martedì 27 aprile 2010

Meditazioni Quaresima 2010 - I Le Ceneri


Meditazioni per la Quaresima 2010
Mercoledì delle ceneri


Il gesto di ricevere la cenere sul capo, come tanti gesti o riti religiosi, spesso rientra in quel genere di cose che ormai, dopo tanti anni, si fanno per abitudine. D’altronde è un gesto che si ripete secondo uno schema sempre uguale, è quasi impossibile che abbia un sapore di novità. Lo stesso possiamo dire della liturgia domenicale, della Comunione, della Parola di Dio, perché sono sempre uguali. Siamo istintivamente portati a pensare che la religione è il campo dell’immutabile, mentre le novità vengono da altre cose. Vengono dalla nostra vita personale, dagli scenari in cui ci muoviamo che cambiano, dalle situazioni che viviamo, dagli incontri che facciamo. Siamo presi da un protagonismo affannato in cui Dio è sullo sfondo, lontano e senza influenza sul mio vivere.
Tutto questo provoca un depotenziamento della Scrittura e dei gesti della fede da cui in fondo non ci aspettiamo niente di nuovo, se non la conferma che tutto resti così com’é. E’ la tentazione che tante volte ci prende di un conservatorismo religioso, per cui tutto in Chiesa si deve ripetere come sempre, tutto deve restare fermo a come sono abituato io, ecc…
Ne è un segno la moda di pensare che in passato tutto era meglio, o che bisogna scimmiottare il modo di vestire, la lingua (latina possibilmente), le mentalità del passato, come se questa immutabilità sia una garanzia di verità e di maggiore solidità.
Da dove nasce questo atteggiamento? Noi siamo figli del nostro tempo. Nella nostra società infatti non si crede che ci possa essere una realizzazione personale fuori dall’ambito angusto del privato, del mio piccolo mondo. Non ci si aspetta niente dal futuro largo della storia e si fa fatica a pensare che qualcosa possa cambiare nella nostra vita a partire da altro che dalla fonte del mio affanno quotidiano. Anzi, spesso, siamo spaventati dalla possibilità che ci siano novità significative: meglio che tutto resti uguale; non sarà la situazione migliore possibile, ma almeno la conosco, ho preso le mie misure e mi ci sono abituato.
Viviamo cioè un vuoto di attesa e di speranza: cosa possiamo aspettarci di diverso dal futuro della storia? Di per sé la storia ha necessariamente una dimensione più larga dell’individuo, coinvolge tutti ed è come il fluire di tante vite che si intrecciano, e tutte le idee collettive che inserivano l’individuo in un orizzonte di storia in comune con gli altri sono tramontate. Non lo dico perché bisogno averne nostalgia, specialmente di alcune, ma è un dato di fatto su cui vale la pena soffermarsi e di cui si deve tenere conto per capire meglio il tempo che viviamo.
Abbiamo visto morire l’idea che c’è un futuro collettivo legata, ad esempio, al concetto di patria. Per essa un tempo si riteneva fosse giusto offrire anche la vita, per un ideale collettivo e proteso verso un futuro da costruire anche per mezzo del mio sacrificio personale; era quasi una mistica. Oggi invece siamo nell’epoca del localismo esasperato, e la mia identità si rafforza essendo contro le altre in una conflittualità di appartenenze diffusa e litigiosa.
Abbiamo visto morire le grandi ideologie (marxismo, comunismo, socialismo, fascismo, liberalismo, ecc…) e con esse i grandi progetti di rivoluzione della realtà. Un tempo le forze politiche avevano un progetto, una idea di società e cercavano di convincere gli elettori a votarli per realizzarla. La politica oggi, e lo vediamo bene in questo periodo elettorale, non propone progetti di società o idee, ma elabora un programma cercando di accontentare i piccoli desideri individuali della gente, di dargli quello che vuole, a volte anche le cose meno nobili: arricchirsi, farsi i fatti propri e del resto chi se ne frega.
Lo vediamo anche nei dibattiti televisivi in cui non conta tanto il contenuto di quello che si dice: che sia sensato, giusto, buono per tutti, ecc… ma vince chi alla fine ha saputo mettere l’altro in difficoltà e ha potuto imporre con più arroganza il proprio punto di vista, e spesso noi restiamo convinti non tanto di quello che ha detto una persona, che neanche ce lo ricordiamo, ma del fatto che ha avuto la meglio, che ha vinto sull’altro, è stato più disinvolto, ha attaccato l’avversario con più veemenza, ecc…
