghi cari; come aiutare la loro fede, ad esempio con una celebrazione bella della liturgia; come incontrare tanti, possibilmente tutti; ecc…

Ecco allora un altro tratto che deve contraddistinguerci: essere sensibili a cogliere le tante domande e necessità, e saperle portare nel cuore, lavorando con pazienza e attenzione per trovare il modo di rispondere. Sono come ferite che dobbiamo mantenere aperte. Noi siamo abituati a richiudere in fretta le ferite che ci si aprono dentro, quando non possiamo risolvere un problema. Impariamo invece a tenerle aperte, accettando di soffrire un po’, perché non ce ne dimentichiamo abituandoci al dolore degli anziani. Questo ci cambia la vita. Prima di tutto se vivremo così avvertiremo la necessità di accompagnare tanti altri, come noi, ad incontrare il Signore con gli anziani. La nostra esperienza infatti può essere comunicata, con gioia, non come un sacrificio, perché tale non è. Ecco allora che si trova una prima risposta alle domande: se saremo in tanti potremo rispondere al bisogno di più anziani e, aggiungo, diventeremo annunciatori del Vangelo, cioè della buona notizia di un amore che diventa realtà: per un vecchio solo avere una visita da aspettare è una “buona notizia”, cioè Vangelo. Ma anche per noi avere qualcuno da amare con una santa e confusa lucidità affettiva è una “buona notizia” che ci riempie la vita e sconvolge facili schemini, cioè è Vangelo.

Vorrei infine accennare ad un altro aspetto. A volte gli anziani che stanno peggio sembrano quasi non accorgersi della nostra presenza. Non parlano, non rispondono alle nostre parole, non reagiscono. Oppure sono talmente confusi che sembra che il nostro essere con loro non influisca minimamente il flusso dei loro pensieri e azioni. Può sorgere allora l’idea che la nostra presenza sia inutile. In realtà c’è una faciloneria con cui si giudica superficialmente quanto una persona possa avvertire ciò che è accanto a loro. Come giudicare quanto un anziano che non parla, non reagisce in modo normale, in realtà è contento anche solo di una nostra presenza, di una mano stretta, di parole dette con affetto, di qualcuno che si ricorda di te e ti riconosce? Anche la semplice presenza del fratello accanto ad un fratello anziano ha un valore religioso: dice il Salmo 133

“Ecco quanto è buono e quanto è soave
che i fratelli vivano insieme!
E` come olio profumato sul capo,
che scende sulla barba,
sulla barba di Aronne,
che scende sull`orlo della sua veste.
E` come rugiada dell`Ermon,
che scende sui monti di Sion.
Là il Signore dona la benedizione
e la vita per sempre.”

E’ una presenza che realizza la benedizione del Signore e la vita eterna, come un “sacramento dell’amicizia” che realizza l’amore sollecito e caldo del Signore per i suoi piccoli. Come ogni sacramento allora non c’è molto da capire o da spiegare. Ci sono poveri, piccoli segni concreti, una mano stretta, una carezza, un sorriso, la presenza, che realizzano la promessa del Signore espressa nel Salmo.

Sono solo alcuni accenni di un discorso che può essere lungo. Vuole essere una traccia per riflettere a partire dal Vangelo sul significato di quello che stiamo facendo perché, più consapevoli, sappiamo “rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.” (1Pt 3,15)

Essere spirituali per essere capaci di aiutare concretamente

In conclusione vorrei affrontare un nodo della nostra amicizia con i poveri che mi sembra particolarmente importante. Cioè la necessità che viviamo meglio e di più il servizio ai piccoli come modo per comunicare il Vangelo. Spesso infatti abbiamo una mentalità che ci fa perdere di vista questo aspetto del servizio ai poveri. E cioè ci facciamo prendere da un senso materialista e “basso”, dimenticando così la necessità di essere persone spirituali e “alte”. Non intendo con questo dire che bisogna disprezzare o trascurare le necessità pratiche, il lavoro concreto, l’attenzione ai bisogni materiali dei poveri. Anzi, questi saranno veramente al centro della nostra attenzione se sapremo essere spirituali, cioè nutriti di quello Spirito che è amore e amicizia per i poveri concreti e materiali. Invece, a volte, le necessità di fare, organizzare, lavorare ci soffocano, ci tolgono lo Spirito, con un duplice effetto: da un lato perdiamo di vista la necessità di stare coi poveri come persone, con cui parlare, da capire, con cui “perdere tempo”, dall’altro il fatto di essere molto impegnati e indaffarati ci fa sentire buoni, perché indispensabili. Ci viene allora di fare confronti, con quelli che non lavorano così tanto come noi, e ci fa dimenticare la necessità che l’amore per i poveri sia comunicato a tanti. Se questo non avviene infatti è perché noi non lo facciamo, gratificati dal sentirci i soli a darci così tanto da fare. Ma un servizio ai poveri se non è comunicativo del Vangelo, ai poveri stessi innanzitutto, ma anche a tanti altri, vuol dire che non è evangelico e presto diventerà sterile. Il nostro modo di fare diventerà sbrigativo, brusco, preso dal molto da fare, anche quando non è poi neanche tanto vero, perché diventa il nostro modo abituale di fare e di trattare le persone. Pronti a giudicare gli altri perché non “fanno niente” non ci sentiremo in debito con loro di comunicare l’amore per i poveri. Il Servizio ai poveri infatti è una grazia che abbiamo ricevuto, non un sacrificio che ci rende creditori, è un dono, di cui siamo debitori nei confronti di tutti quelli che non lo hanno ancora ricevuto. Tutto ciò ha due gravi conseguenze: ci fa essere più gratificati del nostro “ruolo”, ma meno felici, e ci impedisce di aiutare meglio e un numero maggiore di poveri, perché non ci fa coinvolgere più persone. E’ un nodo spirituale importante, su cui dovremo riflettere e lavorare a lungo.

Nessun commento:

Posta un commento