lunedì 26 aprile 2010

Scuola di preghiera 2005 I


I - “Presi quel piccolo libro e lo divorai ...” Pregare con la Bibbia

Vidi poi un altro angelo, possente, discendere dal cielo … Nella mano teneva un piccolo libro aperto. ... Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: “Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”. Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza.” (Ap 10, 1-11)
Iniziamo questi nostri incontri con un brano tratto dall’Apocalisse. Questo libro del Nuovo Testamento è il racconto di una rivelazione (questo significa la parola greca apokàlipsis) che Giovanni ricevette sull’isola di Patmos, vicino all’Asia Minore. Con essa Dio ha voluto mostrare agli uomini, tramite Giovanni, qual è il futuro che attende l’umanità al compimento dei tempi, quando sarà realizzata la coabitazione di Dio con gli uomini nella nuova Gerusalemme.
Fra le tante immagini che l’autore dell’Apocalisse descrive, vi è quella dell’angelo con un piccolo libro fra le mani. Egli ricorda con voce forte la promessa, fatta da Dio già al tempo dei profeti, di un giorno in cui sarà instaurato un regno definitivo, pacificato dalla presenza di Dio fra gli uomini. Ed ecco che questo stesso angelo offre da mangiare a Giovanni il libro che ha in mano, come per dire che l’avvento del nuovo regno verrà attraverso un’assimilazione piena del contenuto di quel libro, fino a farlo divenire carne e sangue degli uomini. Qual libro è la Bibbia e la dolcezza e amarezza che Giovanni prova nel mangiarlo sono la stessa dolcezza che anche noi abbiamo provato tante volte nel leggere le sue pagine, assieme all’amarezza di vederci ancora così lontani dall’umanità che è in essa descritta.
Questo brano raffigura il cammino dell’umanità verso il traguardo del giorno bello in cui si realizzerà la promessa della vita con Dio, ma fin da subito ci è dato di vivere come un’anteprima di quella realizzazione definitiva. Infatti l’incontro con Dio non è circoscritto solo alla fine dei tempi, o a dopo la morte, ma è una realtà accessibile a tutti fin da ora. Ci sono dei luoghi o dei momenti privilegiati di questo incontro, e la preghiera è uno di questi spazi di incontro. Anzi è l’incontro stesso con Dio. Incontro che si presenta sotto la forma di dialogo personale, niente di più e niente di meno. E’ una grande semplicità che racchiude un’estrema complessità e profondità. Come ogni rapporto personale infatti, anche la preghiera è qualcosa di indispensabile alla vita dell’uomo, tanto che i padri greci la definivano “il respiro dell’anima”, e proprio come il respiro, la preghiera è qualcosa di possibile per tutti, ma non è naturale, né viene spontanea.
Il nostro desiderio è allora con questi incontri provare a imparare a pregare, cioè apprendere a dialogare personalmente con Dio. Infatti se è naturale sentirne il bisogno e il desiderio, non è altrettanto naturale saperlo fare. Il dialogo è un’arte e come tutte le arti si impara, richiede pazienza e molta pratica, si sbaglia e ci si corregge, si diviene più esperti ma non si è mai arrivati. Diceva un antico sapiente ebreo: “Se un uomo ti dice: Mi sono sforzato e non ho trovato, non credergli. Se egli dice: Non mi sono sforzato eppure ho trovato, non credergli. Se egli dice: Mi sono sforzato e ho trovato, puoi credergli.” Anche il dialogo con Dio, il dialogo personale con Dio nella preghiera, è un’arte che va imparata. A questo serve una “scuola di preghiera” in cui ci facciamo tutti discepoli dell’unico Maestro, come dice il Vangelo: “E non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo” (Mt 23,10).