Abbiamo visto morire una certa idea di famiglia larga che comprendeva magari anche 4 o 5 generazioni, arrivava a comprendere i cugini e i quasi-parenti (quelli che si chiamavano zii, vicini e amici di famiglia), cosa che l’allungamento della vita media renderebbe oggi più possibile. Invece la famiglia è sempre più spesso di 2 generazioni, perché i vecchi sono fastidiosi e vengono espulsi dal nucleo familiare, i bambini si evitano perché sono spese e prendono tempo. La famiglia tende a restringersi all’individuo (sempre più spesso solo perché il matrimonio si rompe) o con i genitori (fino a che non sono troppo vecchi) o con un figlio (non più di uno sennò è fatica).
In questo clima il Vangelo che viene proclamato ogni domenica appare sempre più fuori moda. Esso infatti non pretende di imporsi con la forza o perché gridato. Non aggredisce né vuole distruggere il nemico. Dio parla a un popolo e non all’individuo in quanto tale. Propone una prospettiva di speranza collettiva per il futuro. Ha una idea di società che è una proposta rivoluzionaria (vedi ad esempio le beatitudini). Pretende di cambiare la storia dell’umanità intera, ecc…
Noi, figli della mentalità del mondo che descrivevo, tante volte cerchiamo di ridurre il Vangelo ad una dimensione più piccina, depotenziandolo della sua carica di cambiamento della storia collettiva e di rivoluzione, di squilibrio, per farne invece qualcosa di rassicurante e che fa stare meglio me, ignorando la sua convocazione di un popolo.
Lo si vede ad esempio in un senso un po’ intimistico in cui la fede è qualcosa che si gioca fra me e me, che non si vede all’esterno. Lo si vede nella convinzione che le cose veramente decisive per il corso della storia sono altrove, i veri potenti e quelli che contano sono altri, e si guarda con diffidenza a chi se ne occupa.
La chiesa si sfalda in tanti “io” individuali che non si connettono fra di loro: io faccio le mie cose e tu le tue, che bisogno c’è di mettersi insieme? Lo vediamo a tanti livelli: nell’assemblea liturgica, nelle attività parrocchiali, tanti individui si giustappongono e ciascuno prende quello che è più consono a lui, ciò che sembra più adatto. Va bene, posso accettare che uno ritenga più importante fare qualcosa, ma allora perché non lo propone ad altri e non li coinvolge nel farlo assieme?
D’altronde le soddisfazioni vengono dal mio privato, dai piccoli scenari domestici o in cui io sono protagonista e decisivo, in cui sembra che quello che decido io conta veramente. Lì sì che esprimo me stesso! Lì sì che sono apprezzato, necessario, mi realizzo! Ad esempio notiamo un rafforzarsi di un senso della propria famiglia come piccolo mondo chiuso, ambiente che mi da sicurezza perché m’illudo di controllarlo e in cui io mi realizzo, in nome del quale tutto passa in secondo piano. Il discorso evangelico sulla famiglia è ben diverso dalla caricatura che spesso viene contrabbandato come “idea cristiana della famiglia”. I pochi passi del Vangelo in cui Gesù parla della famiglia contengono un messaggio molto forte, ma mai la si propone come ambito di autorealizzazione e piccolo mondo in cui rinchiudersi per trovare la propria soddisfazione ignorando il resto.
Ad esempio papa Benedetto nel giorno della festa della santa famiglia diceva ai poveri con cui ha pranzato alla mensa di Sant’Egidio a Roma: “Sono venuto tra voi nella Festa della Sacra Famiglia perché in un certo senso essa vi assomiglia: Anche la famiglia di Gesù, fin dai primi passi ha incontrato difficoltà, ha vissuto il disagio di non trovare ospitalità, fu costretta ad emigrare in Egitto per la violenza del re Erode. Voi conoscete la sofferenza ma avete qui, qualcuno che si prende cura di voi, anzi, qualcuno qui ha trovato la sua famiglia grazie al servizio premuroso della Comunità di Sant'Egidio, che offre un segno dell’amore di Dio per i poveri.”
Davanti a questa tendenza oggi ci chiediamo allora: Cosa viene a dirci il Vangelo della Quaresima che inauguriamo col gesto austero e solenne dell’imposizione delle ceneri?


