martedì 27 aprile 2010

Meditazioni Quaresima 2010 - III


II tappa: Quaresima tempo per Intenerire il cuore

perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore,
pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?

Il profeta Gioele continua a guidarci nel cammino di Quaresima con questa seconda tappa.
Abbiamo visto nel nostro incontro scorso come questo tempo è prezioso per riconquistarci un cuore autentico nel quale fare spazio al bene, vero tesoro che ci rende ricchi e capaci di trarne, in futuro, la benevolenza, la mansuetudine, la mitezza, la pazienza ecc..,. di cui l’Apostolo ci esorta ad essere capaci, per divenire come lo scriba saggio del Vangelo: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. (Mt 13,52) Noi vogliamo diventare discepoli del regno dei cieli, e non padroni di una piccola vita, capaci di estrarre dal tesoro del cuore cose utili e buone.
Ma cosa è il bene che dobbiamo mettere da parte nel tesoro?
Già la volta scorsa parlavamo di una mentalità materialista che ci fa dare molta importanza a “quello che si fa”, piuttosto che a “come siamo”. E’ una mentalità che valorizza l’attività, l’impegno, l’agire, l’organizzazione e l’efficienza, ma tralascia come secondaria l’attenzione al cuore con cui si agisce. La Quaresima vuole rimettere al centro il cuore.
Paolo ai cristiani di Corinto un testo, chiamato inno alla carità, nel quale delinea alcuni tratti di questo contenuto di cui riempire il nostro tesoro, in contrapposizione con la naturale attenzione riversata tutto su quello che sappiamo fare:
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
L’Apostolo elenca tutti i doni più desiderabili per un uomo di fede: saper parlare direttamente con Dio (le lingue degli angeli); conoscere tutto, i perché della vita e della morte; la capacità di compiere cose impossibili e la generosità estrema. Tutto però ha senso solo in una prospettiva di amore. Se è fatto per trarne vanto, cioè se il fine ultimo siamo noi stessi e il nostro vantaggio personale non serve a niente. Questa misura ci insegna a valutare le nostre azioni: il loro scopo è in me o fuori di me, nell’altro? Quello che faccio, come agisco è per trarne soddisfazione e conferma delle mie capacità, per raggiungere rassicurazioni e conforto per me, o è per il bene di qualcuno?
A noi sembrano traguardi irraggiungibili già le mete descritte come insufficienti. In realtà Paolo sembra adombrare che tutto è possibile e a portata nostra, se vogliamo bene.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Paolo prosegue tratteggiando alcune caratteristiche della carità, senza ovviamente esaurirle. Come si vede sono tutte attitudini che non iniziano e finiscono in me stesso, ma coinvolgono necessariamente un altro e in complesso mi sembrano voler come descrivere la capacità di avvolgere l’altro con un abbraccio affettuoso di amicizia. Sono atteggiamenti in cui non sono gli altri a doversi adattare a noi, ma siamo noi, per così dire, a prendere la loro forma. Un cuore intenerito è capace di avvolgere il fratello e assumerne l’impronta, riempirne i solchi causati dalle durezze della vita e smussarne le punte aspre.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.
Paolo continua facendo un confronto fra i traguardi che ci sembrano cosi elevati, ma so parziali e passeggeri e la carità che invece non finisce, sia nella sua vastità (è la cosa che abbraccia tutto e arriva ovunque) sia che dura in eterno (nulla la può cancellare). In questo senso la carità è la perfezione, non perché chi la possiede non ha più difetti, ma perché rende simili a Dio, che è amore. Quando arriva la perfezione che è l’amore tutto ciò che è ci sembrava cosi alto e desiderabile scompare.
Paolo parla di una visione nello specchio, cioè indiretta. Spesso infatti noi guardiamo al fratello e alla sorella attraverso una immagine che ne abbiamo, più o meno scontata o superficiale, distorta, ma la carità ci fa guardare in volto l’altro e amarlo.
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
(1Cor 13,1-13)
L’Apostolo fa una affermazione quasi irriguardosa: La carità è più grande della stessa fede in Dio. E’ vero, perché un cuore che non sa voler bene non si può affidare a qualcun altro, nemmeno a Dio.
Gioele offre di Dio una immagine bella e attraente: il suo voler bene è così forte da fargli cambiare idea su di noi e da offrirci la sua benedizione, anche se non la meritiamo, o piuttosto proprio se ammettiamo di non meritarla. E infatti la fonte del nostro essere capaci di voler bene è nello esserlo stato da lui per primi.
“Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto.” (Col 3,12-14)
L’atteggiamento dell’umile che ammette la propria indegnità e riconosce che è lui per primo ad essere stato beneficato suscita, quasi obbliga, Dio alla benevolenza.
E’ il messaggio della quaresima che ci chiede in modo speciale di riconoscere il nostro peccato e di pentirsi, quasi di consentire a Dio di volerci bene.