Gli interlocutori: io

La preghiera innanzitutto, come ogni dialogo personale, richiede che ci siano due interlocutori e un contenuto della conversazione.
Nella preghiera gli interlocutori siamo io e Dio, e perché ci sia preghiera è necessario che ci siamo tutti e due, altrimenti è un moltiplicare parole vane. Perché infatti il dialogo sia personale c’è bisogno non solo della presenza fisica dei due interlocutori, ma il coinvolgimento di entrambe in un discorso comune.
A volte nel pregare quello che viene meno è proprio l’io. C’è bisogno infatti che sia coinvolta l’interiorità dell’uomo e della donna. Dice Gesù: “Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6,6) proprio per sottolineare come la preghiera è una dimensione di intimità col Padre. Coinvolge cioè i nostri sentimenti, i desideri, i sogni e le speranze, i timori e le preoccupazioni, le delusioni, le convinzioni, la gioia, lo stupore, l’amarezza, ecc... Parlare di interiorità non vuol dire trattare di concetti astratti o di sentimenti ineffabili, ma di tutta la nostra vita che è composta di fatti concreti, di situazioni pratiche, ma anche di come noi viviamo tutto questo, di quello che ci suscita (o non ci suscita) dentro, delle reazioni, dei bisogni, ecc... L’interiorità non è neppure la propria spontaneità. Non è detto che quello che ci viene istintivo da dentro sia l’espressione più vera o sincera di noi. Magari è più frutto di come siamo abituati a pensarci o a reagire davanti alle situazioni, ma dobbiamo sforzarci ad andare oltre le reazioni automatiche, che sono superficiali e non interiori. Infatti se è vero che ognuno ha un suo profilo umano, un’ interiorità in quanto persona, questa interiorità può però essere affinata, fatta crescere, resa più profonda e ricca.
L’interiorità
Ecco allora il primo problema: per pregare bisogna innanzi tutto costruirsi una interiorità, cioè, per dirla col Vangelo, bisogna costruirsi la stanza in cui chiudersi per pregare (cfr. Mt 6,6). In questo modo si potrà parlare con Dio coinvolgendo tutta la propria vita e non solo una parte, che in genere è quella che a noi fa più comodo, o che sentiamo più “nostra”: può essere, a seconda dei nostri stati d’animo, la parte di noi lamentosa e vittimista, o quella esaltata, o quella romantica e sentimentale, ecc... Infatti il livello di profondità di un dialogo, e con Dio non è diverso, dipende dall’interiorità. Se una persona è superficiale, anche il dialogo sarà banale, scontato e sciatto, perché esposto alle ventate di egocentrismo, degli umori, della distrazione, non fermati dalle pareti di una stanza ben protetta, per dirla con il Vangelo.
Ma come si fa a costruirsi la stanza dell’interiorità per pregare? C’è un solo modo: la via della Scrittura. Per tornare alla citazione dell’Apocalisse, da cui siamo partiti, l’interiorità si nutre del piccolo libro della Bibbia, cibo sostanzioso e dal gusto deciso e non banale.
Infatti leggere la scrittura è ascoltare Dio che attraverso di essa ci parla e ci offre i mattoni con cui tirare su le mura della stanza. Ci chiediamo allora: come può essere personale un dialogo basato sulla lettura di parole che sono scritte tanto tempo fa e che sono uguali per tutti?
Scrive Geremia: “La mia parola non è forse come il fuoco - oracolo del Signore - e come un martello che spacca la roccia?” (Ger 23,29). San Girolamo commentando questo brano afferma che come quando il martello colpisce la roccia si sprigionano una moltitudine di scintille, allo stesso modo il rapporto del cristiano con la Parola di Dio deve essere come quello di uno scalpellino con un blocco di marmo. Il marmo è la Scrittura, e chi rimane alla sua superficie vede solo un masso freddo e scuro. Lo scalpellino lavora il marmo colpendolo con il martello, così come il testo della Bibbia va scavato con la lettura e la riflessione. Dai colpi di martello escono scintille di fuoco: queste sono per Girolamo le Parole di Dio rivolte a chi scava la Scrittura. Se noi colpiamo la roccia della Scrittura essa sprigiona scintille, illuminandoci con sprazzi di luce.