La liturgia di oggi ci propone un brano del profeta Gioele (2,12-18) :

«Ritornate a me con tutto il cuore, 1
con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,

perché egli è misericordioso e pietoso, 2
lento all’ira, di grande amore,
pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?

Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio. 3
Suonate il corno in Sion,
proclamate un solenne digiuno,
convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo,
indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.

Tra il vestibolo e l’altare piangano 4
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».

Il Signore si mostra geloso per la sua terra 5
e si muove a compassione del suo popolo.

Vorrei provare con voi ad evidenziare in ogni paragrafo del brano di Gioele un messaggio, una proposta di itinerario per la nostra Quaresima.

1. Quaresima come tempo del ritorno
Il profeta invita ad un ritorno a Dio, e la Quaresima è “tempo del ritorno”.
Tornare ciascuno dal suo cammino individuale, dal protagonismo sugli scenari personali, per ritrovarci assieme attorno a Dio: è l’immagine della liturgia che ci fa convergere tutti in un unico luogo. È tempo di pentimento e di cammino di conversione, cioè di cambiamento di strada.

2. Intenerire il cuore
Questo cammino è principalmente un itinerario interiore (lacerare il cuore e non le vesti) cioè non è solo un qualche aggiustamento ma uno strappo col passato.
La Quaresima, ci dice la Scrittura, chiede uno sforzo di chiarezza su quali sono i sentimenti che animano la nostra vita quotidiana. Dobbiamo chiederci se sono sentimenti di bontà, generosità, misericordia, o un senso di indifferenza o il desiderio di prevalere e di imporsi, di trovare un proprio ambito tranquillo in cui cercare il bene per sé e basta?
Noi spesso pensiamo che ci sia come una dicotomia fra le mie azioni concrete, come mi comporto, che va da sé sul binario dell’abitudine e della spontaneità istintiva di come sono fatto io, e poi i sentimenti che sono legati solo alla sfera dell’intimità. Il Vangelo di Quaresima ci svela una profonda unità: quello che abbiamo nel cuore lo esprimiamo nei nostri gesti e scelte quotidiane. Possiamo tornare a Dio solo se laceriamo il cuore.
Se abbiamo una umanità avara o gretta, il nostro comportamento sarà altrettanto.
Se siamo duri e insensibili, il nostro agire sarà ugualmente duro e insensibile. Ecc..
Ecco allora la necessità di squarciare il cuore, di farne uscire il male che vi trova ospitalità. Questo perché si possa riempire della tenerezza e misericordia che Gioele riporta come le caratteristiche di Dio, perché divengano anche quelle del nostro cuore.

3. Radunarsi in un popolo, convocare tutti, non far mancare nessuno
Una volta aperto il cuore e reso tenero dall’incontro col Signore, il popolo torna a riunirsi. La tenerezza intreccia i fili dispersi di un tessuto umano sfilacciato, ricuce gli strappi, tesse la tela facendo di tante individualità sparse un popolo. Senza l’opera di tessitura della tenerezza la fede rimane un fatto privato e individuale, privo della incisività necessaria. C’è bisogno di pensarsi in un popolo in cui ci sia posto per tutti: vecchi, fanciulli, lattanti, e non c’è un vincolo familiare che giustifichi un porsi in disparte dal popolo (“lo sposo e la sposa escano” e non stiano fra di loro).

4. essere ministri del perdono di Dio per proteggere il mondo dal male
Il popolo svolge un ministero (il sacerdozio universale), cioè ha un ruolo nella storia collettiva e non solo personale di ciascuno: rendere accessibile il perdono di Dio all’umanità intera. Paradossalmente è proprio la sottomissione a Dio nell’umiltà, e quindi un atto di debolezza, a porre il popolo al riparo dalle minacce esterne e degli altri popoli e le conseguenti sventure. Non è l’irrigidimento, così diffuso, difensivo e spaventato o la chiusura in ambienti circoscritti a poter dare sicurezza e felicità.

5. essere figli della gelosia di Dio e non dell’orgoglio di sé
Il popolo può essere sicuro del perdono di Dio, perché egli “è geloso”, cioè il suo amore non ammette di essere messo in dubbio, nemmeno dal nostro tradimento. Si è poco gelosi quando si vuole poco bene. Se siamo traditi non ci importa perché per noi è normale. Questa fedeltà solida dell’amore di Dio si esprime nella sua tenerezza per noi ed è la nostra salvezza.
Il gesto dell’imposizione della cenere è dunque il modo con cui noi significhiamo la nostra sottomissione all’ amore di Dio. Lo facciamo all’inizio di un cammino di cui abbiamo delineato le tappe, non ne è la conclusione, e la certezza della fedeltà dell’amore del Signore è la premessa che dà senso al nostro incamminarci per ritornare a Dio.