In conclusione vorrei proporvi l’esempio di un uomo che ha percorso questa via della conversione del cuore che lo ha portato a cambiare tutta la sua vita.
Francesco di Assisi infatti, come sappiamo bene, visse un itinerario che lo portò da una vita spensierata e piena di soddisfazioni effimere alla ricerca di un senso più pieno per la sua vita. Il biografo ci descrive come mentre ancora conduceva un’esistenza “normale”, divisa fra il commercio nella bottega paterna e le riunioni goliardiche con i compagni di baldoria, iniziò a dedicare alcuni momenti alla riflessione sul senso di quello che faceva.
Possiamo dire che Francesco piano piano riscopre il suo cuore, nel senso che intendevamo l’altra volta, cioè riacquista una dimensione interiore prima atrofizzata, di cui ora avvertiva il vuoto e l’inconsistenza.
In questo contesto si situa un incontro che risultò decisivo per la sua vita. Mentre vagabondava per le campagne infatti si imbatté in un lebbroso che viveva ai margini del mondo civile. Si fermò, scese dal cavallo e stette con lui. Nel suo Testamento Francesco stesso definisce questa esperienza così:
Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo. (1-3)

Il testo dice che “usò misericordia”. È quell’intenerimento del cuore che si esprime in gesti di amicizia e condivisione, fino a giungere a abbracciare e baciare il lebbroso. Questo gesto nasce da un cuore che si è lasciato squarciare, in cui ha fatto breccia la compassione e la benevolenza per l’altro, specialmente chi è più povero.
Francesco indica in questa esperienza l’inizio del suo cambiamento di vita (“uscii dal secolo”). La misericordia pertanto non è stato il frutto di un suo precedente itinerario religioso, ma l’apertra del cuore al povero lebbroso e la scoperta della bellezza del’esperienza della misericordia vissuta gli apre l’orizzonte della fede.
Solo dopo Francesco incontra il Crocefisso, ma è già “uscito dal secolo”, e lo sente come una domanda personale - gli parla - perché riconosce in quell’immagine dolorante il povero con cui ha vissuto misericordia. Il lebbroso è stato per lui mediatore, ministro dell’incontro con Cristo. Francesco è capace di trarre dal suo tesoro l’amore compassionevole per il crocefisso perché ve lo ha fatto entrare nel tempo della ricerca e dell’incontro con la debolezza umana.
Questi episodi ci fanno capire meglio l’invito di Gioele a lacerare il cuore e a farvi entrare la tenerezza che Dio per primo dimostra nei nostri confronti.
La via della tenerezza ci accompagna verso il crocefisso e fa sì che esso ci parli e non resti una immagine muta. Ma ministri (cioè servitori) di questa scoperta sono i poveri, evangelizzatori della nostra vita.
Noi abbiamo bisogno della mediazione dei poveri per giungere all’incontro personale con Dio sulla via maestra che è la tenerezza e la misericordia.




Preghiera di Quaresima

Qoelet 3,1-15

Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?
Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso.

Commento
Qoèlet è una parola ebraica che indica il “predicatore”. Sotto il suo nome la Scrittura ci offre un libro piccolo e prezioso in cui riceviamo la voce viva della sapienza antica di Israele.
L’autore parte dalla constatazione che la vita è ricca di tanti elementi contraddittori nei quali siamo come trascinati senza che ne comprendiamo il senso a pieno.
È l’avvicendarsi degli eventi, ma anche il susseguirsi di sentimenti contraddittori o il ritorno del male che si affaccia nella nostra vita inatteso.
Siamo turbati e sconvolti da questa realtà. Se guardiamo alla vita con gli occhi della Scrittura, senza fuggire gli aspetti che ci turbano, la vita ci appare, lo dicevamo già le scorse settimane, nella sua dimensione di lotta fra bene e male, fra vita e morte.
E’ questa dimensione che noi sfuggiamo, perché esige una scelta: noi da che parte stiamo? Abbiamo paura a prendere posizione perché ci pensiamo da soli: che possiamo pretendere dalle nostre fragili, limitate forze?
Qoèlet ci da la risposta questa domanda: non siamo soli “Dio compie dal principio alla fine”. Sì basta che noi accettiamo che sia il Signore a compiere quello che noi iniziamo o che la vita ci mette davanti. Ma questo non vuol dire essere rinunciatari o affidarci alla provvidenza senza fare nulla, ma diventare noi strumenti del compimento che Dio vuole dare alle vicende umane.
Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere, dice Qoèlet, il compimento delle nostre opere se è ispirato da Dio, e non dalla nostra sapienza mondana, rende solide e durature le conquiste.
Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso. Nulla si perde di ciò che Dio compie, anche se sembra venire meno alla nostra vista. E’ il destino delle nostre vite, fragili, passeggere, ma che in Dio hanno un fondamento che le rende in qualche modo etene.

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