Infatti leggendo la Scrittura da un lato noi l’interroghiamo, ma allo stesso tempo è lei che ci interroga, affinché noi dialoghiamo con lei, cioè con Dio. Ascolto e colloquio si intrecciano se prendiamo in mano la Scrittura e se la leggiamo e meditiamo, con semplicità e disponibilità di cuore. La voce di Dio infatti si mescola alla nostra, come dice il Salmista: “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (Sal 62,12). Ha scritto Dietrich Bonhoeffer (teologo protestante assassinato dai nazisti per ordine di Hider nel campo di concentramento di Flossenbürg il 9 aprile 1945): “Non possiamo infatti leggere la Bibbia così come leggiamo altri libri. Dobbiamo essere pronti a porle realmente delle domande.” Anche Cristo ha interrogato drammaticamente il Padre nel momento tragico della morte: “Dio mio, Dio mio, Perché mi hai abbandonato” (Mt 27,46), “e interrogare la Bibbia è interrogare chi ha già in sé la risposta, cioè è entrare nel rapporto profondo con Dio che è la preghiera” (Enzo Bianchi).
Mentre leggiamo o ascoltiamo la Parola essa entra nel nostro intimo e ci trasforma, essa si crea in noi lo spazio per poter restare in noi, la camera. Dicono gli apostoli ad Emmaus: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32) Camminare in compagnia delle Parole di Gesù ci scalda il cuore, donandoci una umanità rigenerata, capace di sentimenti nuovi.
Per questo nella preghiera non è tanto questione di essere spontanei, ma piuttosto essere sinceri, cioè così come il Signore ci vuole e la Parola ci trasforma. Per esempio, noi diciamo con il Salmista: “Ti amo, Signore, mia forza” (Sal 18,l) anche se sappiamo che il nostro amore è ancora tanto imperfetto e limitato, ma con quelle parole vogliamo esprimere il desiderio di superare se stessi e amare il Signore sempre di più. Questo conta più dell’imperfezione attuale. Vuol dire non essere sinceri? No, è aderire alla verità della propria vita così come Dio la vuole e ci suggerisce. La spontaneità nel pregare, per fare un paragone, è mostrare la creta di cui siamo fatti, la sincerità è invece far trasparire l’opera d’arte che Dio vuole ricavare da quella creta e che man mano, se facciamo lavorare la sua Parola dentro di noi, si realizza gradualmente. E’ questa la nostra verità interiore, anche se ancora tanto imperfetta e solo abbozzata, più desiderata che realizzata: infatti in un’opera d’arte non ammiriamo la creta o il metallo di cui è fatta, ma la bellezza dell’opera, cioè come la creta o il metallo sono stati plasmati dalle mani dell’artista. Così la verità della nostra vita non è tanto nel nostro carattere, nel modo come siamo fatti, in come ci viene spontaneo di essere, questa è la creta. Piuttosto è nel disegno bello che Dio vuole plasmare con la terra di cui siamo fatti, anche se riusciamo ancora a scorgerne solo l’abbozzo. La preghiera è il modo con cui facendo entrare la Parola di Dio dentro di noi, e iniziando un dialogo interiore fra noi e Dio facciamo sì che essa ci plasmi interiormente.
Possiamo dire che pregare è l’unico modo possibile, per l’uomo di fede, di leggere la Scrittura. Infatti se non facciamo uscire fuori le scintille della Parola di Dio con la fatica dello scavo nella roccia della Scrittura, restiamo muti davanti a un testo muto. Dice Girolamo: “Il Vangelo lo capisce solo chi lo vive” cioè chi si fa porre domande, chi entra in dialogo con la Parola di Dio, chi fa sì che essa entri nelle pieghe della nostra vita trasformandola. Dopo la lettura della Parola di Dio, come dopo la preghiera, non possiamo essere gli stessi di prima: il Signore ha lavorato la creta della nostra vita e gli ha dato una forma nuova. Un altro padre della Chiesa, Gregorio Magno, diceva: “La Bibbia cresce assieme a chi la legge”, cioè si arricchisce di sempre nuovi significati con la crescita dell’interiorità di chi la legge. E’ l’amore infatti che fa vedere e capire meglio: “Soltanto il cuore vede il Verbo” diceva S. Agostino, esprimendo che l’incontro col Signore avviene solo se siamo coinvolti affettivamente. Si realizza così il paradosso che solo leggendo la Parola di Dio riusciamo a pregare e allo stesso tempo solo in atteggiamento di preghiera possiamo leggere la Parola di Dio.