Proviamo a spendere il nostro tempo di Quaresima su questo sentiero tracciato. Le cinque settimane di quaresima seguano le cinque tappe cui accennavo e il nostro incontrarci durante queste settimane siano l’occasione per una verifica fraterna, alla luce della Scrittura, del cammino compiuto.







Preghiera dell’imposizione delle ceneri



Salmo 50


Mt 6,1-6.16-18
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.
Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».

Commento
Le parole che abbiamo ascoltato fanno parte del discorso della montagna, cioè si collocano proprio all’inizio della predicazione di Gesù, subito dopo aver chiamato i primi discepoli a seguirlo. Il Vangelo di Matteo dice che grandi folle lo seguivano per ascoltarlo e Gesù inizia con loro la sua predicazione.
Fin da questo primo discorso Gesù mostra con forza che il Vangelo è qualcosa di radicalmente diverso. Inizia con le beatitudini, scandalose e paradossali, e poi prosegue proponendo tutta una serie di comportamenti che contraddicono il buon senso o la tradizione, introdotti dalla formula “avete inteso che fu detto … ma io vi dico”, e prosegue ancora a lungo, tanto che, dice Matteo, al termine del discorso “le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi”. (7, 28-29)
In questo spirito di forte rottura con le tradizioni del mondo ci siamo dunque oggi radunati per ricevere la cenere sul capo. E’ questo infatti un gesto che contraddice lo spirito del mondo e ci rende figli di un altro Spirito, quello di Gesù. Nel mondo infatti sottomettersi e chinare il capo è un gesto infamante, la cenere della nostra vita non è mostrata agli altri come oggi facciamo sulla fronte, ma è nascosta da involucri appariscenti e resa invisibile agli altri. Fa paura mostrare la propria debolezza e vulnerabilità.
Noi però non abbiamo voluto dissimulare la fragilità che la cenere simboleggia, né il bisogno di sottometterci ad un Padre buono, perché non siamo schiavi della paura. Il Signore infatti ci dono uno spirito da figli e non da schiavi, come dice l’Apostolo: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!" (Rm 8,15).
Ma dove trovare la forza per seguire il Signore su una strada così ardua? Con le parole che abbiamo ascoltato Gesù ci indica le armi che ci rendono così forti da vincere ogni paura: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Sono le armi che rendono forte il cristiano.
Sì, l’elemosina ci fa fermare accanto a chi è povero e ci fa vivere sentimenti di misericordia e compassione. E’ il modo che Dio indica ai ricchi per divenire loro compagni e legarsi ad essi, per confondersi con loro. Ciò ci rende forti, perché ci libera dalla schiavitù dell’orgoglio, ci insegna ad essere umili e ad ammettere il nostro bisogno senza nasconderlo. Per questo, come dice il vangelo, la carità non è solo un gesto esteriore o formale, ma è la tenerezza vissuta per chi è debole, qualcosa che ci trasforma dentro in modo radicale.
Poi la preghiera, cioè l’invocazione a Dio perché riempia il vuoto della nostra povertà. Sì, solo se partiamo da una consapevolezza umile e bassa di noi, e cioè ci sgonfieremo dall’orgoglio che ci fa sentire a posto o in credito con tutti (come gli ipocriti) saremo in grado di pronunciare le parole della preghiera, e non formule vuote. E la preghiera quando è così viene sempre esaudita con il dono dello Spirito.
Infine il digiuno, cioè l’astenerci dal riempire il vuoto della nostra vita con le false soddisfazioni del mondo, i ruoli, l’arroganza del senso alto di sé, le false gioie delle passioni passeggere, per sentire la fame dell’amore di Dio.
Fratelli e sorelle, il gesto di oggi è l’inizio di un cammino che ci porterà, alla fine della settimana santa, a contemplare Cristo risorto e a risorgere con lui come dice S. Paolo (“con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.” Col 2,12). Umilmente allora teniamo il capo chino per vedere il nostro peccato e il bisogno di perdono ed accorgerci di chi è povero, segnamoci il capo con la cenere della preghiera e profumiamocelo col digiuno da noi stessi. Giungeremo così a vincere la paura della morte che Gesù sulla croce ha sconfitto definitivamente.

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