martedì 27 aprile 2010

Meditazioni tempo di Pasqua 2010 - I


Tempo di Pasqua, tempo della decisione

Solo pochi giorni fa abbiamo ricevuto l’annuncio della resurrezione del Signore e ci troviamo per questo in un tempo speciale, quello che la Chiesa chiama, per l’appunto, Tempo di Pasqua.
Per gli apostoli questo fu un tempo strano: nei vangeli domenicali di queste settimane si vede bene la loro grande difficoltà a credere alla resurrezione del Signore. Non tanto perché non credessero che era avvenuta, su questo non hanno dubbi, ma non hanno ancora capito cosa questo può e deve significare per la loro vita. È il significato cristiano del termine “credere” che non è una idea filosofica, ma esistenziale, cioè concreto-pratica che riguarda la vita (anche il diavolo sa che Dio esiste, e in questo senso crede, ma gli è nemico). Fino a Pentecoste i dodici vivono come in sospeso, incerti fra il fare la vita che facevano con il Signore (ma dopo tutto quello che era successo e, soprattutto, senza Gesù come era possibile?) e il tornare alla vita di prima dell’incontro col Signore, come se quel tempo passato con lui fosse una parentesi ormai chiusa.
In fondo è la nostra stessa condizione.
Questo tempo di Pasqua anche per noi infatti è il tempo della tentazione di tornare alla vita di sempre come se la resurrezione del Signore fosse qualcosa che non lascia traccia nella nostra vita, dal momento che non lascia traccia nella vita del mondo. È il nodo del conformismo alla mentalità del mondo. Viviamo infatti la tentazione di soccombere alla forza corrosiva della normalità della vita che ci spinge a conformare le nostre giornate al modo di vivere di sempre, di tutti, nella continuità immutabile delle abitudini. È il tentativo del maligno di annullare la traccia del passaggio di Gesù nel mondo, di renderlo inefficace e inutile: è una tecnica molto più astuta ed efficace, piuttosto che cercare di opporvisi apertamente.
D’altronde cos’altro dovremmo fare? Così fanno tutti, così si è sempre fatto, così ci viene spontaneo, ecc… E’ lo stesso atteggiamento degli apostoli.
Lo vediamo in quei due anonimi che se ne tornano ad Emmaus, quello che era probabilmente il loro paese di origine; in Pietro e negli altri che vanno a pesca e restano a mani vuote (nemmeno riescono a fare più quello che facevano prima); in Tommaso che se ne sta per conto suo, scettico e amareggiato; nei discepoli che se ne restano ancora spaventati a porte chiuse, ecc… Piano piano Gesù va scomparendo dalla loro vita e diventa un vago ricordo evanescente, tanto che quando lo incontrano nemmeno lo riconoscono più.
Il fatto che ancora stanno insieme significa che comunque non si sono ancora dispersi, ma allo stesso tempo non sanno che fare. Vivono una grande indecisione: sono lacerati fra il ricordo dell’emozione forte della passione, la gioia inattesa e intensa della pasqua, e l’incapacità a prendere decisamente l’iniziativa di annunciare a tutti quello di cui erano stati testimoni.
Ma, come accade sempre quando gli uomini non scelgono, è il mondo che decide per loro; non esiste la neutralità, e anche nei discepoli di Gesù si insinua la tendenza istintiva a conformarsi alla vita del mondo, si impone la normalità del conformismo.
Eppure Gesù aveva detto loro quello che sarebbe accaduto, li aveva voluti preparare perché non soccombessero al timore e alla tristezza, li aveva esortati a continuare ad annunciare il Vangelo, li aveva confortati e rafforzati, ma non lo avevano ascoltato e ora non ricordano nemmeno quelle parole. È l’ascolto selettivo che anche noi facciamo della Parola di Dio, della quale ascoltiamo solo quello che entra nei nostri schemi e combacia con le nostre convinzioni, quello che resta fuori non gli diamo importanza e lo dimentichiamo con facilità.
Ci chiediamo: che fare ?
Innanzitutto dobbiamo riaffermare con forza un concetto non scontato: la resurrezione non può essere messa in un cassetto, come una foto ingiallita. Segna una svolta nella storia dell’umanità. Il terremoto che accompagna la morte di Gesù scuote il mondo intero e, dice Clemente di Alessandria, cambia la vita di tutta l’umanità, anche di quella che non se ne è nemmeno accorta.
D’altronde non si può nemmeno risolvere tutto con un po’ di entusiasmo in più, o di romantica partecipazione, in una adesione solo un po’ più elettrizzata o intensa. Durante la Settimana Santa ricordavamo che mai come durante la passione Gesù è un corpo in balia del suo tragico destino: quasi non parla, non compie miracoli, non si dice dei suoi pensieri, della sua psicologia, ma si esalta invece la sua condizione fisica di prigionia, tortura, morte. Anche il Risorto mantiene la fisicità delle ferite, che non sono cancellate. Per questo la forza di cambiamento della resurrezione non può essere circoscritta nell’ambito dei sentimenti o degli stati d’animo, ma ha necessariamente un carattere concreto.
Nel Vangelo di Luca c’è un passo significativo che mette insieme l’annuncio della passione, l’incredulità dei discepoli e la forza salvatrice del Signore. Dicevamo nella preghiera del mercoledì dopo Pasqua che la domanda che in questo brano viene formulata da Gesù al cieco è in un certo senso la domanda che il Risorto pone a ciascun uomo e donna dopo la Pasqua:

“Poi prese con sé i Dodici e disse loro: "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell'uomo: verrà infatti consegnato ai pagani, verrà deriso e insultato, lo copriranno di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà". Ma quelli non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto.
Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: "Passa Gesù, il Nazareno!". Allora gridò dicendo: "Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!". Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: "Che cosa vuoi che io faccia per te?". Egli rispose: "Signore, che io veda di nuovo!". E Gesù gli disse: "Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato". Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.” (Lc 18, 31-43)

Vediamo come nella prima parte del brano Gesù preannuncia ai discepoli tutto quello che gli sarebbe accaduto nella passione, compresa la resurrezione, ma essi non comprendono e non danno importanza a quelle parole: si sa che Gesù era un visionario, sempre un po’ esagerato.
Subito dopo però si apre la scena di un poveraccio, un cieco che, accortosi che Gesù passa vicino a lui, invoca gridando il suo aiuto. A partire dal suo bisogno di essere salvato il cieco trova la forza per oltrepassare ogni ostacolo che la gente e il mondo frappone fra lui e Gesù. Il Signore risponde alla sua invocazione di salvezza ponendo una domanda concreta e semplice: "Che cosa vuoi che io faccia per te?"
È la domanda di Pasqua che il Signore pone a ciascuno: “Da cosa la mia resurrezione può salvarti? ”
Il cieco è pronto a rispondere, perché il suo bisogno è grande ed evidente: “Signore, che io veda di nuovo!” e la sua vita cambia in modo radicale e definitivo: torna a vedere e prende a seguire il Signore. Niente è come prima!
Per noi che ci sforziamo così tanto di nascondere il nostro bisogno e il nostro peccato è difficile dire da cosa il Risorto ci può salvare e come la nostra vita può cambiare dall’incontro con lui dopo la Pasqua. Badiamo bene, non cosa ci farebbe comodo o cosa vorremmo, che siamo tutti pronti a dire, ma da cosa salvarci.
Lo stesso era per i discepoli. Erano talmente schiavi della paura e della tristezza che avevano dimenticato che Gesù li aveva amati e chiamati uno ad uno per farli “pescatori di uomini”, “mietitori” di una messe abbondante, “annunciatori di una buona notizia”, portatori della “pace vera”, ecc … e non pescatori conformisti alla vita del mondo.
Ci chiediamo: dove troviamo la risposta alla domanda di Gesù sulla Pasqua?
Nel tempo di Quaresima ci siamo fermati sulla Scrittura per prepararci a ricevere l’annuncio della resurrezione. Non è stato tempo perso. Come dicevamo allora, abbiamo accumulato nella nostra interiorità un piccolo tesori di parole, sentimenti, passioni, coscienza, che ora che siamo davanti alla difficoltà di cercare una risposta possiamo tirare fuori, come lo scriba saggio del Vangelo. Chi non ha fatto questo sforzo si ritrova vuoto e privo di parole. Ripartiamo allora da quelle parole e dalle parole del Vangelo della passione per trovare come rispondere a Gesù.