Gli interlocutori: Dio

Oltre a me stesso dunque, per dialogare con Dio deve esserci anche lui. Anche questo non è scontato. Infatti se è vero che Dio è sempre presente, scruta il nostro cuore, ci conosce e si fa conoscere, non è detto che noi proprio con lui desideriamo parlare. Infatti è molto più comodo parlare con se stessi: ci si da sempre ragione, si è sicuri delle risposte che riceveremo, restiamo insomma su un terreno conosciuto e tranquillo. E’ facile così che nella preghiera noi teniamo lontano Dio, rendendolo una presenza muta e sorda, come un idolo. I profeti denunciarono spesso questo atteggiamento degli israeliti che, pur avendo conosciuto il Signore, continuavano a rendere culto agli idoli: “A che giova un idolo perché l’artista si dia pena di scolpirlo? O una statua fusa o un oracolo falso, perché l’artista confidi in essi, scolpendo idoli muti?” (Ab 2,18), “Tu hai reso lode agli dei d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro, di legno, di pietra, i quali non vedono, non odono e non comprendono e non hai glorificato Dio, nelle cui mani è la tua vita e a cui appartengono tutte le tue vie.” (Dn 5,23), “Gli idoli dei pagani sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida.” (Sal 115,5-8), ecc...
Ancora oggi preferiamo rivolgerci ad un Dio muto e sordo, che non ci contraddica, che sia prevedibile e scontato, che faccia come noi ci aspettiamo o pretendiamo. E’ quando non ascoltiamo lui che parla, ma pretendiamo di sapere già cosa ha da dirci. E’ quando pensiamo che non importa avere qualcosa da dirgli, e per questo ci rivolgiamo a lui con parole stereotipate. Ci facciamo cioè un Dio a cui non importa chi siamo noi, e non chiede di essere ascoltato e capito. Lo sostituiamo con un nostro simulacro, un idolo, il “nostro” Dio. Ma Dio non si fa imprigionare in una immagine, severa o romantica che sia, burbera o sdolcinata, giudicona o sentimentale. Dio è una persona, e come tale è complessa e multiforme, va continuamente capita e conosciuta, e l’unico modo per farlo è volergli bene, cioè starlo a sentire.
Anche in questo caso la Scrittura è l’unica via che ci può far conoscere Dio, dirci chi è. Talvolta il Dio che preghiamo assomiglia più ad un concetto che ad una persona, è più il frutto dei nostri ragionamenti su Dio che dell’ascolto di lui. E’ come quando ci facciamo un’idea di qualcuno senza averlo mai conosciuto personalmente: ne risulta una caricatura.
Eppure Dio fin dall’inizio della storia dell’umanità si è sforzato in tutti i modi possibili di farsi conoscere: ha utilizzato gli eventi storici, le parole, a volte anche la sua lontananza, per far accorgere gli uomini del bisogno che hanno di lui. Ha utilizzato cioè modi ordinari e straordinari per farsi incontrare, per intrecciare con gli uomini di tutti i tempi un dialogo sincero. Dice il Signore: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.” (Dt 30,12-14) Il profeta Geremia afferma: “Io sono un Dio da vicino, dice il Signore, e non un Dio da lontano” (Ger 23,23)
La Parola di Dio si può dire che non è altro che il resoconto di tutti questi sforzi di Dio.
Tante volte viene data molta enfasi alle fatiche degli uomini in ricerca di Dio. Itinerari il più delle volte tormentosi e combattuti. Sembra quasi che l’uomo per arrivare ad avere un rapporto con Dio debba fare sforzi sovraumani, al di sopra delle possibilità della gente comune. In realtà questa idea è frutto dell’egocentrismo degli uomini, propensi a mettere in evidenza sé e i propri sforzi, piuttosto che quelli degli altri. Infatti se leggiamo la Scrittura con attenzione, ci accorgiamo che è la storia della ricerca affannosa degli uomini da parte Dio e dei rari momenti in cui questi si sono accorti di lui e lo hanno ascoltato. Dice il Signore: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me.” (Ap 3,20) e il profeta Isaia aggiunge “Cercate il Signore mentre lo si può trovare, invocatelo mentre è vicino.” (Is 55,6) L’incarnazione del Verbo che cos’altro è se non l’estremo tentativo di farsi conoscere da vicino, per instaurare un rapporto con l’uomo a tu per tu? Dice S. Paolo: “… Cristo Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.” (Fil 8,5-8) E’ la realizzazione di quanto affermato da Isaia: “Mi feci ricercare da chi non mi interrogava, mi feci trovare da chi non mi cercava. Dissi: “Eccomi, eccomi” a gente che non invocava il mio nome. Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle.” (Is 65,1-2)
La preghiera, in ultima analisi, possiamo dire che è quindi un “lasciarsi trovare” da Dio. Dice il salmista: “Il Signore dal cielo si china sugli uomini per vedere se esista un saggio: se c’è uno che cerchi Dio.” (Sal 13,2)
Ecco allora che non solo la Scrittura ci aiuta a costruire la nostra interiorità, rendendoci così interlocutori capaci di dialogare con Dio, ma anche ci fa conoscere Dio, per imparare a rivolgerci a lui e non agli idoli sordi e muti che ci costruiamo da soli.

Il contenuto della preghiera

Siamo giunti a chiederci quale deve essere il contenuto della nostra preghiera. Innanzitutto pregare non è solo chiedere. Lo capiamo bene se la preghiera diventa una pratica costante e regolare, e non solo lo sfogo dei momenti di necessità. Un dialogo non può essere fatto solo di richieste: bisogna anche saper dire grazie, lasciarsi fare delle richieste a nostra volta, porre dubbi, comunicare inquietudini, condividere problemi, ecc... A volte ci capiterà di godere semplicemente della compagnia amichevole di Dio che ci racconta la sua storia, altre volte pretenderemo di essere ascoltati, consolati, aiutati, altre ancora saremo rimproverati o risvegliati. Dipende dalle situazioni.
La preghiera è infatti intessuta di vita. Se recidiamo il legame fra la preghiera e la nostra vita la rendiamo sterile. Ma attenti a non far coincidere la propria vita con gli stati d’animo, quello che mi è successo, o “ come mi sento” o peggio “come va”, altrimenti saremo come dei bambini capricciosi ed egoisti, sempre scontenti perché non hanno mai sufficiente attenzione per sé.
Infatti per il cristiano a stabilire l’orizzonte della propria vita, fin dove arriva la sua esperienza, è la preghiera, non gli stati d’animo. La preghiera amplia i confini della nostra esistenza, facendoci diventare fratelli e sorelle di schiere di uomini che non abbiamo mai visto né conosciuto o che prima non avevamo mai notato. Ci rende intimi di situazioni che non abbiamo vissuto, insistenti per cose che non ci riguardano direttamente ma ci stanno ugualmente a cuore. Per questo è importante, per poter pregare bene, vivere molto, cioè essere curiosi, attenti, sensibili, informati, interessati a tutto quello di bene e di male che accade attorno a noi e nel grande mondo. Tutto diventa materia della nostra preghiera, la alimenta, la fa lievitare come un pane buono che ci nutre. Allo stesso tempo tutto viene illuminato dalla Parola di Dio nella preghiera, ne capiamo la profondità e la rilevanza per noi; viene scaldato dalla Parola di Dio nella preghiera, diviene carne e ossa nostre, sangue che scorre nelle nostre vene. Tanta vita rifluisce così nella nostra, e viene protetta, accolta, benedetta, rasserenata, consolata, salvata da Dio mentre noi gliene parliamo.
La preghiera allora rende sì più forti, perché ci da la certezza di essere ascoltati da Dio, ma allo stesso tempo rende più vulnerabili, perché non c’è dolore del mondo che non diverrà nostro, non c’è grido del povero che non ci ferirà personalmente. La preghiera da il posto giusto anche alle nostre sofferenze e gioie, ai nostri “stati d’animo”, mentre noi da soli siamo portati a enfatizzarli o a banalizzarli. Il loro posto giusto, il nostro posto giusto, è assieme alle gioie e ai dolori del mondo, alle attese di felicità di tanti, al bisogno di pace di interi popoli, all’umiliazione di schiere di deboli, al benessere donato gratuitamente a tanti altri, e tutto questo entra dentro di noi attraverso la preghiera.
Alla scuola della preghiera troviamo allora la verità di noi stessi: la forza e la debolezza, la fragilità del nostro peccato e l’audacia della nostra fede, si realizza quello che dice il Salmo 1:

Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli stolti;
ma si compiace della legge del Signore,
la sua legge medita giorno e notte.

Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo
e le sue foglie non cadranno mai;
riusciranno tutte le sue opere.

Non così, non così gli empi:
ma come pula che il vento disperde;
perciò non reggeranno gli empi nel giudizio,
né i peccatori nel! ‘assemblea dei giusti.

Il Signore veglia sul cammino dei giusti,
ma la via degli empi andrà in rovina.

Con il salmista, anche noi vogliamo imparare a “compiacerci” della Parola di Dio, cioè a trovare in essa la nostra gioia, e a “meditare” giorno e notte la Parola di Dio, cioè a portarla sempre con noi nell’intimo. La preghiera con la Bibbia infatti ci rende capaci, se la praticheremo con costanza e regolarità, di cibarci del piccolo libro, di gustarne i sapori forti e contrastanti, che sono poi i sapori della vita, per farne nostra carne e sangue, così da essere sempre in sua compagnia.

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