Riassumendo, in sintesi ci dicevamo come la cultura del mondo di oggi ci spinge a vivere nell’isolamento individualista e nel materialismo che dà valore solo a quello che si compra e si vende. In questo clima la Scrittura ci aiuta a ricostruirci un cuore, uno spazio interiore in cui coltivare sentimenti di pietà e amore e a ricostruire un tessuto umano di legami di amicizia. Nelle liturgie della Settimana Santa abbiamo sottolineato la passione che Gesù vive intensamente in quei giorni, come per lasciare un testamento ai suoi, a partire da quell’ultima decisiva cena con loro in cui ha lavato i piedi, e poi, il Venerdì santo, Gesù abbandonato, tradito e messo in croce compie come un estremo disperato tentativo di lasciare la sua eredità di amore dicendo a Maria di essere madre di Giovanni e a lui di farsi suo figlio. È un seme gettato in quegli ultimi due che gli sono rimasti, un tentativo di costituire una famiglia che non faccia disperdere tutto quello che aveva insegnato e realizzato nella sua vita.
Sotto la croce nasce una nuova famiglia fondata non sul sangue né sull’affinità di carattere o su qualsiasi altro legame “naturale” ma sul fatto di essere rimasti ai piedi della croce di Gesù e di avere raccolto quel suo ultimo estremo invito pronunciato con l’ultimo respiro rimastogli.
Tutte queste cose le abbiamo riposte nel nostro cuore, quello spazio interiore che piano piano ci siamo ricostruiti in Quaresima. Non è stato tempo inutile o sprecato, ma preparazione quanto mai opportuna, e oggi abbiamo quel piccolo tesoro in noi. Da esso vogliamo partire in questo tempo d’indecisione e d’incertezza, fra la gioia della resurrezione e la tentazione del conformarci alla vita normale.
Non possiamo tornare alla vita di sempre perché abbiamo ricevuto un’eredità preziosa ai piedi della croce, quella di vivere l’amore di una nuova famiglia.
Riusciamo allora forse a balbettare una risposta concreta alla domanda del Signore: “Che cosa vuoi che io faccia per te?" Ci vengono parole ancora incerte e balbettate, ma non restiamo muti o indifferenti, come i discepoli dimentichi. Diciamo oggi: “Che io prenda a vivere non come un individuo isolato e spaventato, ma fratello e figlio della nuova famiglia che nasce sotto la croce.”
Proprio perché è una risposta concreta ad una domanda concreta non possiamo pensare di vivere l’amore universale per l’umanità. Dobbiamo individuare almeno un punto da cui partire, una persona a cui voler bene, un ambito concreto in cui cominciare a farlo, ecc…
Vorrei proporvi due ambiti concreti in cui la Pasqua può apportare alla nostra vita i tratti concreti della novità:
la liturgia, con i fratelli e le sorelle famiglia del Padre che viene a stare con noi.
Il servizio ai poveri, la paternità affettuosa per i senza famiglia.

Di questi due ambiti parleremo i prossimi incontri, assieme all’obiezione scontata che accompagna ogni impegno concreto: ne vale la pena, visto che siamo così pochi?

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